sabato 22 settembre 2012

Macbeth

‘Macbeth’, tragedia in cinque atti di William Shakespeare messa in scena per la prima volta tra il 1605 e il 1606, è un dramma a sfondo storico di ineguagliabile intensità per la profondità con cui scava nella tenebra dell’animo umano e nella degradazione che la sete di potere vi può apportare.
Il dramma si svolge in Scozia e si apre sulle sanguinose battaglie che la stanno flagellando. Dopo una grande vittoria a nome del re Duncan, i nobili Macbeth e Banquo si apprestano a tornare a casa.
Durante il  viaggio, però, sul loro cammino incontrano tre streghe, le quali sorprendono i due con una profezia. Salutano Macbeth quale Thane di Glamis, Thane di Cawdor e quindi come Re di Scozia. Macbeth, che possiede solo il primo titolo, rimane perplesso e piuttosto spaventato. Banquo chiede a sua volta quale sarà il suo destino e le streghe gli annunciano che egli non sarà re, ma padre di re.
Al cospetto di re Duncan, con loro sommo stupore, Macbeth viene insignito del titolo di Thane di Cawdor, come annunciato dalla profezia. Il nobile, dopo aver invitato tutti al suo castello, precede i suoi ospiti a casa e corre a cercare consiglio dalla moglie, Lady Macbeth.
Ella non possiede né scrupoli né timori. Sicura di sé, vede nella profezia una certezza di potere che la spinge a mandare il marito all’azione. Quella notte, mentre tutti dormono, Macbeth uccide il re con l’aiuto decisivo di sua moglie. Quando il cadavere di Duncan viene ritrovato, i figli del re, nel timore di essere accusati, fuggono, lasciando il titolo a Macbeth e diventando agli occhi di tutti i fautori dell’orribile omicidio.
Macbeth è ora re di Scozia, ma il re e la sua regina sono assillati dalla seconda parte della profezia, che vede i figli di Banquo sul trono. Macbeth ordisce così l’assassinio di Banquo, a cui scampa solo il figlio di quest’ultimo, che fugge. Lo spettro di Banquo appare a Macbeth durante una festa, facendolo quasi uscire di senno.
Il re, allora, va in cerca delle streghe e riceve da loro ulteriori informazioni. Le tre orride donne lo avvisano di stare attento al nobile Macduff, ma lo incitano a rimanere tranquillo, in quanto nessun uomo nato da donna potrà nuocergli, e a non aver paura finché la foresta di Birnam non giungerà nei pressi del Castello di Dunsinane. Macbeth si sente sollevato e, per essere ancora più tranquillo, fa uccidere la moglie e il figlio di Macduff, che è fuggito in Inghilterra.
Ormai è Macbeth ad avere uno spirito nero e corrotto, mentre la moglie perde progressivamente forza e determinazione, preda dei dubbi e dei rimorsi fino a diventare sonnambula.
Quando l’armata guidata da Malcom, figlio di Duncan, si muove verso il castello, camuffata con rami della foresta di Birnam, Macbeth trema. Gli viene anche portata la notizia che Lady Macbeth si è suicidata. Macbeth scaccia i dubbi e le paure e scende in combattimento. Macduff, nato da un parto cesareo e perciò in grado di ucciderlo, lo affronta e lo sconfigge, decapitandolo.
Malcom, figlio di Duncan, sale dunque al trono di Scozia.
Questa tragedia dai toni cupi e orrorifici è in sostanza un incubo incentrato sulla corruzione dell’animo umano.
Le tre streghe rappresentano il Destino; un trio spesso assimilato alle Parche, ma forse afferente a una tradizione celtica più antica, quella dei tre volti della Morrigan, dea della battaglia e del sangue. Esse conoscono ciò che sarà e fanno parte Macbeth delle loro visioni, ma al contempo gli rivelano solo parte del futuro e lasciano che sia lui stesso a tracciare la propria strada sanguinosa.
La chiave della relazione fra Macbeth e la moglie si riassume nel ‘passaggio di potere’ da lei a lui durante il dramma, un cambiamento di ruolo che è quasi più terribile nel suo sviluppo della lunga scia di sangue che la coppia si lascia alle spalle. Inizialmente, Lady Macbeth è una sorta di nume tutelare, la fonte stessa della forza e della determinazione. Con il passare del tempo e l’accumularsi dei crimini, Macbeth diventa sempre più crudele e autosufficiente, mentre la moglie ritrova la sua fragilità di donna e finisce per essere devastata dai rimorsi.
Macbeth è un testo teatrale assolutamente godibile anche con la semplice lettura, un tuffo in un mondo di tenebra che riecheggia di antiche tradizioni e misteri.

