lunedì 24 dicembre 2012

Billy Budd

Non è una cosa semplice accostarsi alla lettura dei romanzi di Herman Melville, scrittore americano che viene ritenuto uno dei padri fondatori della letteratura d’oltreoceano. I motivi per cui risulta ostico alla lettura sono gli stessi che durante la sua vita lo resero inviso al mercato letterario e al giudizio dei critici, relegandolo per lungo tempo nel triste limbo degli scrittori incompresi e misconosciuti, ma costituiscono anche la cifra stilistica inconfondibile che lo caratterizza e lo rende unico.
Melville fu per lungo tempo un uomo di mare e l’esperienza vissuta lo seguì per sempre attraverso i suoi scritti. Il suo romanzo più famoso, “Moby Dick”, è un’epopea dei mari conosciuta a chiunque. La lotta quasi soprannaturale tra l’uomo e la balena, tra Achab e Moby, ha il fascino terribile e ambiguo della lotta tra il Bene e il Male.
A collidere con l’ambientazione rude, prettamente d’azione, sul limite tra la vita e la morte come sempre capitava quando si andava per mare, Melville utilizza una prosa verbosa, prolissa, a tratti quasi involuta. Si tratta di una scelta precisa, operata con maestria, ma che richiede uno sforzo da parte del lettore. I concetti spesso vengono presentati tramite ampi giri di parole, negazioni di enunciati contrari. La narrazione ha un peso molto superiore rispetto al dialogo, che potrebbe in qualche modo alleggerire la pressione dell’oceano di parole, e ogni riferimento ha lo scopo di comporre un disegno dettagliato, una sorta di immenso dipinto del veliero in balia delle onde e del suo equipaggio.
Nei suoi romanzi, Melville tenta di dipingere attraverso il microcosmo interno di un veliero le dinamiche, le grandezze e gli abissi di cui è capace la razza umana. La sua visione cupa dell’esistenza fu un altro dei motivi che non contribuì al suo successo in un’America che si avviava verso il brillante progresso.
Nel breve romanzo in questione, scritto dall’autore prima di morire e parzialmente rimaneggiato dalla moglie, Melville racconta la storia di un agnello sacrificale, con precisi riferimenti spirituali, religiosi. E’ un inno all’innocenza e la riprova che essa finisce sempre per soccombere alla gretta invidia, alla cupa oscurità dell’animo umano, poco propensa a riconoscere e coltivare la Luce.
Billy Budd è un giovane marinaio che si imbarca su una nave da guerra della Marina Britannica, non per sua volontà ma per obbligo. Il fatto, che avrebbe potuto far nascere rancore nell’animo di chiunque, provoca solo una certa tristezza e un po’ di disorientamento nel ragazzo, che è fondamentalmente un innocente incapace di concepire pensieri negativi e, quel che è peggio, di riconoscerli negli altri.
Billy, infatti, è un semplice. Una sorta di angelo di mare, caratterizzato da un aspetto bellissimo che sulla precedente imbarcazione gli aveva fruttato il titolo di Bel Marinaio e l’affetto di tutto l’equipaggio. Capelli biondi, viso luminoso, occhi vivaci, una struttura fisica robusta ma contrassegnata da quel non so che di aristocratico che lo fa spiccare in mezzo agli altri. Oltre a ciò, è provvisto di una gran voglia di lavorare, disciplina e talento nel suo mestiere. Unico difetto: la tendenza a balbettare quando si agita.
Saranno proprio queste qualità positive, ma ancor di più la sua innocenza, a suscitare l’invidia del Maestro d’Armi John Claggart, che dapprima lo bersaglia di piccoli dispetti e poi, tramite un astuto stratagemma, si propone di denunciare il ragazzo al Capitano Vere, un uomo di saldi principi, per tentato ammutinamento e sobillazione. L’accusa infamante giunge in un momento di forte tensione nella Marina, a seguito di episodi drammatici di ammutinamento per le condizioni di vita sulle navi, che ha provocato un giro di vite nell’applicazione delle punizioni per qualsiasi infrazione.
Il Capitano non crede all’accusa di Claggart, ma Billy perde la parola di fronte a illazioni tanto infamanti e, per la frustrazione, sferra un colpo al Maestro d’Armi. Il pugno è così violento da uccidere Claggart. Pur con la morte nel cuore, sapendo che in un simile momento non ci si può permettere di essere clementi, Vere condanna Billy all’impiccagione per l’omicidio di Claggart.
La morte del giovane segna l’intero equipaggio. La storia si conclude con una poesia che racconta gli ultimi istanti di Billy, probabilmente il nucleo originario da cui si sviluppò tutto il romanzo.

martedì 18 dicembre 2012

Velieri

Il veliero, la magnifica imbarcazione dagli alberi svettanti, le vele spiegate al vento, che per secoli ha solcato mari e oceani diventando simbolo di libertà e avventura, è caratterizzato da una storia entusiasmante fatta di innovazioni, evoluzioni, sfide e battaglie. Purtroppo, nel nostro Paese esiste pochissimo materiale di consultazione sull’argomento, nonostante la nostra gente viva da sempre a stretto contatto con il mare.
Attilio Cucari, nel suo “Velieri – Storia e tipologie dei dominatori del mare”, propone un viaggio attraverso l’evoluzione del veliero dal Medioevo fino agli ultimi giganti degli oceani, scomparsi nel XX secolo. Il volume a colori, in un particolare formato quadrato, riassume le caratteristiche del manuale tecnico e del libro d’arte. Ogni tipologia di veliero viene dapprima presentata sotto il profilo storico e tecnico, grazie a brevi capitoli caratterizzati da un linguaggio semplice e diretto, che offre una conoscenza della nomenclatura specifica e non si presta né a fraintendimenti né a confusione da parte del lettore.
Dopodiché, si passa alla descrizione di alcune imbarcazioni appartenenti alla “famiglia” appena presa in esame. Ogni veliero è presentato tramite uno schematico elenco delle specifiche tecniche (dimensioni, tonnellaggio, armamento), un prospetto dello scafo e dei ponti e una descrizione spigliata e gradevole della sua storia, dal varo alle avventure per mare, fino all’eventuale affondamento o disarmo. Per chiudere in bellezza, ogni veliero è stato riprodotto a colori, nei minimi dettagli. Queste illustrazioni pregevolissime vanno a coronare un progetto encomiabile e consentono una comprensione superiore di quanto descritto a parole.
Il primo veliero vero e proprio fu la cocca, imbarcazione mercantile medievale utilizzata sia nelle acque del Mediterraneo sia nei mari del nord europeo. Lo scafo era composto di assi di legno, denominate fasciame, di norma sovrapposte bordo su bordo. Il ponte della nave presentava due parti rialzate, i castelli, una a poppa (il fondo della nave) e una a prua (la parte frontale). Le vedette e gli arcieri che difendevano l’imbarcazione da eventuali attacchi prendevano posto sulle coffe, piattaforme protette da parapetti che si trovavano sugli alberi della nave. La cocca presentava un solo albero centrale, detto albero di maestra, con vela quadra. Successivamente vennero introdotti altri due alberi, uno sul castello di poppa (mezzana) e uno su quello di prua (trinchetto). Le vele potevano essere quadre o triangolari (vele latine), governate tramite il sartiame, una complicata serie di corde e carrucole. Il timone era costituito da due remi fissati ai lati della poppa. In epoca successiva, invece, venne sviluppato un timone centrale alla poppa, detto timone alla navaresca. La cocca poteva già portare a bordo armi da fuoco pesanti.
L’erede della cocca fu la caravella, divenuta famosa per essere stata l’imbarcazione utilizzata nei viaggi verso le Americhe. Questo veliero nacque all’inizio del 1400 e la sua fortuna coincise con le grandi traversate oceaniche, per poi declinare verso il XVII secolo. La caravella aveva una forma panciuta e tonda. Di norma presentava tre alberi, con vele quadre e latine che le conferivano una grande velocità e agilità di manovra. In aggiunta, l’albero di bompresso, che si prolungava esternamente dalla prua, aveva una vela quadra chiamata civada. Le caravelle più grandi presentavano un cassero a poppa, vale a dire un castello sopraelevato rispetto a quello di prua.  Questo veliero era soggetto a problemi strutturali, ma nel complesso si trattava della nave più affidabile e innovativa in circolazione, almeno fino all’avvento della caracca.
Questo nuovo veliero, la cui fortuna durò dalla metà del XV alla metà del XVII secolo, ebbe origini prettamente mercantili. Aveva più ponti sovrapposti, castelli non sporgenti dallo scafo e una non disprezzabile capacità di artiglieria, disposta nella formazione a batteria, in file orizzontali sovrapposte lungo le fiancate della nave. Grazie allo scafo calafatato (impermeabile) la caracca possedeva un’ottima resistenza alle intemperie e trasportava un maggiore carico di merci, armi e soldati.
Si passa quindi al galeone, la prima nave a vela con decorazioni lignee e pittoriche sui casseri di poppa e prua. I castelli si fecero molto alti, il carico d’artiglieria aumentò considerevolmente e si poté piazzarlo su più ponti. Questi casseri così alti erano decorativi e capienti ma presentavano anche uno svantaggio: facevano resistenza al vento, frenando la velocità della nave.
Successivamente nacque il vascello. Venne adottato il timone comandato attraverso una ruota posta sul cassero di poppa. Il castello di poppa passò dalla forma quadrata a quella rotonda. Gli alberi vennero suddivisi in tre sezioni, chiamate albero maggiore, albero di gabbia e alberetto, tutte munite di vele quadre. Solo l’albero di mezzana portava una vela triangolare, poi divenuta trapezoidale e denominata vela aurica o randa. Più avanti ne vennero aggiunte altre. Lo scafo era suddiviso generalmente in tre ponti, mentre il carico di artiglieria decretava la classe del veliero nella sua funzione militare.
Parallelamente, entrò in servizio un nuovo tipo di veliero chiamato fregata, che solcò i mari fino alla metà del XIX secolo. Era una nave mercantile e bellica di grande agilità di manovra. Capace di manovre molto rapide, la fregata era molto utilizzata come scorta.
Il successo raggiunto nella ricerca della velocità massima spinse i costruttori alla creazione del clipper. Il suo nome deriva dal verbo inglese “to clip”, tagliare, ed è esplicativo del suo modo di fendere le onde alla massima velocità. I clipper avevano uno scafo allungato, con piccoli castelli a prua e a poppa. Gli alberi erano tre e montavano cinque vele quadre; quella di gabbia era divisa in due per facilitare le manovre. Questi velieri non avevano bisogno di un equipaggio numeroso e gareggiavano tra loro nel trasporto del tè e dell’oppio dall’Oceano Indiano.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo il vapore soppiantò la navigazione a vela, ma per diversi anni si costruirono comunque imponenti navi fornite di alti alberi con una ricca velatura, in quanto la propulsione a vapore non era ancora perfezionata.
Oggi i velieri possono essere visti e vissuti solo tramite le ricostruzioni e le navi scuola. Questo libro costituisce uno splendido sistema per avvicinarsi alla magica sfida dell’uomo al mare.

