mercoledì 30 maggio 2012

Professione teatro

Chi afferma di voler lavorare nell’ambito teatrale, di solito sogna di trasformarsi in una di queste due figure magiche: l’attore o il regista.
Spesso non ci si rende conto, però, che la conditio sine qua non per cui queste figure d’arte possano dare il meglio è che attorno a loro graviti e lavori un discreto numero di persone i cui compiti sono senz’altro più prosaici ma altrettanto fondamentali.
Come mettere in piedi uno spettacolo senza tecnici luci? Senza addetti al suono? Credete si possa fare molto senza costumi e scenografia?
Per non parlare poi della gestione vera e propria della compagnia, degli ingaggi, delle eventuali tournée e delle pratiche burocratiche che non finiscono mai. Questo senza voler aggiungere, magari, la gestione di un teatro vero e proprio che funga da “base operativa” e fonte di guadagno stabile.
Spesso chi si dedica al lato artistico del mondo teatrale snobba o conosce troppo poco il lavoro nascosto che gli permette di andare in scena con tutti i crismi. Il libro che vi vado a presentare è un ottimo sistema per iniziare a colmare certe lacune.
“Professione teatro”, edito da Gremese, è stato scritto dall’organizzatrice teatrale (più in generale, di spettacolo) Thessy Sembiante, una professionista che si è fatta le ossa al Teatro Piccolo di Milano e ha collaborato con grandi artisti.
Con uno stile fresco, confidenziale, la Sembiante ci introduce nel mondo dei faccendieri teatrali, spiegando con precisione e dovizia di particolari – ma senza infilarsi in astruse spiegazioni tecniche – tutto quello che c’è da sapere per diventare un organizzatore teatrale o scoprire nuove professioni all’interno del mondo dello spettacolo.
La prima parte dà un consiglio apparentemente semplice, ma fondamentale. Prima di iniziare l’avventura con una compagnia teatrale di nuova fondazione, piccola o grande che sia, occorre avere le idee chiare sul repertorio che si vuole andare ad affrontare e proporre. Piuttosto che essere dispersivi e andare avanti secondo il gusto del momento, l’autrice consiglia alle nuove realtà di iniziare a proporre un repertorio coerente, magari non già abusato nel territorio di appartenenza.
Cabaret, teatro classico, musical, teatro ragazzi, teatro sperimentale, teatro dialettale…ce n’è per tutti i gusti e palati, basta conoscere il repertorio, i lavori delle compagnie specializzate e fare ricerche sui gusti del pubblico.
La seconda parte si inoltra maggiormente nello specifico, cercando di illustrare in maniera chiara l’ostico problema delle pratiche burocratiche. Per gestire una compagnia, anche piccola, bisogna comunque sottostare ad una serie di incombenze con gli enti preposti che possono far andare facilmente in confusione.
Inoltre un’attività ben documentata della compagnia può dare accesso ai finanziamenti pubblici, che costituiscono un aiuto non indifferente. Anche questa è una materia da valutare con attenzione.
A questo punto, nella terza parte, si passa all’allestimento pratico dello spettacolo, partendo dalla scelta del testo, alla creazione del cast e della squadra tecnica. Ogni figura professionale viene illustrata in base ai suoi compiti e al suo ruolo all’interno del “grande meccanismo”, offrendo uno spaccato del lavoro di squadra che andrebbe tenuto sempre a mente.
Una volta preparato lo spettacolo, esso va presentato, messo in scena e venduto. La quarta sezione del saggio spiega come organizzare una prima e quali sono gli iter da seguire in caso di tournée. Si parla essenzialmente di marketing, una materia molto difficile ma che oggi ha un grande seguito.
Infine, per chi volesse prendersi la briga di gestire un teatro, l’autrice scrive un capitolo completamente dedicato alle norme e agli obblighi inerenti l’apertura e la sopravvivenza di una struttura adeguata. Si chiude con una spiegazione dei vari tipi di impresa possibile e con il Regolamento di Palcoscenico, valido in tutta Italia.
Il saggio, esaustivo e interessante, è arricchito da molte testimonianze dirette di addetti ai lavori, registi, attori e organizzatori, offrendo un punto di vista corale su questo mondo magico e complesso.
Una lettura che dovrebbe essere d’obbligo a tutti coloro che vogliono avvicinarsi al mondo del teatro.