venerdì 7 settembre 2012

Storia della danza

Dedicato a chi della danza ha fatto la sua passione o meglio ancora la sua attività, nonché a coloro che gravitano attorno al mondo dello spettacolo più in generale, “Storia della danza” di Alessandro Pontremoli (edito da Le Lettere) si propone di offrire una panoramica dell’evoluzione dell’arte coreica a partire dal Medioevo fino ad arrivare ai giorni nostri.
Perché studiare l’evolversi dell’arte della danza? Non si tratta semplicemente della storia del ballo e delle caratteristiche che ha assunto attraverso i secoli. Il ballo è sempre stato profondamente legato all’arte teatrale, alla messa in scena pantomimica di drammi, commedie, favole, un costante tentativo di comunicazione senza parole, affidandosi esclusivamente al linguaggio del corpo.
Studiare la storia della danza, quindi, permette di scorrere su un binario parallelo allo studio della storia del teatro. Anche la concezione della bellezza e dell’importanza della prestanza fisica hanno subito mutamenti in relazione al modificarsi del modo di concepire la tecnica nella danza.
L’autore premette che la sua trattazione è lungi dall’essere esaustiva, ma offre a complemento della propria opera un glossario dei principali stili e dei termini specifici, un’ampia sezione biografica delle personalità nominate nel testo e una carrellata di illustrazioni e fotografie, nonché parecchie note bibliografiche.
Nella prima metà del testo, Pontremoli dà il suo meglio. Ci introduce nel mondo medievale con una certa dovizia di particolari, spiegando come il ballo rientra dalla finestra dopo essere stato scacciato dalla porta dalla Chiesa Cattolica. Diventando parte dei drammi religiosi prima ed entrando di prepotenza nei divertimenti di corte poi, la danza attrae uomini e donne per la sua componente gioiosa e per la certificazione di “grazia” che ne deriva.
Imparare a danzare i balli di corte, infatti, diventa man mano sinonimo di appartenenza a una classe agiata, di levatura nobiliare. Danzare richiedeva gesti gentili, misurati, ma anche virtuosismi che indicavano il tempo speso a studiare con impegno sotto la guida di un maestro. Era una parte imprescindibile del bon-ton, tanto che più avanti persino i Gesuiti introdussero lo studio della danza nei loro collegi, per rendere più facile ai diplomati l’ingresso nelle alte sfere della società.
Il centro dell’evoluzione del ballo accademico si radica in Francia, l’utilità e lo scopo del balletto appassionano teorici e artisti in tutta Europa (e, successivamente, anche in America). Fin da subito vengono fatti sforzi per tramandare ai posteri i dettagli delle coreografie. I maestri inventano sempre nuovi metodi di notazione dei passi, in maniera che il lavoro non vada perduto e possa essere replicato anche a grande distanza di tempo o luogo.
La danza, infatti, è un’arte di fruizione immediata, di cui non rimane nulla dopo la performance. Solo oggi abbiamo i mezzi per registrare su supporto multimediale. Senza gli sforzi fatti per prendere nota delle coreografie, un immenso patrimonio artistico sarebbe andato completamente perduto.
Nella seconda parte si concentrano i difetti di questo saggio, che diventa un po’ troppo “settario”. I balli popolari o non di derivazione accademica non vengono nemmeno menzionati, facendo sprofondare nell’ombra generi importantissimi quali il tango, il tip-tap, l’hip-hop o l’influenza africana nella danza contemporanea.
L’autore si concentra esclusivamente sul ballo accademico francese e quindi americano, sulla sperimentazione avanguardistica, perpetrando una selezione molto discutibile su ciò che è danza e ciò che non sembra degno di entrare in una trattazione dell’evoluzione dello stile.
Anche il linguaggio si fa sempre più intellettuale, in maniera piuttosto pretenziosa. L’aggettivo “coreico” viene utilizzato fino a sfinire il lettore, la descrizione di stili e coreografie degli artisti contemporanei è affidata a poche frasi a effetto che in realtà non offrono la minima idea del lavoro coreografico, limitandosi a commenti stereotipati che possono essere comprensibili solo a chi conosce già gli spettacoli e il percorso artistico della personalità di cui si sta parlando.
L’avvertimento iniziale dell’autore non mitiga questa impressione di lacunosità del testo, ma “Storia della danza” merita comunque una lettura, non fosse altro che per la prima parte.