lunedì 10 dicembre 2012

Dragonlance - Le Cronache

Ci sono libri che ti cambiano la vita. Una frase che sembra retorica ma che a conti fatti risulta vera per quasi tutti i lettori assidui. Incontri un libro che ti salta tra le mani in un determinato momento della tua vita e da quando ti immergi nelle sue pagine…non sei più lo stesso. O forse sei più “te stesso” di quanto lo eri prima dell’incontro fatidico.
Per me l’incontro è avvenuto a 14 anni con Dragonlance Saga, immane opera di letteratura fantasy del duo Weis&Hickman, mondo letterario del famosissimo gioco di ruolo Dungeons&Dragons. Per amor di verità, non fu con le Cronache – che vado a presentarvi- che iniziò la mia avventura in questo mondo di fantasia, ma con la trilogia seguente: le Leggende. Insieme costituiscono i libri principali della saga, che con essi potrebbe iniziare e finire. Gli autori e numerosi collaboratori, invece, vi hanno affiancato molti romanzi dedicati ai singoli personaggi e si sono ostinati a sfornare seguiti, coinvolgendo anche una seconda generazione di eroi, che hanno tolto smalto alla saga originaria e scavato la miniera anche quando le gemme avevano perso in purezza da tempo (tipico esempio di scontro tra interessi economici e valore letterario). Per quanto mi riguarda, quei libri “in più” sono stati rimossi dalla mente. Rimane il valore della saga principale, di cui vado a presentarvi la prima trilogia.
A Solace, meraviglioso paese costruito sulle cime degli alberi vallenwood, si ritrova dopo molti anni d’assenza un variegato gruppo di amici. Tanis Mezzelfo, tormentato giovane dal sangue misto che è sempre stato il capo indiscusso del gruppo, giunge insieme al burbero e anziano nano Flint Fireforge e allo spensierato Tasslehoff Burrfoot, un kender – sorta di gnomo- manolesta, senza paura e pieno di allegria. Alla taverna incontrano dapprima i gemelli Caramon e Raistlin, l’uno gigantesco guerriero sempre affamato e l’altro astuto mago malato e maledetto a causa della sua Arte, e poi l’amico Sturm Brightblade, guerriero di Solamnia per cui l’onore è la vita stessa. Manca solo Kitiara, sorella dei gemelli e amante del mezzelfo. La riunione diventa un caos nel tentativo di salvare da un ingiusto arresto una coppia di barbari che portano un bastone di cristallo azzurro. Questo trascina il gruppo in un viaggio della speranza alla ricerca degli antichi Dei, mentre attorno a loro si scatena una guerra orribile e creature draconiche distruggono la loro patria. Con nuovi amici e combattendo molti nemici, i nostri riusciranno perlomeno a trovare colui che un giorno riporterà la Luce nel mondo di Krynn. I draghi, però, sono stati sguinzagliati dalla Regina delle Tenebre e la guerra, senza un’arma per combatterli, sembra persa in partenza.
Questa la trama del primo romanzo, “I draghi del crepuscolo d’autunno”, che prosegue ne “I draghi della notte d’inverno” con un’inaspettata divisione del gruppo dopo una spedizione, finita quasi tragicamente a causa dell’attacco di uno squadrone di draghi. Divisi, quindi, senza sapere se gli altri sono ancora vivi, i nostri prendono diverse strade per cercare l’arma che possa consentire loro di combattere i messi della Regina Oscura. E’ un libro di conflitti, reali e interiori. Ognuno di loro si ritrova a dover dipanare i propri pensieri, affrontare paure e indecisioni. Tanis si trova lacerato tra l’amore per l’elfa Laurana e la passione per Kitiara, che li ha traditi servendo l’Oscurità. Il legame indissolubile dei gemelli viene troncato da Raistlin, che non esita a sacrificare tutto e tutti per il proprio tornaconto. L’arma viene trovata, ma il prezzo è altissimo e il finale non potrà essere che tragico. La battaglia, purtroppo, non è ancora finita.
In questo clima disperato, inizia “I draghi dell’alba di primavera”. Finalmente la Luce torna a toccare i cuori di chi è rimasto a combattere, palesando di averli prescelti da tempo. Tutti, però, sono cambiati o hanno perso qualcosa di fondamentale. La Regina sta per entrare nel mondo. Mentre i Cavalieri usano le Dragonlance contro gli eserciti alati, i nostri dovranno tentare l’ultima, disperata carta: trovare l’Uomo dalla Gemma Verde, chiave della presenza della Dea su Krynn. L’aiuto più insperato, quello che viene da coloro che hanno tradito, sarà fondamentale per tenere viva la speranza.
La forza delle Cronache non sta nella prosa, che inizialmente è un po’ meccanica e di quando in quando inciampa in piccole contraddizioni (frutto con tutta evidenza del procedere del gioco di ruolo che diede inizio al tutto, oltre che di una pessima traduzione dell’edizione Mondadori in mio possesso - molto più curata la versione Armenia), per diventare veramente piacevole solo dal secondo libro in avanti, quando si libera dalle convenzioni del role-play. Essa sta nella vitalità del mondo inventato dagli autori, nella tangibilità di un regno fantastico che prende forma e si fa di carne e sangue, reale come se potessimo entrarvi in qualsiasi istante. Soprattutto, la forza di questa saga sta nei personaggi e nelle relazioni che intercorrono tra di loro.
I protagonisti sono tratteggiati con disarmante umanità, amore palese. La loro psicologia è stata costruita con il cuore e non tramite il mero meccanismo di gioco. Non si può non ridere per le birichinate di Tasslehoff, sentire il cuore farsi piccolo piccolo quando per la prima volta questo bambino troppo cresciuto conosce la morte altrui e il sapore delle lacrime. Non si può non combattere a fianco di Sturm condividendo la sua disperata necessità di vivere e morire senza perdere l’unica cosa che lo tiene in piedi, quel senso dell’onore che dà significato a una vita altrimenti vuota. Non si può non essere lacerati dalla dicotomia di Caramon e Raistlin, il primo con la sua genuina ingenuità e il secondo vibrante di una malvagità sotto cui riposa un’anima torturata dalla sofferenza e dal disgusto di sé, da occhi che vedono solo morte.
Le Cronache di Dragonlance sono un viaggio meraviglioso e drammatico, che trovano degno seguito nelle Leggende, di cui vi parlerò più avanti.
Lasciate che questo gruppo di amici vi indichi la via. Non correrete il rischio di annoiarvi!

lunedì 3 dicembre 2012

Nascita dell'Occidente

Due saggi in uno per questa pubblicazione della Fondazione Achille e Giulia Boroli, due diverse voci che cercano di spiegare come sia nato il concetto di Occidente e quali significati questa parola ha avuto in passato, per poi riflettere su come il termine sia stato adottato nel contemporaneo.
Nonostante in copertina spicchi il nome di Alessandro Corneli, autore di “Nascita dell’Occidente”, in realtà il saggio inizia con una lunga trattazione di Marta Sordi, intitolata “Idea di Occidente in Grecia e Roma” (viene in effetti da domandarsi perché in copertina l’autrice venga appena nominata nel sottotitolo).
La storica ci introduce all’argomento iniziando con il puntualizzare come e dove sia nata la moderna concezione di storiografia. Fino all’avvento del pensiero filosofico greco e successivamente delle riflessioni romane, infatti, la cronaca degli eventi passati e contemporanei aveva ben poco di quell’oggettiva catalogazione e relazione di fatti che noi oggi associamo alla materia. Le cronache avevano un intento di insegnamento morale o esaltazione del potere costituito. La visione delle azioni umane era interamente soggettiva. Spesso, anzi, la realtà dei fatti veniva manipolata per consegnare ai posteri una versione che fosse favorevole al governo attuale o alle personalità coinvolte. Se si voleva relegare un avvenimento o una persona scomoda nell’oblio, bastava cancellarla completamente dalle cronache, avendo così la certezza che se ne sarebbe perso il ricordo.
Parte del pensiero occidentale si manifesta, invece, proprio nella ricerca dell’oggettività e nella comprensione della relazione tra gli eventi che caratterizza le cronache greche e romane (non che i difetti sopracitati siano definitivamente scomparsi, purtroppo). La Boroli cita numerosi autori dell’epoca, mostrandoci come l’argomento fosse molto sentito e fonte, a volte, di discussioni accese. I Greci avevano il vanto di aver sempre riportato in cronaca la propria Storia, mentre ai Romani si rimproverava l’ignorante silenzio dei primi secoli. I Romani, dal canto loro, si vantavano di essere nati come uomini d’azione, più che di parola, ma di aver superato i maestri una volta iniziato a tener computo dei fatti.
I Greci, in effetti, erano estremamente centralizzati. La purezza della stirpe per loro era tanto importante da chiudere fuori usi e costumi di tutto il resto del mondo. Se ciò preservava l’identità culturale, al contempo impediva di comprendere i fatti esterni alla Grecia nella loro completezza e a lungo andare li portò al collasso del sistema delle poleis. I Romani, invece, furono fin dall’inizio aperti agli usi dei popoli conquistati o con cui ebbero contatto, cosa che conferì loro una visione d’insieme molto più sfaccettata, portandoci un passo più avanti verso la moderna storiografia.
“Nascita dell’Occidente”, invece, si propone come fonte di molteplici spunti di riflessione sul concetto di Occidente, più che una trattazione completa delle trasformazioni politico-sociali europee, cosa che avrebbe richiesto uno sforzo molto più ponderoso.
Vengono analizzati i primordi di quelle innovazioni sociali che hanno condotto ai precetti fondamentali della moderna società, dal concetto di territorio delimitato da recinti o mura (e quindi di “stranieri” che vivono all’esterno di esso), alla nascita della scrittura e del suo peso nelle relazioni tra città e regni, alla formazione delle caste. Si parte dalla società mesopotamica e pian piano ci si sposta verso ovest insieme ai centri d’equilibrio del potere e delle civiltà dominanti, in un veloce viaggio lungo le tappe fondamentali della Storia.
L’autore si dilunga molto – giustamente – su come sia nato e si sia evoluto il concetto dello Stato, la gestione politica di società più o meno ampie accomunate dallo stesso linguaggio, gli stessi obiettivi, un’identità inconfutabile da proteggere, quasi sempre, da chi è diverso e perciò straniero. Viene valutata l’importanza del pensiero filosofico greco e della nascita della democrazia ateniese sulla successiva evoluzione del concetto statale, sulla differenza tra dialogo e oratoria nel fare politica.
L’avvento del Cristianesimo ha dato un’ulteriore impronta all’Occidente, unendolo sotto un unico pensiero religioso che per lungo tempo è stato anche collante sociale e giustificazione del potere assoluto dei regnanti. I nazionalismi, più di recente, hanno creato grandi Stati identitari che però, nel tempo, si stanno rivelando ingestibili, favorendo la spinta verso secessioni, federalismi e via di seguito, alla ricerca di organismi ridotti la cui gestione economica e politica sia più aderente alle reali necessità.
Per concludere viene analizzata l’origine del pensiero razzista, che ha drammaticamente segnato la storia politica internazionale per tutto il ventesimo secolo.
Il saggio, per quanto interessante, non è consigliato a chi non ha una buona visione d’insieme della Storia già in partenza, in quanto non segue un filo conduttore lineare e potrebbe creare dubbi o confusioni, nonostante la prosa pulita e non ridondante di Corneli. Stimolante spunto di riflessione, invece, per gli appassionati.

