lunedì 29 agosto 2011

Storia di Neve

Storia di NeveUn romanzo che è al contempo storia, fiaba e vivido dipinto della montagna e delle sue regole aspre e antiche. Questo attende chi si appresta ad attaccare le 800 e rotti pagine del poderoso STORIA DI NEVE di Mauro Corona, edito con Mondadori.
Neve è una fanciulla speciale nata nel paesino montano di Erto, nella valle del Vajont. La vita, breve e costellata di dolori, le è stata concessa in funzione di uno scopo ben preciso: ella deve fare del bene, quanto più può, durante gli anni che il fato ha prestabilito. Neve è la parte immacolata e piena d’amore dell’antica strega Melissa, assassinata in maniera atroce e morta nell’odio, imprigionata in un inferno di ghiaccio in cui il Demonio le ha concesso di torturare per cinquecento anni gli abitanti del villaggio di Erto dopo la loro morte, perché possano espiare i loro peccati. Melissa, però, desidera concedere una possibilità alla propria parte buona; per questo, in una gelida notte di gennaio, nasce Neve, la bambina dei miracoli dalla pelle di bianco fino e il corpo che non sente il gelo.
Questa bambina diventa il motore di una valanga che coinvolge, nel bene o nel male, l’intero villaggio di Erto. I suoi miracoli, però, sono un’arma a doppio taglio. Il padre, Felice Corona Menin, decide di sfruttare la fama della figlia per fare soldi, macchiandosi di azioni sempre più orrende ed efferate. Inoltre, la missione della bambina la costringe a stare quanto più lontana possibile dalla sola cosa che può rendere veramente felici: l’amore. Condannata a pensare al prossimo invece che a se stessa, a Neve è severamente vietato amare un uomo. Quando nel paese nasce Valentino, la sua anima gemella, inizia una esistenza di privazioni, di sforzi per tenersi a distanza. Neve, infatti, a contatto con la sua metà si scioglie, perde acqua, svanisce pian piano come un pezzo di ghiaccio esposto al sole.
Cosa porterà questa creatura magica nel prosaico paese di Erto? I suoi ventinove anni di vita promettono di essere indimenticabili, nel bene o nel male.
Corona è uno scrittore sincero, senza fronzoli, che usa con sicurezza e senza pretese intellettuali il linguaggio diretto e antico della fiaba. Come una fiaba, infatti, Storia di Neve si dipana tra magie, misteri, povera vita quotidiana, streghe e orrori. Le favole, d’altra parte, sono piene di orrori. Questa non fa eccezione, l’uomo non può vivere senza e in presenza di miracoli il Male lavora alacremente sulla fetta di anime che gli spetta.
Gli abitanti di Erto sono come le montagne che governano la loro esistenza. Chiusi, incrollabili nel loro mutismo, nel rifiuto a lasciar entrare nei loro affari chiunque venga dall’esterno, laico, gendarme o esponente della Chiesa che sia. Quello che succede in paese resta in paese, si tratti di una disgrazia, di un omicidio o di un felice segreto. Solo i miracoli di Neve si spargono nelle valli come portati dai canti degli uccelli, ma questo perché il padre è un traditore, un uomo che farebbe qualsiasi cosa per denaro e per l’effimera gioia di essere il più potente e il più ricco della valle.
La magia corre come una lama sottile attraverso il paese, i monti, i corsi d’acqua. Permea ogni cosa, rivelandosi nel testardo rancore delle streghe di Erto, una per una violate e uccise e per questo fautrici di terribili vendette che si protraggono ben oltre la morte del loro corpo. Gli animali sono veicolo di forze terribili, incarnazioni di qualcosa che non si può né capire né fermare, pur in un’epoca ormai moderna come quella in cui si svolge la vicenda.
I bassi istinti degli esseri umani fanno a gara con i sentimenti più puri e dolci, prendendo spesso il sopravvento. Poter osservare non visti i silenzi degli abitanti di Erto è un onore alquanto dubbio. E’ la vicenda di un’intera comunità quella che si va a leggere, non tanto la storia della sfortunata Neve.
Vi aspetta un romanzo carico di significati, una bella lettura. Forse un po’ lungo, ma meritevole del tempo trascorso nelle sue pagine.