giovedì 24 maggio 2012

Le avventure di Jim Bottone

Dormolandia è un regno molto particolare. Prima di tutto, è un’isola composta da due montagne diseguali. Poi, il suo re, Alfonso l’Undicesimo e Tre Quarti, governa su due soli sudditi, più un macchinista di nome Luca e la sua locomotiva Emma. Di più non si potrebbe: l’isola è piccina e non c’è spazio per altri abitanti.
Un giorno, il postino consegna un pacco su cui è scritto un indirizzo sgrammaticato ma che sembra diretto a Dormolandia. Dentro, con somma sorpresa di tutti, c’è un bambino di colore. Gli abitanti decidono di adottarlo, battezzandolo Jim. Il bambino cresce intelligente e coraggioso, molto amico del macchinista Luca, e il grosso bottone cucito sui suoi pantaloni sempre bucati gli fornisce anche un cognome.
Un giorno, però, il re giunge a una decisione triste ma irrevocabile: vista la carenza di spazio e la veloce crescita del bambino, qualcuno deve abbandonare l’isola. Il regno è troppo piccolo per tutti quanti. La scelta ricade sulla povera Emma, che Luca decide di seguire nell’esilio. Jim, però, non vuole essere lasciato indietro e i tre partono per una fantastica avventura.
Comincia così questo romanzo di Michael Ende, surreale e moderno inventore di fiabe per grandi e piccini, autore di capolavori quali “La Storia Infinita” o “Lo Specchio nello Specchio”.
La storia del piccolo Jim ha tutti i connotati di una favola. Il bambino ha un’origine misteriosa, è affiancato da un migliore amico saggio e adulto e da una “mascotte”, una locomotiva dotata di sentimenti a sostituzione del tipico animale parlante.
Il romanzo ha una struttura ben precisa, quella del viaggio denso di pericoli atti a fornire al protagonista non solo l’avventura che cercava, ma anche numerosi spunti di riflessione che lo conducano a una maturazione, un viaggio dall’infanzia spensierata a una presa di coscienza che conduce verso un’età più adulta.
Ende crea mondi e personaggi densi di ironia e senso dell’umorismo, trovate inaspettate costellano l’intera storia come gemme. Cosa dire, per esempio, del gigante apparente, che diventa tale solo a distanza per rimpicciolirsi fino alle dimensioni di un normale essere umano quando si trova a pochi passi dall’osservatore? O della catena di montagne a strisce rosse e bianche, superabile solo attraverso una gola che ripete e amplifica gli echi all’infinito? O, di nuovo, di un’isola galleggiante che si può acchiappare come un frutto maturo se solo si è così fortunati da incrociarne la rotta?
Ende, poi, inventa un impero esilarante, delicato e minuzioso prendendo come spunto l’antica Cina. I nostri protagonisti, infatti, finiscono nel regno di Mandala, ove l’imperatore è in lutto per il rapimento della figlia Li Si.
Le piccole manie, i luoghi comuni e le tradizioni cinesi vengono sviluppate e contorte dall’autore in tutte le maniere possibili, fino a creare un delizioso mondo pieno di piccoli mandalini dalla incredibile intelligenza, amanti di menù tanto lunghi quanto vomitevoli per il nostro palato, perfetti esempi di pulizia e d’arte, abitanti di città dai tetti d’oro, ponti di porcellana e alberi di vetro trasparente.
E’ in questo posto magico che a Luca e Jim viene affidata la missione di ritrovare la principessa. Da qui comincia il viaggio attraverso luoghi incredibili alla ricerca di Dolorandia, la città dei draghi e del terribile drago, la Signora Dentemolare, che tiene i bambini rapiti in schiavitù e cela il segreto delle origini di Jim, originariamente da lei comprato e mai ricevuto per un disguido d’indirizzo.
C’è spazio per combattimenti e redenzioni, per momenti di disperazione e piccoli miracoli. Jim, affiancato dai suoi amici, scoprirà perfino il primo amore e sarà costretto a mettere in discussione la vita senza pensieri per il futuro (che si tratti dell’istruzione o di un mestiere) che l’ha caratterizzato fino alla sua avventura mandalina. Il ragazzino che parte da Dormolandia non sarà lo stesso che, forse, un giorno vi farà ritorno.
Una lettura pensata per bambini e ragazzi, ma godibile anche per un adulto che sa ancora apprezzare le fiabe o che, ottima pensata, ama leggere ai propri figli una favola della buonanotte.