domenica 25 novembre 2012

L'Uccello Beffardo

Peter Foxglove, giovane rampante al servizio del Governo britannico, è convinto che il suo viaggio di lavoro a Zenkali, rigogliosa isola tropicale sita tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, sarà una piacevole parentesi. In fondo, il suo incarico prevede solo di affiancare tale Hannibal Oliphant, consigliere del re dell’isola, la quale sta per ottenere l’indipendenza dall’Impero Britannico ed è coinvolta in fondamentali trattative per la costruzione di una base di importanza strategica.
Basterà il viaggio d’andata su una carretta del mare comandata da un gigantesco greco dall’ospitalità ingombrante e gestita da un equipaggio zenkalese con la testa tra le nuvole a distruggere le sue illusioni. Zenkali è un’isola tutta matta, i cui abitanti vivono in una dorata, amichevole e prosaica ingenuità. La follia sembra respirarsi con l’aria, perché anche gli occidentali che vi abitano sono tutti molto particolari.
Hannibal è un vulcanico concentrato di carisma e sapienza. Il re si fa irrispettosamente chiamare Kingy, governa con benevolo piglio dittatoriale e ha creato posti di lavoro fondando un servizio taxi con barroccini che sostituiscono le auto e un sistema di posta che consiste nel far correre qua e là dei messaggeri muniti di bastoncini biforcuti per consegnare i Libri (semplici foglietti di carta). Nel tempo libero crea cocktail micidiali.
Il Governatore è un timido senza nulla da dire, sua moglie un’eccentrica sorda come una campana che alleva galline faraone. Il giornale locale è gestito da un irlandese sempre ubriaco che inanella errori di stampa decisamente creativi. I missionari sull’isola vanno da belanti sacerdoti che predicano l’Apocalisse a una Reverenda americana che insegna ai suoi fedeli come costruire case o fabbricare bombe!
In tutto questo caos, Peter ha come unica alleata la giovane e bella Audrey, figlia d’Irlanda cresciuta sull’isola. Si accorge presto, però, di amare Zenkali e le sue bizzarrie; questo lo porta a non avere in grande simpatia il progetto della base militare, fortemente voluta da suo zio e da uno strisciante ministro locale, Looja.
Per puro caso, Peter stesso diventerà la causa di un’accesa diatriba sull’argomento. Durante una gita nella foresta, scopre con Audrey una valle nascosta in cui sopravvivono due specie viventi, credute estinte, di enorme importanza storica per Zenkali: l’albero Ombu e l’Uccello Beffardo, dio ancestrale della principale tribù dell’isola. La notizia fa scoppiare il caos e mette a rischio il progetto di inondazione delle valli per la base militare, facendo affluire a Zenkali un’incredibile quantità di gente pronta a dire la sua pro o contro il progetto.
La moderna lotta tra il Progresso e la Natura sta per avere inizio.
Lo scoppiettante, coloratissimo e dissacrante romanzo di Gerald Durrell ci conduce in un mondo di favola con abbastanza legami alla realtà da far sogghignare anche il lettore meno maligno. L’autore, con la sua prosa al vetriolo capace di dipingere nella mente del lettore tipi assurdi che riescono a incarnare perfettamente caratteri quasi archetipici, un po’ come fossero maschere di teatro, ci presenta un campionario umano del tutto folle, esilarante e dotato di disarmante simpatia.
Allo stesso tempo ficca il dito nella piaga degli arrivisti, i calcolatori, gli affaristi senza scrupoli, che qui appaiono sotto vesti quasi grottesche, come se faticassero nel non rivelare una natura tanto maligna perfino nei tratti nel volto o nella postura del corpo.
Le piccole manie, sull’isola si ingigantiscono tanto da diventare segnali identificativi del ruolo e del carattere delle singole persone, in una vertiginosa corsa verso il delirio.
Le descrizioni naturalistiche non si possono definire meno che meravigliose. Senza sommergere il lettore di dettagli, utilizzando colori così vividi da essere quasi accecanti, Durrell dipinge un’isola-tipo dell’Oceano Indiano e ce ne regala non solo la visione, ma anche il profumo, il sapore, la gioia di vivere. Il suo amore per la natura, i meravigliosi luoghi in cui la vita l’ha condotto, prendono sostanza sotto la sua penna, trasportandoci in un viaggio di favola che aprirebbe il cuore al più grigio cittadino.
“L’Uccello Beffardo” è un romanzo per tutti, un’avventura gioiosa che regala un minimo di ottimismo verso il futuro.

domenica 18 novembre 2012

Manuale completo del fai-da-te

Questa recensione è dedicata a tutti gli imbranati cronici che in casa non sanno aggiustare nemmeno un soprammobile rotto, ma in particolare alle donne come me, una categoria che spesso i problemi se li va a cercare con il lumicino e nell’arte di arrangiarsi non eccelle (dai, ammettiamolo…).
La maggioranza delle donne tende ad affidarsi al padre, al fidanzato/marito o agli amici per qualunque problema sorga in casa, anche il più minuscolo. Non che non sarebbe in grado di cavarsela da sé, ma di norma non si sa da dove cominciare e si è inibiti dal sacro terrore di fare dei danni (sempre dietro l’angolo). Il problema è che, oggigiorno, anche tanti maschietti stanno perdendo la buona abitudine di conoscere i fondamenti per le piccole riparazioni, ricorrendo quasi sempre ai professionisti che si fanno pagare lautamente ad ogni uscita.
E’ proprio necessario sganciare fior di quattrini per cose che potremmo benissimo riparare da soli, con poca spesa e una certa soddisfazione?
Di solito è una domanda di questo tipo che conduce all’acquisto di un manuale come quello che vi vado a presentare, edito dalla Giunti. Nel mio caso, lo stimolo è stato il trasloco in una casa che era stata un po’ bistrattata dall’affittuario precedente e aveva bisogno di parecchie piccole riparazioni.
Il manuale, stampato su carta spessa e completamente a colori, si propone di spiegare in maniera semplice anche a chi è digiuno di bricolage e lavoretti vari come procedere. Si divide in macrocapitoli, facilmente individuabili anche senza aprire il libro grazie all’utilizzo di un bordo continuo colorato ben visibile anche a volume chiuso. Gli argomenti principali sono a loro volta suddivisi in capitoli tematici più piccoli.
I testi si compongono di una prima parte che illustra brevemente i materiali specifici, con una panoramica che abbraccia anche le nuove tecnologie, le innovazioni ecologiche e gli accorgimenti che permettono un risparmio energetico. Si passa quindi all’elenco (corredato da foto o illustrazioni) degli strumenti di lavoro, la cui conoscenza è indispensabile per affrontare al meglio i lavori che ci si accinge a mettere in atto.
Dopo aver fornito le prime basi, ogni macrocapitolo si divide in schede che illustrano uno specifico intervento di riparazione o costruzione. Questo viene spiegato passo per passo sia attraverso il testo che tramite le illustrazioni esplicative. Ogni operazione viene anche valutata in base alla difficoltà e corredata di consigli utili ad una maggiore comprensione delle possibilità estetiche, dei problemi che possono insorgere, delle questioni burocratiche che può essere necessario sbrigare prima di accingersi a grossi lavori di modifica alle abitazioni.
Il primo capitolo tratta dei lavori in muratura per interni ed esterni, oltre che degli impianti di riscaldamento e delle coperture. Il colore che lo contraddistingue va dal rosa antico al rosso sangue, seguendo la difficoltà dei lavori proposti. E’ un capitolo eccellente, molto chiaro nonostante la materia non sia affatto semplice, una volta usciti dai piccoli ritocchi o dall’erezione di semplici muretti.
Il secondo, di colore blu, passa invece al tema dell’idraulica, tasto dolente per quanto riguarda il costo delle riparazioni. Per quanto ben fatto, al contrario del precedente questo capitolo finisce per essere un po’ troppo tecnico, vagamente oscuro per chi è completamente digiuno. Forse si tratta di cose che si possono imparare solo guardandole fare, ma credo che meno tecnicismi avrebbero migliorato la situazione.
Il capitolo sugli impianti elettrici, di colore giallo, è preciso e chiaro, esauriente. Dopo una spiegazione tecnica abbastanza complicata, offerta al puro scopo di far comprendere quali siano i fattori cui un elettricista di professione deve tener conto, il resto delle spiegazioni risulta lineare e facile da seguire, consentendo anche a una come me, d’ora in poi, di sostituire un interruttore o una presa di corrente senza far saltare in aria la casa.
La falegnameria, di colore rosso-arancio, risulta appassionante e attraente, grazie alle proposte creative che chiudono il capitolo, dopo le spiegazioni di rito sui legni e le loro proprietà, gli strumenti specifici e i principali metodi di assemblaggio o riparazione.
Delizioso il capitolo sui lavori in giardino, anche se prevede una manualità decisamente più esperta rispetto ai precedenti interventi proposti, degna continuazione delle imprese che troviamo alla fine del capitolo sulla muratura.
Per concludere, una parentesi spiritosa e molto utile sui piccoli lavoretti che possono essere svolti da sé per la manutenzione della propria automobile, caratterizzata da un bel colore viola.
Un manuale riuscito, anche se a tratti ondivago, che può dare un grosso aiuto a chi in casa non sa dove mettere le mani!