venerdì 12 agosto 2011

I Leoni morti

I leoni morti. La battaglia di BerlinoSiamo agli sgoccioli di ciò che per anni è stato il Male impersonificato, non solo in Europa ma in buona parte del mondo conosciuto. Il regime nazista sta crollando nella polvere delle strade di Berlino, tra le macerie dei suoi edifici sventrati, sul suono delle grida dei suoi cittadini che subiscono le atrocità dei nuovi arrivati, non gli americani ma i sovietici, primi a violentare la città che sembrava imprendibile, inarrivabile.
In questo allucinante scenario, mentre nel bunker ove sono rifugiati gli ultimi esponenti del regime ancora fedeli ad un Adolf Hitler sempre più debilitato nel fisico e nella mente si prendono le ultime, drastiche decisioni e si continua al di là di ogni razionalità a fare piani per non permettere ai bolscevichi di profanare i luoghi simboli del Reich, si muovono i soldati della SS Charlemagne, formata da volontari francesi che combattono sotto la bandiera tedesca con un’unica motivazione: tenere la minaccia Rossa lontana dall’Europa.
“I Leoni Morti” (RITTER), scritto da Saint-Paulien (uno pseudonimo) sotto forma di romanzo, racconta l’ultima resistenza di questo corpo delle SS tramite gli occhi del protagonista, il capitano Christian Gauvin. Visti come traditori da chi, in Francia, ritiene Hitler nient’altro che il nemico conquistatore, i soldati della Charlemagne combattono, al contrario, nella ferrea convinzione di stare facendo il meglio delle loro possibilità per difendere la propria Patria contro un nemico molto peggiore dei nazisti.
Gauvin, anzi, si troverà a riflettere spesso, nell’attesa di un nuovo, acceso scontro strada per strada, che il nazismo ha avuto fin dal principio un rapporto di colpevole collaborazione con il regime di Stalin e che quanto sta avvenendo nell’Est dell’Europa non è altro che il risultato di una politica volta troppo ad occidente invece che verso il nemico più forte e insidioso.
Partendo da queste premesse, “I Leoni Morti” ci porta a seguire gli sforzi e il coraggio di coloro che, parlando di fazioni avverse, erano all’epoca dalla parte del ‘nemico’. Il libro invita a vedere un momento decisivo della storia moderna attraverso un’altra ottica, non necessariamente da condividere ma possibilmente da valutare con attenzione, rispetto per l’eroismo e l’umanità a volte commovente presenti in tutti i soldati del mondo quanto la crudeltà e le efferatezze.
Mentre Hitler si suicida e gli ultimi rimasugli del governo nazista si disgregano, la Charlemagne combatte la propria battaglia contro l’orda comunista fino all’ultimo uomo, fedele alla propria ideologia fino alla fine.
E’ una lettura che consiglio (nonostante la presenza di numerosi refusi che fanno scadere la qualità del prodotto editoriale). La consiglio a chi è di destra, a chi è di sinistra, a chi come me è apolitico e vuole solo ampliare la propria conoscenza. Perché? Perché la Storia è scritta dai vincitori e questo significa che la realtà che ci viene propinata è sempre parziale. Nessuno è totalmente buono; nessuno totalmente malvagio. Crederlo è non solo ingenuo, ma pericoloso. Gli ultimi sessant’anni sono stati costruiti sulla base di una dicotomia Bene/Male così decisa che, se negli anni appena successivi alla guerra essa era giustificata dalla necessità di esorcizzare gli orrori vissuti, ora diventa un atto di ignoranza e culla di movimenti politico-attivisti che non sono migliori di ciò che insultano (da entrambe le parti).
Al contempo non sto inneggiando alla neutralità a tutti i costi. Ci sono atti che non possono essere perdonati, ci sono decisioni che una volta prese non perdono mai più la loro valenza di Male. Capire come si è arrivati a ciò, però, non è mai sbagliato. Rendersi conto che le forze in gioco e gli interessi in ballo sono sempre molto più complessi e ingarbugliati di quanto ci viene insegnato può concederci una maggiore ampiezza di vedute e quindi una minore possibilità di essere spostati qua e là come parte di una ‘massa’.
Un libro per chi ha un po’ di fegato, per chi non ha paura di scrutare l’altra faccia della medaglia e fare qualche domanda.