venerdì 18 maggio 2012

Tradizioni celtiche


“Tradizioni celtiche” di Ward Rutherford (edito dalla TEA) è uno dei migliori testi sull’argomento che mi sia mai capitato tra le mani.
Questo è un saggio di sorprendente chiarezza, lucidità. Una trattazione tanto complessa nei rimandi e nella profondità culturale quanto semplice nel linguaggio, adatto a tutti i palati. E’ raro trovare un tomo che consenta una fruizione così “spensierata” offrendo al contempo una mole di informazioni non solo considerevole, ma ricca di spunti per successivi approfondimenti.
Rutherford ci parla dei Celti come appartenente alla loro eredità, ma analizza con lucida obiettività l’influenza che la cultura di questo popolo ha avuto (e ancora ha) sulla cultura occidentale, per lo più ignara di questa impronta antica e misteriosa.
L’autore racconta la storia del popolo celtico senza accontentarsi delle teorie più gettonate, ma vagliando con giusto scrupolo anche le opinioni meno ortodosse che, negli ultimi anni, stanno gettando una luce forse più veritiera sulle origini di questa civiltà.
Si sa che i Celti appartenevano al ceppo indoeuropeo che ha dato i natali a gran parte delle popolazioni europee. Una cultura più antica, precedente all’insediamento in Europa, ha accompagnato questi popoli, diversificandosi man mano, assumendo altre forme pur mantenendo a livello del mito una radice comune che un occhio attento e una mente pronta possono cogliere senza eccessiva difficoltà. A questa sapienza ancestrale, i Celti hanno saputo coniugare il lascito delle misteriose popolazioni neolitiche a cui dobbiamo i complessi di pietra sparsi per l’Europa.
La cultura celtica si fondava sulla verità, sul coraggio, sull’ardore sanguinario e su una sapienza spirituale di livello particolarmente evoluto, i cui custodi e unici detentori erano i druidi. La società era divisa in caste, il re governava il popolo previa elezione e solo fino a che non avesse perso l’appoggio dei suoi druidi. Le donne potevano possedere ricchezze e perfino farsi guerriere e scendere in battaglia.
Rutherford offre molto spazio al tentativo di comprendere la figura del druido (o druida), potente ma mistificata da secoli di informazioni inesatte. Le principali testimonianze dell’epoca ci arrivano dai nemici diretti dei Celti, che avevano tutto l’interesse a porre l’accento sugli aspetti cruenti e sanguinari della loro cultura (comunque presenti e di pubblico dominio), in un acceso tentativo di propaganda negativa verso i “barbari”.
Sappiamo per certo che questa casta era formata da sapienti che si preparavano al loro ruolo tramite uno studio ventennale che richiedeva grandi sacrifici e prove iniziatiche. Il druido era sacerdote, mago, conoscitore delle leggi e custode del mito. La sua figura va a mischiarsi con coloro che oggi chiamiamo bardi, i cantori di gesta.
La loro memoria era prodigiosa, frutto di una cultura orale. Il loro alfabeto era mistico e segreto, ogni segno aveva un peso ben superiore alla mera rappresentazione di un suono. Avevano uno stretto rapporto con la natura, soprattutto con gli alberi, ed erano tramite con gli altri mondi.
La sezione dedicata alla storia di questa civiltà è ampia e in un certo senso sorprendente, in quanto non si limita a tracciarne il percorso dall’insediamento in Europa (e in particolare nelle isole britanniche) fino alla graduale scomparsa per opera dell’occupazione romana prima e dei missionari cristiani poi, ma si spinge molto più in là, cercando – e trovando – traccia di una resistenza e di una identità culturale testarda e indomabile che ha continuato a esistere nell’ombra per secoli.
L’autore ci offre quindi una chiave di lettura alternativa ma assolutamente vera e pregnante di avvenimenti storici normalmente studiati sotto un’ottica che con il perdurare dello spirito celtico si supponeva non avessero nulla a che fare. Analizza quante festività tuttora in auge non siano che trasformazioni e camuffamenti di cerimonie e cadenze annuali della religione antica, quanti siano i toponimi legati alle divinità e agli eroi delle leggende e di come essi siano distribuiti nel continente.
Si sottolinea inoltre la vera natura di quei bardi medievali che hanno dato origine alla cultura cavalleresca e alle abitudini dell’amor cortese: discendenti dei druidi, musici dall’imponente repertorio mnemonico e, probabilmente, ultimi depositari del bagaglio mitico che è entrato a far parte del nostro mondo grazie al filtro dei romanzi cortesi.
Un nuovo modo di affrontare la conoscenza di un popolo misterioso e avvolto da pregiudizi e leggende che ne hanno snaturato la vera immagine.
Delizioso, completo, magico.