sabato 10 novembre 2012

Dracula

Sembra una perdita di tempo recensire un romanzo di cui tutti hanno sentito parlare o hanno visto almeno una versione cinematografica. “Dracula” può essere classificato come il padre di tutti i moderni vampiri, da quelli dei film dell’orrore degli anni d’oro alle figure più alla moda e dotate di fascino pallido e palestrato degli ultimi anni.
Eppure, quanti di voi appassionati del mostro notturno assetato di sangue ha mai letto davvero il romanzo capostipite, quel “Dracula” di Bram Stoker da cui il fenomeno mediatico ha avuto origine? Temo che la risposta sia: pochi. Molto pochi. Tenendo conto del fatto che praticamente non esiste una versione cinematografica fedele al romanzo, è come dire che ben pochi di voi conoscono la storia di Dracula.
Una delle versioni più fedeli che il cinema ci abbia regalato è proprio quel “Dracula – di Bram Stoker” per la regia di Francis Ford Coppola, che segue quasi pedissequamente la vicenda originale ma dà molto spazio al punto di vista del vampiro (cosa assente nel romanzo, come vedremo), trova una giustificazione d’amore all’assalto che egli porta a Mina e conferisce una nota umana e struggente alla figura di Vlad Dracula, analizzato anche dal punto di vista storico (il famoso Principe di Valacchia) ben oltre le intenzioni dell’autore. Questo aggiunge, più che togliere, qualcosa alla storia…ma ci sottrae le suggestioni e le atmosfere agghiaccianti della versione originale. Con lo scopo di scavare più a fondo, senza dubbio, ma non possiamo comprenderlo senza aver letto prima il romanzo.
Perciò, eccoci. Iniziamo con un brevissimo riassunto della trama.
Il giovane legale Jonathan Harker si reca in Transilvania per concludere una transazione immobiliare con tale Conte Dracula, ora proprietario di una casa a Londra. Il giovane si troverà imprigionato in un castello di orrori, con la vita appesa a un filo dopo aver scoperto che il suo ospite è un vampiro il cui scopo è infiltrarsi nella moderna società inglese. In Inghilterra, nel frattempo, lo attende la fidanzata Mina in compagnia dell’amica Lucy, una bella giovane corteggiata da ben tre pretendenti (il nobile Arthur Holmwood, il dottor Seward e l’avventuroso americano Quincey). Dracula arriva in Inghilterra e, mentre Mina raggiunge il futuro sposo fuggito dal castello, uccide Lucy nonostante gli sforzi per salvarla dei suoi innamorati e del medico/stregone Van Helsing. I quattro amici sono costretti a dissacrare il corpo di Lucy, diventata a sua volta vampira, e con l’aiuto di Jonathan e Mina si mettono sulle tracce di Dracula per fargliela pagare. Il Conte, però, contamina anche Mina grazie all’aiuto del suo schiavo Renfield, ripagato con un’orribile morte, prima di ripartire per l’Europa in attesa di tempi migliori. L’ultima caccia al Male ha inizio…
La cosa che balza agli occhi, in questo romanzo in forma di epistola e diario, è che il punto di vista è univoco, pur se affidato a più voci. Sembra una contraddizione in termini, ma a ben guardare il diritto di parola – e di cronaca – è affidato in via esclusiva alle voci di chi combatte il vampiro. Dracula non ha alcuna possibilità di spiegarsi, di affidare i suoi pensieri al lettore, di comunicargli i suoi piani o le sue brame. Nessuno di spiraglio di comprensione ci viene aperto per farci comprendere cosa pensa la mente criminale.
Dracula è il protagonista ma non parla mai, se non in brevi scene e tramite il filtro della scrittura altrui. Dopo le prime scene al castello con Jonathan, in cui dimostra la sua abilità dialettica e la sua erudizione, fa la sua comparsa solo in minuscoli momenti, restando quasi sempre presente sulla scena come opprimente argomento di conversazione e nemico invisibile. Eppure, non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di offrire la palma di protagonista agli altri, a chi ci parla dall’inizio alla fine e combatte pagina per pagina contro questo Male venuto dal cuore dell’Europa.
Perché? Quale fascino tremendo suscita anche in noi lettori il Principe voivoda (qui Conte)?
Jonathan, Mina e gli altri amici rappresentano la razionalità, il pragmatismo e i valori del Bene borghese in lotta contro il sensuale e violento Male che giunge da un buio passato. Per combatterlo, però, devono rivolgersi a una scienza che è anche magia e religione, nelle mani di Van Helsing, e quindi sprofondare in un mondo dapprima negato che non consentirà più a nessuno di loro di tornare ad essere quelli che erano o vivere una vita normale. Van Helsing accusa spesso Dracula di avere un cervello fino ma infantile; eppure, Dracula riesce a gabbarli praticamente fino alla fine. Forse tacciare il Male di infantilismo è un modo per tentare di sminuirlo nonostante l’evidenza del suo potere di influenzare quanti ne vengono in contatto.
Per quanto il romanzo termini con l’affrettata morte di Dracula, il vampiro ha vinto. Ha portato la Notte, il Sesso, la Paura nelle menti di chi viveva nell’ovattata sicurezza della moderna società. Ci ha raccontato che la morte non è sempre la razionale fine dell’esistenza.
Ancora adesso, pur temendolo, non possiamo fare a meno di lui.

sabato 3 novembre 2012

Karma e reincarnazione

La questione della reincarnazione è argomento di grande risonanza anche in Occidente da alcuni decenni a questa parte. L’apertura alle religioni orientali e alcune scuole filosofiche, oltre alle discipline parapsicologiche, hanno messo in dubbio l’ipotesi (cattolica, ma non solo) che la nostra anima sia immutabile e legata ad una sola vita sulla Terra, una singola possibilità che poi ci porterà alla nostra destinazione definitiva in base alle esperienze vissute.
A questa visione spirituale dell’esistenza si contrappone la teoria delle reincarnazioni, che prevede il passaggio dell’anima da un’esistenza all’altra nel corso delle ere. L’energia non si distrugge, ma si trasforma; inoltre, tende a riassumere una “forma” simile a quella precedente. Non potrebbe essere quindi plausibile il fatto che la parte incorporea dell’uomo cerchi di tornare, una volta slegata dalla parte materiale attraverso la morte, ad una forma che le sia simile e confortevole?
A questo fatto puramente scientifico, se vogliamo, si aggiunge il concetto di uno scopo nell’esistenza, un percorso che facciamo di vita in vita, probabilmente per raggiungere un livello di elevazione tale da poterci ricongiungere all’origine di tutte le anime, di tutte le energie. Riunirci a ciò che noi chiamiamo Dio, dopo aver imparato dall’esperienza incredibile della Vita.
Si raggiunge così il concetto di karma, che non è un equivalente del nostro “destino”…non proprio. Il karma è il nostro percorso esistenziale, che si costruisce man mano a seconda delle nostre azioni, delle nostre sofferenze o gioie. Il karma può trascinarsi da una vita all’altra, costringendoci a pagare i debiti accumulati nella precedente, ad affrontare paure mai risolte, a cercare persone con cui abbiamo creato in precedenza un legame spirituale. Quando tutte le tensioni positive e negative raggiungeranno un equilibrio, saremo liberi dal ciclo delle reincarnazioni e ci riuniremo alla Fonte.
Questi argomenti vengono affrontati con delicatezza e profonda maturità spirituale da Hiroshi Motoyama nel suo “Karma e reincarnazione”, edito da Hermes Edizioni.
L’autore è un sacerdote di una branca della religione giapponese, istruito e addestrato alla disciplina spirituale da una sacerdotessa che lo ha scelto fra tanti come proprio discepolo in base alle esperienze della sua vita precedente.
Il nucleo principale del saggio riguarda appunto il ciclo delle reincarnazioni, il concetto di karma e le esperienze che il sacerdote e coloro che si sono rivolti a lui per avere aiuto hanno vissuto in prima persona, oppure a cui hanno assistito. La casistica è ampia e varia; a favore dell’autore va detto che egli non cerca mai, in alcun modo, di imporre la propria visione del mondo al lettore, o di portarlo a credere inconfutabilmente in ciò che racconta. Egli si limita a condividere la propria esperienza e il proprio percorso spirituale, lasciando massima libertà al lettore di pensarne quello che preferisce e di ricevere o meno spunti che possano condurlo a una propria verità.
Anche per questo motivo, e in totale coerenza con l’atteggiamento giapponese in generale, Motoyama si rivela estremamente rispettoso verso tutte le forme di religione, di cui parla con coscienza di causa avendole studiate e avvicinate allo scopo nobilissimo di comprenderle (l’autore è anche un uomo di profonda cultura, storica e scientifica).
L’esperienza, purtroppo, ci insegna che un tale atteggiamento è molto difficile da ravvisare non solo nel pensiero ufficiale di molte religioni, ma anche nel criterio del singolo individuo. Motoyama, se anche non si vuole condividere alcunché del suo pensiero religioso, si rivela comunque pagina per pagina un uomo saggio, cui portare rispetto.
Motoyama parla del proprio percorso karmico, che l’ha condotto ad assumere il ruolo di sacerdote e guida spirituale. Tratta quindi con dovizia di particolari le teorie orientali e indiane sulla reincarnazione, sui centri energetici del corpo umano (chakra) e su come essi siano legati allo stato di salute non solo del corpo materiale, ma anche di quello spirituale.
Offre inoltre un’ampia casistica di esperienze tratte dal contatto con i fedeli del tempio, che si sono rivolti a lui per risolvere problemi di ogni sorta. Avendo la capacità di comunicare con il mondo dello spirito, Motoyama ha spesso trovato le risposte nel passato, nel karma accumulato precedentemente dai questuanti e ora diventato causa di problemi e disturbi che chiedono risoluzione.
Parla inoltre di entità spirituali senzienti con cui ha avuto contatto e che l’hanno portato a conoscere più a fondo i “meccanismi” che regolano la dipartita delle anime dal corpo e la loro condizione prima della successiva incarnazione.
Un saggio straordinario, gentile ed estremamente interessante.

domenica 28 ottobre 2012

La pietra del Vecchio Pescatore

L’autrice irlandese Pat O’Shea ha impiegato dieci anni a stendere la versione definitiva del suo romanzo “La Pietra del Vecchio Pescatore”, pubblicata in Italia dalla TEA. Dieci anni trascorsi non solo a dare forma e sostanza alla storia che aveva intenzione di scrivere, ma anche ad immergersi profondamente nelle tradizioni della sua terra natia, nelle sue leggende e nel suo eroico passato, ricco di nomi, fatti, magie.
La O’Shea ha strutturato il romanzo non tanto come un fantasy quanto come una fiaba, un percorso iniziatico di due giovani protagonisti attraverso una serie di eventi e prove che metteranno a dura prova il loro coraggio e la loro innocente volontà di fare del bene, immergendoli al contempo in un passato di cui sono a conoscenza solo vagamente, attraverso gli accenni alle gloriose origini dell’Irlanda ascoltati a scuola o in famiglia.
Il linguaggio utilizzato, perciò, risulta semplice, a volte quasi ingenuo, infantile. La cosa si sposa alla perfezione con l’atmosfera incantata. La gente comune parla spesso un gergo sgrammaticato, inframmezzato da termini dialettali e abbreviazioni colloquiali, mentre i personaggi di maggiore autorità si riconoscono dalla parlata precisa, corretta, a volte perfino aulica.
La stessa autrice si sposta spesso dalla tradizione irlandese antica a quella mediata dal cattolicesimo insulare, cosa che spesso relega in forma di “fata” o “strega” personaggi che alle origini possedevano tutt’altra valenza, spesso drammatica o spiritualmente molto profonda. La cosa potrebbe far arricciare il naso a chi si interessa della cultura celtica, ma occorre ricordare che si tratta di una fiaba, non di un testo antropologico o di analisi mitologica.
La traduzione non è sempre felicissima. Sono state fatte scelte dialettiche piuttosto opinabili, che di quando in quando fanno scivolare la colloquialità quotidiana verso un accento becero, più che ingenuo e popolare, ma queste sono finezze che possono passare inosservate al lettore medio.
Il testo, inoltre, di quando in quando è arricchito da piccole illustrazioni che aggiungono un tocco di ulteriore fanciullezza e levità al racconto.
Ecco, in breve, la trama.
Pidge, un tranquillo ragazzino, viene in possesso di un antico libro che contiene un foglio misterioso, su cui è disegnato un serpente. Esso è Olc Glas, un antico essere venefico che era stato sigillato nientemeno che da S.Patrizio. Ora il sigillo è rotto e due strambe donne, motocicliste senza criterio seguite da un codazzo di segugi, vogliono impossessarsene.
Il giovane Pidge viene guidato nelle sue azioni da una voce misteriosa e benigna, appartenente all’antico dio Dagda, e da alcuni bizzarri personaggi. Insieme alla sorellina Brigit, una piccola sfrontata e coraggiosa, egli riesce a consegnare Olc Glas alla custodia della Grande Anaconda.
Il pericolo, però, è tutt’altro che scongiurato. Le donne, infatti, si riuniscono alla loro terza sorella e mostrano la loro vera natura: esse sono Macha, Bodhb e la Morrigan, la triade divina che governava la morte, il sangue sparso in battaglia, la distruzione. Questa donna, una e trina, è il tremendo nemico contro cui i bambini si trovano impegnati.
La loro purezza e bontà li porterà a partire per un viaggio magico in un’Irlanda parallela, nel Tir-na-Nog, alla ricerca di un mitico sasso su cui riposa una goccia del sangue della Morrigan, unica arma contro di lei. Aiutati da antiche divinità, eroi sotto mentite spoglie, animali parlanti, omini segnavento e teste che spuntano dal terreno, Pidge e Brigit dovranno dare fondo al loro coraggio per salvare il mondo e i loro cari da un’era di terrore.
La lettura è dolce come un pasticcino, godibile da un bambino come da un adulto, visto che contiene – come nella migliore tradizione delle fiabe – più di un livello di comprensione. La prosa è ricca di immagini vivide, che sembrano luminosi dipinti di luoghi, genti, creature.
La porta sull’Irlanda creata dalla O’Shea è spalancata e il lettore può entrarvi e immergervisi per tutto il tempo necessario ad arrivare all’amata e odiata parola “fine”.