domenica 7 agosto 2011

Il cimitero di Praga

Cosa lega il capitano Simonini, notaio e falsario di lungo corso, all’abate Dalla Piccola, schivo uomo di Chiesa? Perché i loro appartamenti sono comunicanti? Cosa nascondono i loro diari e perché la memoria dell’uno presenta inspiegabili momenti di tenebra su cui solo l’altro sembra in grado di fare luce? E cosa c’entrano questi due personaggi con i grandi fatti storici che porteranno alle Grandi Guerre del ‘900?
Simonini, nato nel Piemonte del Regno di Savoia e cresciuto dal nonno, un militare acceso antisemita, sviluppa negli anni un odio viscerale verso la figura dell’Ebreo, nonché una misoginia talmente forte da sfociare nel totale disgusto verso il corpo femminile. L’unico suo piacere è la buona tavola, la cucina di classe, cibo e bevande che possano portare godimento al suo corpo. Per quanto riguarda il resto, odia tutto e non si fida di nessuno, nemmeno degli uomini di Chiesa. Ha poi un’avversione particolare per i Gesuiti.
Questi tristi tratti del suo carattere vanno radicandosi tanto da farlo diventare un uomo subdolo, disonesto, il cui più grande piacere è screditare gli oggetti del proprio odio. Gliene viene data l’occasione: il governo sabaudo si accorge delle sue potenzialità e decide di utilizzarne le doti di falsario per modificare a proprio piacimento le dinamiche e i passaggi del potere in Meridione, ove è in pieno svolgimento la missione dei garibaldini.
Da questo fatto comincia la carriera di Simonini, che lo porterà poi a Parigi e lo metterà in contatto con i servizi segreti di molti governi europei, sempre alla ricerca di documenti falsi che possano cambiare l’opinione pubblica o giustificare decisioni di grande portata internazionale.
Così prende il via l’ultimo romanzo di Umberto Eco, IL CIMITERO DI PRAGA, edito da Bompiani in un’edizione quantomai raffinata. A una sovracoperta che mostra un tenebroso vicolo fin de siècle, si accompagna un cartonato del più immacolato bianco e un testo stampato in caratteri differenti a seconda del narratore del momento (l’autore, Simonini o Dalla Piccola). Inoltre, il romanzo è costellato da illustrazioni, stampe a bulino espressamente cercate e volute dall’autore, in ricordo dei feuilleton (i romanzi a puntate) del XIX secolo. L’impressione è di trovarsi in mano un’opera pensata fin nei minimi dettagli, ivi compresi quelli estetici, e la lettura non delude.
Il romanzo è una finestra spalancata sul mondo del falso storico e della teoria della cospirazione, il corrispettivo letterario del vicolo di un quartiere malfamato, umido e puzzolente, in cui si riproducono e crescono ratti a migliaia, pronti poi a diffondersi come una malattia. Eco mostra attraverso il suo protagonista- un personaggio gretto e repellente a tal punto da risultare odioso fin dalle prime righe- come le teorie antisemite hanno preso forma nell’Europa dei movimenti rivoluzionari, seguendo la pubblicazione e la divulgazione di trattati tendenziosi e prove costruite a tavolino – e ben pagate- per offrire solide basi alle scelte politiche di quegli anni.
Assistiamo inoltre alla nascita delle teorie cospiratorie riguardanti la Massoneria e la condanna del potere dei Gesuiti, che spariscono inesorabilmente dal panorama europeo. Le tesi sulla cospirazione (massonica, comunista, aliena…) del secolo scorso sono dirette figlie di questa fabbrica di Storia, di una Verità decisa da pochi e spacciata per assoluta. L’odio micidiale dell’Europeo nei confronti della minaccia ebraica, sfociato nei pogrom sovietici e nelle persecuzioni naziste, è cresciuto nutrito dal limo malsano di queste invidie, di questi odi atavici supportati da una letteratura malata, dalla compravendita di documenti fabbricati all’uopo.
Il romanzo di Eco è un viaggio buio attraverso la grettezza dell’era contemporanea al suo nascere, sdrammatizzato da uno stile frizzante, caustico. Un’ottima lettura, senza timore di finire nel pantano di troppe nozioni storiche.
E, alla fine, anche il legame tra Simonini e un abate che avrebbe dovuto avere la decenza di rimanere morto verrà svelato…