domenica 13 maggio 2012

Monologhi e soliloqui

Il monologo è una di quelle sfide che ogni attore desidera e paventa allo stesso tempo. Desidera, perché offre la possibilità di mettere in luce le proprie abilità, le doti d’attore sapientemente calibrate, maturate in anni di studio o d’esperienza. Paventa, perché è proprio quando si è in luce piena che si incorre più facilmente nell’eventualità di inciampare in una figuraccia, di sopravvalutare le proprie capacità artistiche.
Un attore, comunque, non può fare a meno di confrontarsi con monologhi e soliloqui, nemmeno se si tratta di un teatrante che non ha mai ottenuto parti abbastanza importanti da dover sostenere un tal peso in scena. Alle audizioni, infatti, il monologo è una prova da cui non ci si può esimere.
Come trovare il pezzo giusto per un provino? Da dove attingere, nell’infinito mare della produzione letteraria-teatrale-cinematografica?
“Monologhi e soliloqui” di Giuseppe Manfredi, edito da Gremese Editore, propone una raccolta eterogenea di testi che possano servire non solo allo scopo di prepararsi a queste prove, ma anche come esercizio di lettura, comprensione, tentativo di approccio a personaggi sempre vari e complessi.
La prima cosa su cui l’autore- professionista del teatro- mette l’accento, è la sostanziale differenza tra il monologo e il soliloquio.
Il monologo è un lungo discorso rivolto verso un interlocutore silenzioso, che si limita ad ascoltare. Esso, chiamato deutarantagonista, può essere impersonato da uno o più attori presenti in scena, oppure dal pubblico stesso.
Il soliloquio, invece, è un parlare tra sé e sé, un espediente prettamente teatrale che mette in voce i pensieri del personaggio, che altrimenti rimarrebbero nascosti impedendoci di comprendere a fondo il suo evolversi e le sue motivazioni.
L’antologia si compone di due volumi, uno dedicato a grandi protagoniste femminili e l’altro a quelli maschili. Da sottolineare il fatto che esiste molto più materiale di qualità per gli attori che per le attrici, in quanto per molto tempo il Teatro ha dato il suo meglio per il genere maschile.
Ogni brano della raccolta, dedicata soprattutto al teatro contemporaneo con brevi interludi nel passato, viene analizzato del dettaglio prima che ne sia proposta la lettura.
Ad una prima analisi sulla valenza letteraria e teatrale, con brevi accenni alla trama complessiva dell’opera da cui è stato estrapolato il brano, all’autore e all’ambiente culturale che ha visto la nascita del copione in questione, segue una seconda disamina che contiene veri e propri consigli per l’attore che sta per mettersi al lavoro.
 
Vengono elencati i tratti salienti del personaggio da interpretare, con alcune indicazioni registiche sull’atteggiamento da adottare per rendere più efficace la performance o sulle cose da evitare per non uscire da una coerenza di fondo con il testo d’appartenenza o, peggio ancora, finire per imitare un attore o un attrice di fama, ricordato proprio per l’interpretazione del pezzo preso in esame.
Viene inoltre fornita un’indicazione di base sull’età anagrafica e sulla presenza fisica dei vari ruoli, nota non decisiva nella scelta ma di cui tenere conto per non rischiare di ritrovarsi ad osare troppo.
Questo, ovviamente, non dovrebbe bastare all’attore che affronta seriamente il mestiere. Per comprendere veramente un personaggio non sono sufficienti poche righe, utili solo come introduzione. Nel decidere di preparare uno di questi monologhi, sarebbe opportuno leggere prima il copione completo e farsi un’idea della produzione e delle intenzioni dell’autore.
Un ottimo acquisto per tutti coloro che fanno teatro o coltivano la passione per esso. Piacevolissima lettura anche per chi desidera godersi i due volumi come antologia letteraria.

martedì 8 maggio 2012

I tre moschettieri



“Tutti per uno, uno per tutti!”