giovedì 18 ottobre 2012

La magia nel Medioevo

La Editori Laterza presenta in un bel formato in carta lucida il saggio “La magia nel Medioevo” di Richard Kieckhefer, docente di Storia del Cristianesimo ed esperto di mistica e teologia.
L’autore analizza non solo l’impatto della magia nella società medievale, ma anche l’effettivo fenomeno sociale della figura del mago o negromante sia sul piano reale e storico che su quello immaginario e letterario.
Per prima cosa, come è giusto, Kieckhefer cerca di dare definizione alle varie branche della magia; uno scrupolo che può sembrare ozioso a chi non si è mai interessato alla materia o non è a conoscenza delle accese diatribe in merito che hanno riscaldato gli animi di grandi pensatori sia laici che religiosi per tutto il Medioevo, ma che in realtà cela la chiave per comprendere come si sia giunti alle persecuzioni inquisitorie dei secoli più bui (paradossalmente alla fine di quello che chiamiamo Medioevo, e non ai suoi inizi).
Al principio della nostra analisi, ciò che oggi chiamiamo magia non esisteva in quanto tale. “Magia” era l’arte di dubbia fama di personaggi provenienti dall’Oriente, chiamati appunto magi. Essi erano sempre visti con una certa diffidenza, in quanto non si riusciva a capire quanto del loro potere fosse reale e quanto derivante da trucchi che oggi assoceremmo più a un prestigiatore che alla figura del mago vera e propria.
Il coacervo di superstizioni, riti propiziatori e divinazioni che poi entrerà a far parte del patrimonio culturale del panorama magico, ai primordi del Medioevo era una cosa perfettamente normale. Si trattava di tradizioni dell’antica religione politeista, sradicata e denigrata dal Cristianesimo, che stava prendendo possesso dei territori dell’Impero.
Per farsi largo, essa dovette far dimenticare (e quindi proibire) tutta una serie di piccoli riti domestici e non che facevano ancora affidamento sulle forze della natura, sugli spiriti, tacciando chi ne faceva uso di idolatria e comminando punizioni esemplari. Un altro sistema, usato soprattutto nel nord Europa, era quello di sostituire a festività, divinità e riti pagani una versione cristianizzata degli stessi, per intervenire in maniera meno traumatica ma ugualmente invasiva.
L’affermarsi del Cristianesimo come unica religione, però, non riuscì a distruggere completamente l’abitudine di usare la magia “naturale”, di solito composta da innocenti riti con erbe o oggetti di uso quotidiano, magari benedetti da formule che erano non molto differenti da normalissime preghiere. La magia, a differenza della religione, mira a modificare i fatti invece di affidarsi alla volontà divina, ma i piccoli incantesimi di questo tipo erano una commistione dei due elementi, usata da gente per lo più in buona fede, che voleva solo un favore da Dio e sperava di ottenerlo dicendo le cose giuste e procurandosi gli aiuti naturali necessari.
Di tutt’altro genere era la magia negromantica, il cui scopo era evocare le forze spiritiche (demoniache, per lo più) per ottenerne i favori. Questo era un genere di magia colta, probabilmente nata e sviluppatasi all’interno dello stesso ambiente clericale, in quanto prevedeva conoscenze linguistiche, teologiche e tecniche che una normale persona del volgo non poteva possedere (ma furono tra la gente comune, paradossalmente, quasi tutte le vittime delle inquisizioni che seguirono al proliferare di questa magia “nera”). La negromanzia usava e pervertiva preghiere e riti cristiani per renderli magici e adatti all’invocazione di forze tenebrose.
Altro discorso si poteva fare per l’astrologia, divinazione del futuro tramite il moto dei pianeti, e l’alchimia, ricerca della Materia Fondamentale e dell’immortalità. Entrambe le branche magiche sono progenitrici delle moderne scienze, per cui dobbiamo molto alla ricerca degli appassionati, anche se tra loro vi erano ciarlatani, visionari. La Chiesa tentò sempre di soffocare entrambe, ritenendole sacrileghe, in quanto andavano a indagare in ciò che concerneva solo Dio. Anche l’uso delle erbe guaritrici, l’arte di costruire automi o di congegnare trucchi che ingannassero gli occhi, venivano considerate magia. Non si faceva una grande distinzione e quando scoppiò la fobia nelle streghe le differenze tra magia naturale, divinazione e magia nera scomparvero del tutto.
Dalla controversa magia “reale” nacque poi quella letteraria, di cui i romanzi cortesi sono pieni. Più poetica e favolosa di quella che incuteva timore nella vita di tutti i giorni, la magia cortese rimane la “versione dei fatti” che condiziona la nostra visione della stessa ancora oggi.
Scritto con un linguaggio semplice, alla portata di tutti, e corredato da illustrazioni, “La magia nel Medioevo” è un magnifico volume di cui consiglio caldamente la lettura.

mercoledì 10 ottobre 2012

La incantatrice

Colin e Bea sono gemelli, due bambini molto diversi tra loro nati nella Svizzera calvinista del diciottesimo secolo. Colin è un giovane timido, accondiscendente e tranquillo, con una passione per gli automi e la scienza ereditata dal padre e un difetto al piede che lo costringe a zoppicare. Bea, invece, è una creatura passionale e definitiva, primordiale, che ha ereditato il potere materno di vedere il futuro e di leggere nelle anime altrui, vicina com’è al mondo dello spirito.
La madre dei bimbi, infatti, è una discendente delle antiche sacerdotesse della religione celtica e ancora adesso ne porta avanti le tradizioni, pur se di nascosto. Purtroppo, il fanatismo religioso la trasforma nell’obiettivo dell’odio. Accusata di stregoneria, viene bruciata viva nella sua casa insieme al marito. Si salvano solo i gemelli e il loro fratellastro, Valentin.
Questo fatto traumatico sconvolge la vita dei bambini, che dovranno imparare a cavarsela da soli in un mondo che, se è pieno di meraviglie, è anche maledettamente costellato di pericoli. Comincia così il loro difficile viaggio verso l’età adulta, un viaggio dell’anima tanto quanto del corpo. Colin e Bea lasciano presto la Svizzera per recarsi addirittura in Cina, ove l’arte degli automi occidentali è particolarmente amata, e quindi nel regno dei Thai.
I gemelli, separati sempre più dalla loro diversa visione della vita e da una passione inespressa e proibita, dovranno imparare a convivere con culture e religioni differenti, imparando da esse quanto più possibile e allargando sempre più mente e orizzonti, cercando il loro destino in mezzo ai grandi fatti della Storia.
La prosa di Han Suyin è fresca, delicata, al contempo intrisa di una passione profonda, radicata e indomabile. L’autrice riesce a intrecciare fra loro con abilità tematiche complesse e all’apparenza senza alcun collegamento l’una con l’altra, a dare sfoggio di cultura senza che questa diventi un peso per il lettore, trasformando quelle che a ben vedere sono lezioni di storia in brevi parentesi di comprensione mutuate attraverso gli occhi dei protagonisti, sempre assetati di nuove conoscenze.
La mancanza di forzature nel romanzo è encomiabile, perché è evidente che “La incantatrice” è stato scritto partendo da uno schema iniziale ben preciso. Dovendo affrontare tante tematiche complesse, l’autrice deve aver passato parecchio tempo a farsi una cultura in merito e questo avrebbe potuto rendere meccanico il lavoro finale. Sarebbe stato fin troppo facile grippare in qualche passaggio, far storcere il naso al lettore nel sentore di qualcosa di mancante, di un ingranaggio non perfetto.
Come Colin con le sue macchine, invece, Han Suyin fa il suo piccolo miracolo e confeziona una storia coerente e avventurosa, piena di cultura e al contempo appassionante.
Ogni cosa viene descritta con minuziosa cura ma senza sbrodolare. Le meraviglie esotiche, l’apparente calma dei cantoni svizzeri, gli usi e i costumi dei popoli ci vengono mostrati attraverso gli occhi dei gemelli con tale maestria che il romanzo sembra un susseguirsi di immagini vivide, sfavillanti di colori e di vita, tangibili.
Si passa dalla pulita e ordinata Svizzera, con le sue montagne, i laghi cristallini e le dimore nobiliari, all’avventura sugli oceani al fianco del principe musulmano Abdul Reza. Gli anni in Cina vengono descritti con dovizia storica e una prosa sognante, onirica, spezzata bruscamente dalla scia di sangue che segue all’improvviso scontento dell’Imperatore e che costringe i gemelli alla fuga nel grandioso e decadente impero Thai, una profusione di colori e vita che sta per spirare nel fuoco della guerra.
Opposti, i due gemelli si combattono e si cercano, desiderosi di tornare un tutt’uno ben sapendo che questo è proibito, impossibile. Il loro legame indurrebbe a credere che prima o poi entrambi capiscano che la loro forza raddoppierebbe nell’accogliere la visione del mondo dell’altro e unirla alla propria, ma questa fusione non regge, si scompone e ognuno si perde nel proprio cosmo, nella propria visione dell’esistenza, per riunirsi solo quando il caos distrugge il sogno di entrambi.
Nelle sembianze di Colin e Bea si consuma la lotta tra il passato magico, spiritico e il futuro meccanicistico e fisico. Ci accostiamo a due modi di vedere e assaporare il mondo, due strade differenti che non necessariamente devono vivere l’una contro l’altra ma che, tristemente, finiscono per essere entrambe sconfitte, dalla follia o dalla rassegnazione.