sabato 6 agosto 2011

L'Acchiapparatti

Le Terre di Confine vivono in un tristo e cupo Medioevo, segnato dalla miseria e da esistenze fatte di espedienti. Anche sulle vie che collegano tra loro le città, la criminalità non dà tregua e chi è debole rischia ogni giorno di terminare il proprio viaggio terreno in modo brusco e sanguinoso. La fede nell'unico Dio e l'ortodossia verso la Chiesa della Luce, garantite entrambe dai Guardiani dell'Equilibrio, hanno bandito la magia dal mondo.
 È in questo contesto di stanca quotidianità e grettezza che FRANCESCO BARBI ci proietta fin dalle prime pagine de L'Acchiapparatti di Tilos, edito nel 2007 da Editrice Campanila (ristampato da B.C.Dalai Editore con il titolo L'Acchiapparatti), tratteggiando il territorio in cui il lettore si muoverà con descrizioni semplici nel linguaggio ma estremamente evocative.
In queste martoriate Terre di Confine si intrecciano le vite di alcuni improbabili personaggi, che di certo non corrispondono allo standard cui il Fantasy più scontato ci ha abituato.
Nella città di Tilos, l'iroso e scostante Ghescik, un becchino appassionato di magia e scritture antiche che ha trascorso una giovinezza resa difficile dal suo aspetto gobbo e deforme, sottrae all'ormai defunta strega Macba un ciondolo misterioso che la vecchia portava sempre con sé. L'oggetto, la cui forma ricorda quella di un pesce o quella, più inquietante, di un occhio, dovrebbe essere la chiave per scoprire i segreti della magia ancora nascosti all'interno dell'antica torre dove un tempo dimorava lo stregone Ar-Gular.
Ansioso di entrare in possesso di queste antiche conoscenze, Ghescik si reca alla torre, ma non prima di aver carpito all'erborista Tamarkus, con una scommessa truccata, un altro manufatto utile alle ricerche: un libro nero appartenuto proprio ad Ar-Gular.
Il manoscritto si rivela però troppo complicato da tradurre, e il ciondolo non apre alcuna porta né svela alcun enigma; il misero bottino trafugato dalla torre si riduce così a un diadema di metallo tolto dal cranio di uno scheletro polveroso.
Ricercato dagli scagnozzi di Tamarkus, Ghescik si rifugia a casa del suo unico amico, Zaccaria. Costui è un mentecatto tanto espansivo quanto suonato, un poveraccio emarginato a causa dei suoi modi irritanti (che passano dall'ipercinetico al catatonico), ma capace di inventarsi un mestiere che in qualche modo gli consente di sopravvivere a Tilos e di cui va fiero: acchiappare ratti.
Nonostante i suoi difetti, Zaccaria possiede un'abilità quasi sovrumana nella lettura degli antichi linguaggi, e il becchino se ne serve per farsi tradurre il libro. Le informazioni così ricavate sono tuttavia poco chiare, lasciano intravedere oscure ombre, magie proibite che hanno intessuto una rete di follia attorno allo stregone Ar-Gular. La cosa, ben lungi dal far desistere Ghescik dai suoi propositi di conoscenza, lo induce anzi a indossare il diadema, oggetto chiave degli ultimi incantesimi dello stregone ma destinato a portare dolore e morte. Esso mette infatti il becchino in contatto mentale con il Boia di Giloc (chiamato anche Mietitore), una bestia demoniaca che vive da più di quattrocento anni rinchiusa nelle segrete della città. Risvegliata la sua sete di vite umane, il mostro evade, e la sua falce inizia a seminare morte in lungo e in largo per le Terre di Confine.