 
Alexandre Dumas è stato uno dei romanzieri più prolifici mai esistiti, tanto che la sua titanica opera è stata sospettata più volte di essere il frutto di più mani. Comunque la si voglia pensare, resta il fatto che questo autore francese possedeva una fantasia brillante, un sacro ardore nel raccontare storie e nell’ambientarle in contesti storici verosimili. Amava il teatro e scrisse la sua buona dose di commedie. Suo figlio, l’autore de “La signora delle camelie”, non fu da meno.
Una delle opere più famose di Dumas è, ancora oggi, “I tre moschettieri”, un’epica storia di amicizia, duelli e amori ambientata durante il regno di Luigi XIII. Da questo romanzo e dai suoi seguiti (“Vent’anni dopo” e “Il Visconte di Bragelonne”, ambientati durante il regno di Luigi XIV) sono stati tratti innumerevoli sceneggiati e film per il cinema, più o meno riusciti.
Tutta questa attenzione sottolinea la validità senza tempo dei temi trattati dall’autore, la concretezza di questa storia di amicizia fra compagni d’arme e intrighi di corte.
Il romanzo inizia nel momento in cui il giovane D’Artagnan, non ancora ventenne, lascia il suo paesino in Guascogna per recarsi a Parigi e farsi moschettiere, sotto il comando del compatriota Tréville. Il carattere orgoglioso e sbruffone del giovane, però, lo mette nei guai subito oltre la soglia di casa. Per strada finisce per azzuffarsi con un misterioso uomo che fa sparire la sua lettera di raccomandazione e al quartier generale dei moschettieri offende tre soldati, guadagnandosi tre duelli (strettamente proibiti) entro la fine della giornata.
I tre moschettieri, tali Athos, Porthos e Aramis, sono quasi degli eroi, in città. Parteggiano per il Re e la Regina e si dilettano nel dare filo da torcere alle guardie del cardinale Richelieu, vero detentore del potere in Francia. D’Artagnan, invece di duellare con loro, si trova nella complicata posizione di decidere per chi parteggiare quando le guardie del Cardinale li sorprendono con le spade in mano e pretendono di arrestarli. Non impiega molto a schierarsi a fianco dei tre moschettieri, che gli sono più congeniali.
Nasce così una strana amicizia, un gruppo formato dai caratteri più disparati che però riescono a creare un perfetto incastro. Athos, posato e colto, di oscura origine nobiliare; Aramis, affettato e deciso a farsi prete ma coinvolto in un’appassionata relazione amorosa con una nobildonna; Porthos, vanitoso quanto forte, sanguisuga delle finanze delle proprie amanti; D’Artagnan, svelto con la mente quanto con la spada, fulcro e riassunto del gruppo di moschettieri.
Il giovane guascone si innamora della moglie del suo padrone di casa, la signora Bonacieux, e questo lo trascina in un complesso sistema di intrighi di corte che lo spingerà a compiere un viaggio fino in Inghilterra per salvare la Regina da uno scandalo, ordito dal Cardinale. I moschettieri portano a termine la missione, ma i guai non sono finiti. Prima la signora Bonacieux viene rapita, poi D’Artagnan finisce tra le grinfie dell’affascinante e malefica Milady, misteriosa donna alle dipendenze del Cardinale, e infine il gruppo si ritrova a partire per un assedio.
Il finale regala molti colpi di scena inaspettati e, nonostante l’ironia e il sense of humor che pervadono lo stile di Dumas per tutta l’opera, anche momenti di commozione.
Il romanzo sprizza gioia di vivere. L’amicizia fra uomini è il tema portante; le donne sono di volta in volta simboli da venerare, oggetti da usare per raggiungere i propri scopi oppure – tema di fondo – terribili nemiche. Non sembra casuale il fatto che sia la Regina adorata dai moschettieri che la terribile Milady (loro nemica giurata) portino lo stesso nome: Anna. Come dire: due facce della stessa medaglia, i due aspetti della donna che, nei romanzi successivi, si fonderanno vertendo totalmente al negativo la figura femminile.
Una storia di cappa e spada piacevole, moderna nonostante i secoli trascorsi, irriverente e goliardica, una lettura che scivola via come l’olio.
Centinaia di pagine che si vorrebbero leggere d’un fiato.