lunedì 1 ottobre 2012

Favole, miti e leggende dell'Antico Egitto

Chi crede che la fiaba sia un genere adatto esclusivamente all’infanzia, prende un colossale granchio. La favola, infatti, non è tanto un semplice intrattenimento narrativo quanto un sistema di immediato impatto per offrire insegnamenti morali, sociali e religiosi.
La favola nasce insieme al mito, fa parte della tradizione orale che ha preceduto l’epoca della parola scritta e possiede una profondità di significato che sarebbe sciocco sottovalutare.
Ogni civiltà, ogni epoca ha le sue fiabe. Purtroppo, gran parte di esse non ci è stata tramandata in quanto facente parte, appunto, di un patrimonio orale che non sempre ha trovato un volenteroso che si sia dedicato ad una loro stesura scritta per i posteri. La tradizione di molte culture antiche per noi è andata irrimediabilmente perduta, ma se ne incontrano tracce in fiabe e miti di luoghi ed epoche più vicini a noi, come il Medioevo europeo, nascoste in maniera intelligibile solo all’erudito attraverso la trasformazione di figure e tematiche comuni a gran parte del genere umano.
La curatrice dell’antologia “Favole, miti e leggende dell’Antico Egitto”, Emma Brunner-Traut, si è data lo scopo di recuperare storie nate durante il magico periodo di splendore dell’Egitto dei faraoni, nonché i frammenti di quelle andate perdute.
L’antologia si divide in capitoli tematici. Si comincia con le fiabe vere e proprie, tra cui spiccano quelle relative agli animali. Essi venivano umanizzati e fatti interagire tra loro in un’imitazione della società umana, spesso deridendola e al contempo dando spiegazioni a comportamenti, simpatie e antipatie nel mondo animale. Questo genere ci è familiare grazie soprattutto alle fiabe di Esopo, con tutta evidenza ispirate a tradizioni più antiche.
Si passa poi ai racconti mitici, che narrano le grandi gesta e diatribe degli Dei, con particolare attenzione al mito fondamentale riguardante l’Oltretomba: quello di Osiride, Iside e Seth, che uccise e smembrò il fratello, il quale risorse dopo varie vicissitudini come re del Mondo dei Morti. Vi sono anche testi sulla lotta tra Seth e Horus (figlio di Iside e Osiride), una metafora della lotta tra la Forza bruta e l’Intelletto.
Seguono altre favole sugli animali, con evidente scopo educativo sui comportamenti giusti o errati, e quindi alcuni divertenti racconti farseschi, che prendono in giro con arguzia la società, alcuni personaggi famosi, modi di fare dell’epoca.
Si passa quindi ai racconti magici e meravigliosi, vale a dire a storie molto più articolate delle precedenti che spesso si basano su persone realmente vissute, entrate nella leggenda per la loro sapienza o per gli eventi straordinari accaduti durante la loro vita. Queste storie sono dei piccoli romanzi, molto ricche di dettagli e profonde anche nella caratterizzazione psicologica dei personaggi.
Si finisce con brani della tradizione cristiana-copta, dal sapore inconfondibilmente egiziano per il riutilizzo di tematiche e formule care alla tradizione, più o meno abilmente adattate alla nuova religione “di successo”.
L’antologia è corredata da una spiegazione ampia ed esauriente di ogni brano o frammento; esse sono raccolte alla fine del libro, in maniera da dare coordinate più precise al lettore sulla fonte del testo, sulla sua antichità e sui suoi significati più profondi. Alle spiegazioni sono affiancate le note, che così non vanno a disturbare la lettura né si affollano indebitamente a fondo pagina.
Il tutto è corredato da illustrazioni tratte da opere d’arte scultoree o su parete dell’Antico Egitto, prove grafiche della tradizione favolistica del regno dei Faraoni.
Oltre alla valenza storica della raccolta, si rimane stupefatti dal piacere che la lettura di queste storie può offrire, anche a distanza di millenni. Il linguaggio, pur adattato dai traduttori, si rivela in tutta la sua spigliata vitalità, freschezza, irriverenza e ironia, una modernità di approccio al racconto che sbalordisce nel rapportarsi a una cultura tanto antica.
Una raccolta stupenda, di interesse per lo studioso e divertente per il lettore medio. Un acquisto consigliato, un ennesimo centro perfetto della Newton Compton.

sabato 22 settembre 2012

Macbeth

‘Macbeth’, tragedia in cinque atti di William Shakespeare messa in scena per la prima volta tra il 1605 e il 1606, è un dramma a sfondo storico di ineguagliabile intensità per la profondità con cui scava nella tenebra dell’animo umano e nella degradazione che la sete di potere vi può apportare.
Il dramma si svolge in Scozia e si apre sulle sanguinose battaglie che la stanno flagellando. Dopo una grande vittoria a nome del re Duncan, i nobili Macbeth e Banquo si apprestano a tornare a casa.
Durante il  viaggio, però, sul loro cammino incontrano tre streghe, le quali sorprendono i due con una profezia. Salutano Macbeth quale Thane di Glamis, Thane di Cawdor e quindi come Re di Scozia. Macbeth, che possiede solo il primo titolo, rimane perplesso e piuttosto spaventato. Banquo chiede a sua volta quale sarà il suo destino e le streghe gli annunciano che egli non sarà re, ma padre di re.
Al cospetto di re Duncan, con loro sommo stupore, Macbeth viene insignito del titolo di Thane di Cawdor, come annunciato dalla profezia. Il nobile, dopo aver invitato tutti al suo castello, precede i suoi ospiti a casa e corre a cercare consiglio dalla moglie, Lady Macbeth.
Ella non possiede né scrupoli né timori. Sicura di sé, vede nella profezia una certezza di potere che la spinge a mandare il marito all’azione. Quella notte, mentre tutti dormono, Macbeth uccide il re con l’aiuto decisivo di sua moglie. Quando il cadavere di Duncan viene ritrovato, i figli del re, nel timore di essere accusati, fuggono, lasciando il titolo a Macbeth e diventando agli occhi di tutti i fautori dell’orribile omicidio.
Macbeth è ora re di Scozia, ma il re e la sua regina sono assillati dalla seconda parte della profezia, che vede i figli di Banquo sul trono. Macbeth ordisce così l’assassinio di Banquo, a cui scampa solo il figlio di quest’ultimo, che fugge. Lo spettro di Banquo appare a Macbeth durante una festa, facendolo quasi uscire di senno.
Il re, allora, va in cerca delle streghe e riceve da loro ulteriori informazioni. Le tre orride donne lo avvisano di stare attento al nobile Macduff, ma lo incitano a rimanere tranquillo, in quanto nessun uomo nato da donna potrà nuocergli, e a non aver paura finché la foresta di Birnam non giungerà nei pressi del Castello di Dunsinane. Macbeth si sente sollevato e, per essere ancora più tranquillo, fa uccidere la moglie e il figlio di Macduff, che è fuggito in Inghilterra.
Ormai è Macbeth ad avere uno spirito nero e corrotto, mentre la moglie perde progressivamente forza e determinazione, preda dei dubbi e dei rimorsi fino a diventare sonnambula.
Quando l’armata guidata da Malcom, figlio di Duncan, si muove verso il castello, camuffata con rami della foresta di Birnam, Macbeth trema. Gli viene anche portata la notizia che Lady Macbeth si è suicidata. Macbeth scaccia i dubbi e le paure e scende in combattimento. Macduff, nato da un parto cesareo e perciò in grado di ucciderlo, lo affronta e lo sconfigge, decapitandolo.
Malcom, figlio di Duncan, sale dunque al trono di Scozia.
Questa tragedia dai toni cupi e orrorifici è in sostanza un incubo incentrato sulla corruzione dell’animo umano.
Le tre streghe rappresentano il Destino; un trio spesso assimilato alle Parche, ma forse afferente a una tradizione celtica più antica, quella dei tre volti della Morrigan, dea della battaglia e del sangue. Esse conoscono ciò che sarà e fanno parte Macbeth delle loro visioni, ma al contempo gli rivelano solo parte del futuro e lasciano che sia lui stesso a tracciare la propria strada sanguinosa.
La chiave della relazione fra Macbeth e la moglie si riassume nel ‘passaggio di potere’ da lei a lui durante il dramma, un cambiamento di ruolo che è quasi più terribile nel suo sviluppo della lunga scia di sangue che la coppia si lascia alle spalle. Inizialmente, Lady Macbeth è una sorta di nume tutelare, la fonte stessa della forza e della determinazione. Con il passare del tempo e l’accumularsi dei crimini, Macbeth diventa sempre più crudele e autosufficiente, mentre la moglie ritrova la sua fragilità di donna e finisce per essere devastata dai rimorsi.
Macbeth è un testo teatrale assolutamente godibile anche con la semplice lettura, un tuffo in un mondo di tenebra che riecheggia di antiche tradizioni e misteri.

venerdì 7 settembre 2012

Storia della danza

Dedicato a chi della danza ha fatto la sua passione o meglio ancora la sua attività, nonché a coloro che gravitano attorno al mondo dello spettacolo più in generale, “Storia della danza” di Alessandro Pontremoli (edito da Le Lettere) si propone di offrire una panoramica dell’evoluzione dell’arte coreica a partire dal Medioevo fino ad arrivare ai giorni nostri.
Perché studiare l’evolversi dell’arte della danza? Non si tratta semplicemente della storia del ballo e delle caratteristiche che ha assunto attraverso i secoli. Il ballo è sempre stato profondamente legato all’arte teatrale, alla messa in scena pantomimica di drammi, commedie, favole, un costante tentativo di comunicazione senza parole, affidandosi esclusivamente al linguaggio del corpo.
Studiare la storia della danza, quindi, permette di scorrere su un binario parallelo allo studio della storia del teatro. Anche la concezione della bellezza e dell’importanza della prestanza fisica hanno subito mutamenti in relazione al modificarsi del modo di concepire la tecnica nella danza.
L’autore premette che la sua trattazione è lungi dall’essere esaustiva, ma offre a complemento della propria opera un glossario dei principali stili e dei termini specifici, un’ampia sezione biografica delle personalità nominate nel testo e una carrellata di illustrazioni e fotografie, nonché parecchie note bibliografiche.
Nella prima metà del testo, Pontremoli dà il suo meglio. Ci introduce nel mondo medievale con una certa dovizia di particolari, spiegando come il ballo rientra dalla finestra dopo essere stato scacciato dalla porta dalla Chiesa Cattolica. Diventando parte dei drammi religiosi prima ed entrando di prepotenza nei divertimenti di corte poi, la danza attrae uomini e donne per la sua componente gioiosa e per la certificazione di “grazia” che ne deriva.
Imparare a danzare i balli di corte, infatti, diventa man mano sinonimo di appartenenza a una classe agiata, di levatura nobiliare. Danzare richiedeva gesti gentili, misurati, ma anche virtuosismi che indicavano il tempo speso a studiare con impegno sotto la guida di un maestro. Era una parte imprescindibile del bon-ton, tanto che più avanti persino i Gesuiti introdussero lo studio della danza nei loro collegi, per rendere più facile ai diplomati l’ingresso nelle alte sfere della società.
Il centro dell’evoluzione del ballo accademico si radica in Francia, l’utilità e lo scopo del balletto appassionano teorici e artisti in tutta Europa (e, successivamente, anche in America). Fin da subito vengono fatti sforzi per tramandare ai posteri i dettagli delle coreografie. I maestri inventano sempre nuovi metodi di notazione dei passi, in maniera che il lavoro non vada perduto e possa essere replicato anche a grande distanza di tempo o luogo.
La danza, infatti, è un’arte di fruizione immediata, di cui non rimane nulla dopo la performance. Solo oggi abbiamo i mezzi per registrare su supporto multimediale. Senza gli sforzi fatti per prendere nota delle coreografie, un immenso patrimonio artistico sarebbe andato completamente perduto.
Nella seconda parte si concentrano i difetti di questo saggio, che diventa un po’ troppo “settario”. I balli popolari o non di derivazione accademica non vengono nemmeno menzionati, facendo sprofondare nell’ombra generi importantissimi quali il tango, il tip-tap, l’hip-hop o l’influenza africana nella danza contemporanea.
L’autore si concentra esclusivamente sul ballo accademico francese e quindi americano, sulla sperimentazione avanguardistica, perpetrando una selezione molto discutibile su ciò che è danza e ciò che non sembra degno di entrare in una trattazione dell’evoluzione dello stile.
Anche il linguaggio si fa sempre più intellettuale, in maniera piuttosto pretenziosa. L’aggettivo “coreico” viene utilizzato fino a sfinire il lettore, la descrizione di stili e coreografie degli artisti contemporanei è affidata a poche frasi a effetto che in realtà non offrono la minima idea del lavoro coreografico, limitandosi a commenti stereotipati che possono essere comprensibili solo a chi conosce già gli spettacoli e il percorso artistico della personalità di cui si sta parlando.
L’avvertimento iniziale dell’autore non mitiga questa impressione di lacunosità del testo, ma “Storia della danza” merita comunque una lettura, non fosse altro che per la prima parte.