Scioccato dalle proprie responsabilità nella vicenda e al tempo stesso smanioso oltre ogni dire di riunirsi al demone per carpirne i segreti, Ghescik parte per un viaggio verso Giloc in compagnia dell'acchiapparatti - traduttore ufficiale e persona più informata di quanto il becchino non sappia - e di una prostituta con la passione per il cibo, Teclisotta. Lo sgangherato gruppo ne passerà di tutti i colori, incrociando il proprio destino con quello di numerosi altri personaggi: Orgo il gigante tardo di mente, lo sfigurato cacciatore di taglie Gamara, gli evasi di Giloc, la strega Guia.
A caccia del Mietitore o in fuga da esso, i protagonisti dovranno trovare un modo per sciogliere l'incantesimo che tiene in vita la creatura sanguinaria, riuscendo al contempo a salvare la pelle. E, tra tante persone dall'intelletto fino, chi crederebbe mai che la soluzione riposi nell'insondabile mente di un matto?
Nell'arco delle sue quattrocento e più pagine, L'Acchiapparatti di Tilos non cede a un momento di noia. Subito affezionati ai deliranti e toccanti modi di fare di Zaccaria, la mente e il cuore del lettore rimangono costantemente avvinti ai misteri che permeano la storia fino al suo epilogo.
Il "diverso" occupa tutti i posti d'onore all'interno del romanzo. Ghescik lo è nel corpo, gobbo e zoppo, ma la sua mente è sveglia e scaltra e lo condanna a percorrere una strada oscura e autodistruttiva. Zaccaria, oltre al corpo allampanato, è diverso nella mente, un povero pazzo, simpatico ma spossante con le sue fisse, incapace di seguire un filo logico; eppure, si rivela essere il più illuminato e lungimirante di tutti. Anche Orgo il gigante è un mentecatto, forte ma stupido, capace di comunicare solo il suo nome e di sciorinare pochi proverbi sgrammaticati. Gamara poi è orribilmente sfigurato, ed esercita la professione del cacciatore di taglie, cosa che lo rende un fuori casta. Perfino Guia non è altro che una vittima delle superstizioni altrui, imprigionata a causa dei suoi talenti di strega.
Tra tanta gente che si ritiene furba e sana di mente, saranno proprio i matti a risultare i "vincitori". L'autore tratteggia i deboli con fine sensibilità senza essere melenso né cadere nel patetico, rendendoli cari al lettore per ciò che sono, senza fronzoli o giustificazioni. La sottile corrente di ritorno all'innocenza e alla purezza di cuore, alla pur sgradevole verità, attraversa tutto il romanzo, trovando paradossalmente il proprio territorio nell'antica magia invece che nella razionale e rassicurante religione della Luce.
Barbi ha l'ulteriore pregio di saper modificare il proprio stile narrativo a seconda delle situazioni. Si passa dal comico-grottesco al drammatico, in una commistione di linguaggio che rende più saporita la trama. Le sequenze di maggiore tensione vengono risolte in un rapido e inaspettato passaggio dall'uso del passato remoto a quello del presente; se ne ricava quasi l'impressione dello scorrere di una pellicola cinematografica, in grado di cambiare la velocità tramite scelte di montaggio. Queste variazioni non sono fastidiose, anzi regolano il ritmo ponendolo in sincrono con l'ansia e l'aspettativa di chi legge.
Le sequenze del Mietitore sfiorano l'horror, non solo per la crudezza delle scene di sangue ma anche per le situazioni angosciose che caratterizzano le sue entrate in scena. Il lento salire della tensione, l'imprevedibilità delle azioni del mostro e le vite spezzate dalla sua falce toccano in modo efficace l'immaginario.
Spigliato, coraggioso e a tratti commovente, L'Acchiapparatti di Tilos è un ottimo romanzo, adatto anche a chi non va pazzo per il genere Fantasy.