martedì 1 maggio 2012

Vestiti - Lo stile degli italiani in un secolo di fotografie

L’evoluzione del costume, della moda nell’abbigliarsi, truccarsi e acconciarsi, accompagna di pari passo i cambiamenti storici e culturali, i concetti filosofici e gli avvenimenti che determinano un’epoca. Spesso questo lato dell’esistenza viene dimenticato, diventando materia di approfondimento solo per coloro che hanno un interesse di tipo professionale verso l’argomento.
In Italia, soprattutto, l’evoluzione dello stile non è trattata in maniera sufficiente. Esistono pochissimi testi di riferimento, quasi tutti di natura circoscritta a determinate epoche e quasi mai esaustivi anche nel ristretto campo d’azione. Coloro che studiano la storia dell’abbigliamento o dell’acconciatura sono costretti ad affidarsi a testi in lingua inglese, mai tradotti nel nostro Paese.
Senza soffermarci sui motivi di questa mancanza, rimane il fatto che trovare materiale di buona qualità sull’argomento è molto difficile e chiede una ricerca certosina, oggi fortunatamente aiutata dagli store di libri su internet.
Il volume “Vestiti – Lo stile degli italiani in un secolo di fotografie” di Diego Mormorio è arrivato tra le mie mani per puro caso, grazie ad un amico. Nascosto tra i libri d’arte, un po’ rovinato, ha attirato l’attenzione del mio compagno di ventura e questi l’ha passato a me, conoscendo il mio interesse per la materia.
E’ stato un acquisto felice: se l’avessi lasciato sullo scaffale per quei piccoli difetti, me ne sarei pentita.
Il volume, una edizione della Laterza in carta lucida, offre un viaggio fotografico attraverso un secolo di evoluzione di stile in Italia, dalla metà del diciannovesimo secolo alla fine degli anni ’50. L’autore è un fotografo che ha avuto modo, nel tempo, di accorgersi quanto l’abito che si indossa sia parte integrante del messaggio e del ricordo che si vuole imprimere nel ritratto fotografico.
Il libro ne raccoglie un buon numero, creando un viaggio virtuale attraverso cento anni di moda in continuo cambiamento.
Oltre al valore artistico della raccolta, Mormorio aggiunge un interessante approfondimento culturale, offrendo una spiegazione teorica dei periodi storici trattati e dei cambiamenti nella moda, dai tessuti, ai colori, alle linee.
Soprattutto la figura femminile ha subito innumerevoli cambiamenti nell’arco di un secolo. Il concetto di Bellezza ha continuato a variare, anche drasticamente nell’arco di pochi anni. La silhouette della donna ottocentesca veniva modificata drasticamente grazie alle crinoline, alle sottogonne modellate tramite cerchi di metallo, da panieri che, allacciati in vita, gonfiavano la gonna in corrispondenza del fondoschiena.
Il punto vita ha continuato a spostarsi nel tempo, allungando o accorciando la figura, e l’uso o meno del corsetto ha decretato il successo di donne con il vitino di vespa oppure linee più naturali o sinuose, fino ad arrivare alla donna magra e “rettangolare” degli anni ’20. Allo stesso tempo, le acconciature alte e gonfie, che richiedevano capelli lunghissimi e molto tempo dedicato alla loro realizzazione, con il nuovo secolo vengono spazzate via dalla moda garçonne. Il taglio cortissimo alla maschietta si impone, per mitigarsi più avanti con un ritorno alla femminilità.
Per l’uomo le modifiche sono meno evidenti e riguardano soprattutto la vita quotidiana, il rarefarsi di occasioni per sfoggiare abiti ricercati se non per appuntamenti serali. Nascono, con l’avvento della bicicletta, dell’automobile e dell’aereo, capi d’abbigliamento comodi che siano adatti al loro utilizzo. Gli ultimi capitoli mettono l’accento sulla nascita di una moda italiana, fino al ventesimo secolo mera copia dello stile parigino e londinese.
Lo stile è corretto, scorrevole e narrativo; fornisce dettagli senza diventare pesante, lasciando che le immagini parlino soprattutto da sé.
Un piacevole volume di approfondimento e una stupenda raccolta di fotografie d’epoca.