sabato 1 settembre 2012

Storie di bimbe, di donne, di streghe

Quattro racconti di Elizabeth Gaskell, autrice britannica attiva nel pieno del XIX secolo, vengono raccolti dalla casa editrice Giunti in una mini-antologia dal titolo “Storie di bimbe, di donne, di streghe”. Con una prosa mite, in qualche modo gentile come le protagoniste dei suoi racconti, la Gaskell tratteggia la società inglese del suo tempo e quella americana, offrendo uno scorcio degli assurdi ma quantomai sentiti dibattiti religiosi tra Anglicani, Cattolici (i famigerati Papisti) e incorruttibili Puritani, sempre pronti a scornarsi su ogni argomento e a ghettizzare il malcapitato portatore di un pensiero differente capitato per un qualunque motivo in una comunità ostile.
Altro tema a lei caro, la concezione della strega e la facilità con cui questo “peccato” veniva tirato in causa per accusare e condannare donne innocenti, spesso vittime di rancori molto terreni piuttosto che di effettive esperienze nel mondo del soprannaturale.
La Gaskell scrive di donne con animo di donna, partecipando alle loro disgrazie con una dolcezza tutta femminile ma anche con un intimo sentimento di fatalità che pervade ogni suo scritto, come se in fondo credesse che ogni sforzo per salvarsi dalla sconfitta sia vano.
Nonostante sappia tessere trame di non poca attrattiva, quasi sempre il finale non regge il confronto con il resto del testo, scivolando verso un sentimento di malinconica rassegnazione, di stasi e mantenimento dello status quo che hanno poco di romanzesco. D’altra parte, bisogna ricordarsi quale fosse la condizione della donna all’epoca in cui visse l’autrice, già di per sé coraggiosa nell’accostarsi a un mestiere che veniva riconosciuto come maschile.
Il primo racconto si intitola “La strega Lois” e narra le vicende di una giovane inglese, cresciuta nel timore di Dio, costretta alla morte dei genitori ad attraversare l’Atlantico per raggiungere lo zio emigrato in America e stabilitosi a Salem, roccaforte dei Puritani. L’arrivo di Lois non è ben accolto: lo zio è vecchio e malato, la famiglia è guidata dalla sua devota e marziale moglie, che prende subito Lois in antipatia. Come se non bastasse, il figlio maggiore Manasseh è uno psicolabile affetto da visioni mistiche che si mette in testa di sposarla, la mezzana Faith è una ragazza passionale che prova gelosia nei suoi confronti e la cuginetta Prudence è crudele ed esibizionista. Mentre nel paese si diffondono ingiuste accuse di stregoneria, Lois rimarrà vittima dell’appassionato rancore delle cugine, diventando un capro espiatorio per tutta la comunità.
“Il racconto della vecchia balia” cambia registro e ci porta nelle atmosfere di una storia di fantasmi della vecchia Inghilterra, con castelli infestati, famiglie maledette e spettri che si aggirano per brughiere innevate. Un’anziana balia racconta in prima persona fatti risalenti alla sua gioventù, quando si occupava della madre delle sue interlocutrici. Rimasta accanto alla bambina diventata orfana, ella si trasferisce con la piccola nell’antica casa di famiglia, abitata ormai sono da un’anziana zia, la sua badante e la scarna servitù. Presto cominciano ad accadere fatti inspiegabili. Nel castello si propaga una musica d’organo misteriosa e la piccola Rosamond si sente chiamare con profusione di pianto da una misteriosa bambina. Presto anche gli adulti saranno costretti alla resa dei conti con lo spettro della bambina e della madre di lei, tracce soprannaturali di antichi drammi familiari.
Ad esso segue “La clarissa”, forse il racconto meno riuscito della raccolta. Un giovane notaio si invaghisce di una bella fanciulla, che è afflitta da una maledizione. Di quando in quando, infatti, al suo fianco compare un doppione crudele, un demone tanto bello quanto perverso, che le rovina l’esistenza. Deciso ad aiutare la sua amata, il giovane scopre che l’autrice della maledizione, scagliata contro il padre della ragazza, è tale Bridget Fitzgerald, un’anziana donna con poteri stregoneschi. Quello che la vecchia non sa è di aver maledetto la sua stessa nipote, figlia di sua figlia. La strega espierà entrando nel convento delle Clarisse e pregando per scacciare il demone da lei stessa evocato.
L’ultimo racconto è quello più azzeccato dell’intera raccolta, forse perché molto meno ultraterreno e più pratico, forse più sentito sia nei temi che nella caratterizzazione dei personaggi. “Susan Dixon” parla di una ragazza forte e matura che, morta la madre, si trova a ritenersi responsabile per l’incolumità del fratellino, più gracile e sensibile della media. La vita sembra comunque arriderle grazie al fidanzamento con il vicino di casa Michael, ma una malattia le uccide il padre, la inchioda al letto per mesi e rende suo fratello un povero pazzo. Il suo senso della responsabilità viene a scontrarsi con l’opportunismo di Michael e Susan sacrifica amore e giovinezza per badare al fratello disabile e portare avanti da sola la fattoria, finché la vita non la metterà di nuovo di fronte al suo passato, in una drammatica resa dei conti.
Consigliato soprattutto al pubblico femminile, un libro delicato e malinconico.

sabato 25 agosto 2012

Eloisa e Abelardo

La storia scandalosa tra Abelardo e Eloisa è al contempo un romanzo d’amore e un documento storico di valore inestimabile sull’evoluzione culturale e spirituale di un secolo di passaggio dal buio Medioevo a un’età in cui la ricerca della sapienza e la riforma monastica divennero imperativi costanti, che portarono a importanti innovazioni sociali.
La storica francese Régine Pernoud si accosta all’analisi del carteggio fra i due protagonisti della vicenda in un saggio che non si pone come obiettivo quello di valutare quanto di questi testi sia realmente uscito dalla penna dei due sfortunati amanti, bensì quello di utilizzare i documenti a sua disposizione per tratteggiare con dovizia di particolari l’ambiente in cui i due si formarono e presero la strada che li condusse a entrare nella Storia.
Abelardo fu uno dei più importanti esperti di dialettica e filosofia del suo tempo. Nato da una nobile famiglia bretone, istruito al massimo grado, cedette i propri diritti di primogenitura ai fratelli per andare a studiare a Parigi, che a cavallo tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo stava ritagliandosi un posto di prima classe per le proprie scuole, in cui veniva insegnato tutto lo scibile allora conosciuto.
Il giovane era portato per la dialettica, l’arte di discutere qualunque tesi tramite dibattito per giungere poi a conclusioni e difenderle dagli attacchi altrui. Senza dubbio molto dotato, era anche presuntuoso e vanitoso. Non tardò a mettersi in antagonismo ai propri maestri, arrivando addirittura ad aprire una scuola propria e a circondarsi di discepoli.
All’apice della sua gloria, si risvegliò in lui il desiderio per le donne. Egli trovò soddisfazione facendo sua la più bella e acculturata fanciulla presente a Parigi a quel tempo: Eloisa, nipote di un ecclesiastico, che contrariamente alle sue coetanee aveva insistito per essere edotta nelle materie classiche. Abelardo riuscì a installarsi nella casa dello zio di lei e a diventare non solo il precettore della giovane, ma anche il suo amante. La passione tra i due fu talmente divorante da generare scandalo.
Eloisa rimase incinta, i due furono costretti a sposarsi benché lei – dimostrando una consapevolezza e un senso d’abnegazione tremendamente moderni – fosse contraria a legare Abelardo con un matrimonio che avrebbe tarpato le ali alla sua carriera. I parenti di Eloisa, però, non furono soddisfatti dal matrimonio riparatore e meditarono ulteriore vendetta. Quando Abelardo fece entrare Eloisa in convento come novizia, gli si scagliarono contro e lo evirarono.
Dalla menomazione fisica, Abelardo imparò cos’aveva significato per lui inoltrarsi nel peccato. Si avvicinò così alla vita monastica, diventando uno dei padri della scolastica. Il saggio spiega con chiarezza l’evoluzione della conversione spirituale di Abelardo e lo spostamento della sua ricerca logica sul piano prettamente religioso.
La sua grande abilità dialettica, però, non aveva ancora finito di portargli guai. L’autrice ci fa immergere in un mondo di dispetti, angherie, ingiurie tra ecclesiastici che rendono molto umani personaggi passati alla storia per la loro santità. Le diverse scuole di pensiero si fronteggiano in concili furibondi, in missive al veleno tra i diretti interessati e i potenti che avrebbero potuto prendere una parte piuttosto che l’altra.
Il genio della dialettica si trovò così invise le simpatie dei monaci a cui si era unito per la sua passione logica, in contrasto con visioni di pura fede o abitudini troppo radicate perché fosse concesso metterle in discussione. Gli anni della maturità furono un calvario per quest’uomo, che pur nella sua presunzione aveva davvero rivolto l’animo a Dio.
Eloisa camminò al suo fianco nella via evangelica, intrattenendo con lui uno stretto rapporto epistolare ora che la vita li aveva separati. Lei rimane il “cuore” della loro unione, custode di sentimenti e passioni che per lei non erano mai state sopite ma che tenne per sé nel rispetto della volontà dell’amato.
La Pernoud tratteggia con sapienza e una prosa scorrevole e molto umana la storia di questi due amanti del passato, uniti dalla carne e poi dalla fede, tormentati per tutta la vita ma forse per questo consegnati per sempre alla Storia.

lunedì 20 agosto 2012

Intensity

“Intensity” di Dean Koontz è un thriller edito in Italia dalla Sperling & Kupfer, un romanzo d’azione che si immerge nella psicologia di un pericoloso maniaco omicida e di una donna che nella vita ha sempre dovuto recitare il ruolo di vittima, ma che per una volta decide di prendere in mano la situazione e cavarsela con le proprie forze.
Chyna ha vissuto un’infanzia disastrata. La madre l’ha trascinata con sé attraverso gli Stati Uniti, in una vita nomade e sregolata al fianco di uomini sempre diversi ma accomunati da un tratto: la tendenza al caos, alla violenza gratuita, all’amore per le armi e la morte. Chyna ha assistito a cose orribili e lei stessa si è salvata più volte solo grazie ad un istinto di sopravvivenza in costante allenamento.
Ora che è donna e si è fatta una vita normale, lontana dalla madre, China desidera solo condurre un’esistenza di cui possa essere fiera. Purtroppo sembra che il destino voglia beffarla a qualunque costo. Mentre si trova in vacanza da un’amica, infatti, la giovane donna assiste impotente ad alcuni efferati omicidi. Lei stessa si salva a stento, terrorizzata, dal maniaco che rapisce la sua amica Laura.
Chyna, rifiutandosi di essere vigliacca, tenta di salvare l’amica recuperandola dal camper dell’assassino, ma finisce per rimanervi prigioniera all’insaputa dell’omicida, senza per altro poter fare più niente per Laura. Ormai può solo fuggire, alla prima occasione. Purtroppo per lei, l’assassino non è un comune maniaco. Edgler Vess crede di essere qualcosa in più di un normale essere umano. Qualcosa di eletto, superiore. Egli, infatti, non si limita a vivere. Lui gusta la vita, la divora, la palpa, la fa sua attraverso i cinque sensi. Ama la sensazione del dolore e gode nell’infliggerlo agli altri; l’azione dell’uccidere esalta la sua sensibilissima percezione del mondo.
E’ per un puro caso che Chyna viene a conoscenza, una volta sgusciata via dal camper, del segreto più orribile di quell’uomo già abbastanza terrificante: egli tiene prigioniera una sedicenne, la bella Ariel, segregata in cantina. Per non si sa quale ragione, Edgler desidera farla partecipe della sensazione della “intensità”, vuole condividere con lei i suoi efferati delitti, in attesa che cresca per…cosa? Violentarla? Ucciderla?
Non sono affari di Chyna, che è riuscita a stento a conservare la propria vita. Cosa può fare lei, per quella ragazza, se non chiamare la polizia? Eppure, la somiglianza tra la situazione della giovane Ariel e la sua infanzia negletta cancellano dalla mente della donna ogni pensiero razionale. Non può lasciarla da sola e solo lei può condurre la polizia nel nascondiglio del mostro. Chyna si mette così all’inseguimento di Edgler Vess, iniziando una partita mortale.
Il thriller di Koontz è caratterizzato in ogni sua sfaccettatura da alti e bassi. La prosa, per esempio, ha il pregio di una certa ricerca stilistica nel narrare le vicissitudini di Chyna tramite il normale passato remoto in uso nella narrativa, per passare al tempo presente quando il punto di vista si sposta all’interno della mente di Edgler, che vive appunto nell’immediato della sensazione. Questa ottima idea, anche se non nuova, viene sciupata da passaggi piuttosto stranianti tra scene crude e scarne, dove ogni parola ha il suo peso e la sua misura, ad ampi passaggi di tono lirico-poetico in una pallida imitazione di decadentismo che stonano nell’incunearsi tra una scena d’azione e l’altra. In parte anche a causa di una traduzione non felicissima, queste discrepanze si notano soprattutto all’inizio del romanzo, quando ancora si è impegnati a “farsi la bocca” con la storia.
Se il cattivo della situazione è plausibile e veramente terrificante nella sua ordinata violenza, la protagonista risulta priva di spessore, un personaggio letterario e poco aderente alla realtà. Difatti l’autore continua a giustificare le azioni avventate di Chyna tramite lunghi ragionamenti, riflessioni, ricordi traumatici del passato, che finiscono per diventare ripetitivi e ottengono come unico effetto di far capire al lettore che il romanzo si dipana non in maniera logica ma al servizio dei climax che l’autore ha intenzione di inserire. Pure, le scene d’azione sono forti e sanguigne, fanno accelerare i battiti.
“Intensity” è una lettura senza tante pretese, da affrontare senza spirito critico, per il puro gusto di sfogliare un libro sotto l’ombrellone. Godibile, ma niente di che: un’occasione perduta.

lunedì 13 agosto 2012

L'esorcismo

L’esorcismo è il rito attraverso cui si opera una liberazione dalla possessione sul corpo di un uomo o una donna, tormentati da entità malvagie e diaboliche. I posseduti, di solito, si rivolgono alle autorità ecclesiastiche solo dopo aver tentato ogni altra strada. L’esorcismo non è un rito afferente in maniera esclusiva al Cristianesimo, ma esiste in molte altre culture, con valenze differenti.
Il saggio “L’esorcismo” edito da Xenia e scritto da Massimo Centini vuole offrire informazioni più dettagliate riguardo un fenomeno che la gran parte di noi conosce solo in maniera distorta, attraverso la mediazione cinematografica dei film dell’orrore.
Inizialmente, l’autore mette l’accento sulla differenza insita nel rito dell’esorcismo rispetto a una normale benedizione. Mentre la seconda ha come scopo quello di attirare energie positive sulla persona oggetto della benedizione, e questo indipendentemente dalla sua condizione psico-fisica al momento, l’esorcismo è un rito magico-religioso che si opera solo in presenza conclamata di energie negative, che hanno preso possesso di una persona e vanno scacciate.
Vengono cercate tracce dell’esorcismo nelle sacre scritture, per valutare come il rito si è evoluto nel tempo, e si analizza il rito corrente per la religione Cristiana, regolato da precise norme cui l’esorcista deve attenersi.
L’autore offre anche una disamina dei differenti stati alterati di coscienza, che potrebbero essere segnale di possessione diabolica oppure condizione ideale affinché l’interessato si trovi in pericolo. Si studia la natura del Diavolo, o dei numerosi demoni responsabili della possessione, analizzando i loro scopi e i segni ricorrenti sul corpo dell’indemoniato in base ai documenti antichi che ci sono pervenuti.
Viene sottolineato più volte il fatto che gran parte delle volte il posseduto non è tale, bensì una persona la cui mente è sconvolta da una qualche patologia psicologica. Oggi, la scienza ha i mezzi per riconoscere gran parte di queste alienazioni e gli stessi esorcisti tendono a formarsi una cultura a livello psichiatrico per non farsi trarre in inganno. Anche l’antica caccia alle streghe, in fondo, gran parte delle volte si sarebbe risolta con una diagnosi di demenza, schizofrenia o ossessione della presunta strega, ben lontana da qualsiasi possessione diabolica.
Nemmeno sante e beate sono rimaste lontane da sospetti di rapporti con il Maligno, esposte com’erano al suo potere a causa dei frequenti stati d’estasi. Il Diavolo, infatti, viene descritto in tutti i documenti come esperto nel camuffamento, tanto da presentarsi persino nella veste di Gesù Cristo pur di ingannare l’anima che ha scelto di corrompere.
Per quanto interessante, il saggio non riesce ad essere esaustivo su alcuno dei sentieri imboccati dall’autore. Nonostante venga specificato più volte, ad esempio, che l’esorcismo non è un fenomeno solo occidentale e cattolico, non c’è una descrizione di riti differenti da quello Romano, una seria indagine antropologica sulla possessione non diabolica e sul modo di affrontarla presso altre culture.
Si immagina, allora, che almeno la visione cattolico-cristiana dell’evento venga trattata in maniera completa, con descrizione non solo del rito, ma anche della preparazione del sacerdote e di una casistica che funga da esempio.
Purtroppo anche questa speranza viene frustrata. Non c’è alcuna casistica e il rito viene descritto tramite citazioni dai testi che regolano tale pratica. Piuttosto l’autore preferisce parlare di argomenti di dubbia valenza quali i presunti messaggi satanici registrati sui dischi rock o trattare brevemente di pochi casi d’omicidio in Italia legati in qualche modo a confusi rituali satanici.
In breve, il testo offre sicuramente un discreto primo approccio alla materia, ma non è sufficiente a farsi un’idea precisa di cosa sia l’esorcismo. Suggerisco, per gli interessati, di approfondire altrove dopo la lettura di questo saggio.

mercoledì 8 agosto 2012

Fidati!

Heather e Andrew sono giovani. Hanno solo diciassette anni, un’età in cui i colpi di testa non sono rari e avere fiducia che gli interessi dureranno più a lungo di qualche mese è piuttosto difficile. Questi potrebbero essere i motivi a giustificazione dell’avversione totale che i genitori di entrambi provano verso la loro relazione, ma la verità è più semplice e gretta: lei ha la pelle nera, lui è bianco. Quest’unione “non s’ha da fare”.
Osteggiati dalle famiglie, i due giovani inglesi decidono di concedersi un po’ di tregua partendo per una vacanza, loro due soli, in viaggio per l’Europa da un ostello all’altro. Questo appianerà i dissidi e forse riuscirà anche a sancire un legame sul piano fisico, in maniera da rendere indissolubile il loro amore.
Purtroppo le cose non vanno come previsto. L‘incubo irrompe nelle vite dei due ragazzi sotto forma di un vampiro, Julius, che li irretisce e poi riduce Andrew in fin di vita. L’accorata preghiera di Heather, la profondità dei suoi sentimenti, inducono Julius a porre rimedio…a modo suo. Egli, infatti, trasforma Andrew in un vampiro.
Da questo momento, la vita di Heather si trasforma in uno scivolo verso l’inferno. La relazione tra i due non potrà più essere quella di un tempo. Andrew, però, non accetta di essere separato dalla sua ragazza e tanto dice, tanto fa, che Heather si abbandona al suo bacio di vampiro e torna al suo fianco come non morta.
Il patto di sangue perverte il loro amore in un malsano possesso da parte di Andrew, cui i poteri hanno dato alla testa, mettendo in luce lati oscuri del suo carattere. Heather cerca disperatamente di mantenere la propria umanità, il rapporto pur conflittuale con la propria famiglia, ma questo la conduce sempre più lontana dal giovane che un tempo amava. Possibile che le cose non possano più tornare come prima? Possibile che l’unica cosa che riservi loro il futuro sia la morte?
Questa è, in breve, la trama del romanzo “Fidati!” di Malorie Blackman, edito da Mondadori, una storia per ragazzi sui vampiri che unisce la tradizione alla visione moderna del “succhiatore di sangue”, sulla scia dei romanzi di Anne Rice, capace di condurre una normale vita sociale nei momenti in cui non è in caccia.
La commistione funziona bene, senza togliere nulla al mistero sanguinario del vampiro tradizionale (il romanzo è stato scritto al principio degli anni ’90, ben prima di saghe come Twilight e simili) ma allo stesso tempo slegandolo dal cliché di bare, cimiteri e camere da letto di vergini terrorizzate.
Godibile per ogni tipo di lettore, la storia è comunque dedicata agli adolescenti e a chi ancora ricorda i turbamenti e il modo di affrontare le avversità in questi anni di passaggio dall’infanzia all’età adulta. E’ essenziale calarsi di nuovo in quella forma mentis per seguire con la dovuta partecipazioni le vicende di Heather e Andrew, i cui problemi altrimenti perderebbero di urgenza e intensità.
Gli scontri con i genitori, le riunioni con gli amici, i bulli sempre pronti a scatenare una rissa, le piccole ripicche, le gelosie, l’illusione meravigliosa che l’amore durerà per sempre e saprà superare qualsiasi ostacolo…E’ un’età che brilla di luce propria. Anche per questo è ancora più orribile che Heather ed Andrew vengano catapultati nella tenebra quando hanno vissuto ancora così poco della vita umana. Diventa troppo facile dimenticare ciò che si era.
Tra le righe si respira una Londra che si è appena lasciata alle spalle gli anni ’80, una generazione di ragazzi più presente e ambiziosa di quella corrente, una città cosmopolita eppure ancora piena di pregiudizi e conservatorismo molto europeo.
La prosa della Blackman non si perde in troppe descrizioni inutili, utilizzando la prima persona per darci uno scorcio il più possibile limpido dell’animo di Heather, delle sue paure e dei suoi sentimenti. L’azione scorre veloce, chiara come la proiezione di un film. A parte alcune piccole cadute di tensione, il romanzo è un invito alla lettura tutta d’un fiato.
Una tenera storia dell’orrore, una parentesi nostalgica su una generazione di vent’anni fa.