sabato 1 settembre 2012

Storie di bimbe, di donne, di streghe

Quattro racconti di Elizabeth Gaskell, autrice britannica attiva nel pieno del XIX secolo, vengono raccolti dalla casa editrice Giunti in una mini-antologia dal titolo “Storie di bimbe, di donne, di streghe”. Con una prosa mite, in qualche modo gentile come le protagoniste dei suoi racconti, la Gaskell tratteggia la società inglese del suo tempo e quella americana, offrendo uno scorcio degli assurdi ma quantomai sentiti dibattiti religiosi tra Anglicani, Cattolici (i famigerati Papisti) e incorruttibili Puritani, sempre pronti a scornarsi su ogni argomento e a ghettizzare il malcapitato portatore di un pensiero differente capitato per un qualunque motivo in una comunità ostile.
Altro tema a lei caro, la concezione della strega e la facilità con cui questo “peccato” veniva tirato in causa per accusare e condannare donne innocenti, spesso vittime di rancori molto terreni piuttosto che di effettive esperienze nel mondo del soprannaturale.
La Gaskell scrive di donne con animo di donna, partecipando alle loro disgrazie con una dolcezza tutta femminile ma anche con un intimo sentimento di fatalità che pervade ogni suo scritto, come se in fondo credesse che ogni sforzo per salvarsi dalla sconfitta sia vano.
Nonostante sappia tessere trame di non poca attrattiva, quasi sempre il finale non regge il confronto con il resto del testo, scivolando verso un sentimento di malinconica rassegnazione, di stasi e mantenimento dello status quo che hanno poco di romanzesco. D’altra parte, bisogna ricordarsi quale fosse la condizione della donna all’epoca in cui visse l’autrice, già di per sé coraggiosa nell’accostarsi a un mestiere che veniva riconosciuto come maschile.
Il primo racconto si intitola “La strega Lois” e narra le vicende di una giovane inglese, cresciuta nel timore di Dio, costretta alla morte dei genitori ad attraversare l’Atlantico per raggiungere lo zio emigrato in America e stabilitosi a Salem, roccaforte dei Puritani. L’arrivo di Lois non è ben accolto: lo zio è vecchio e malato, la famiglia è guidata dalla sua devota e marziale moglie, che prende subito Lois in antipatia. Come se non bastasse, il figlio maggiore Manasseh è uno psicolabile affetto da visioni mistiche che si mette in testa di sposarla, la mezzana Faith è una ragazza passionale che prova gelosia nei suoi confronti e la cuginetta Prudence è crudele ed esibizionista. Mentre nel paese si diffondono ingiuste accuse di stregoneria, Lois rimarrà vittima dell’appassionato rancore delle cugine, diventando un capro espiatorio per tutta la comunità.
“Il racconto della vecchia balia” cambia registro e ci porta nelle atmosfere di una storia di fantasmi della vecchia Inghilterra, con castelli infestati, famiglie maledette e spettri che si aggirano per brughiere innevate. Un’anziana balia racconta in prima persona fatti risalenti alla sua gioventù, quando si occupava della madre delle sue interlocutrici. Rimasta accanto alla bambina diventata orfana, ella si trasferisce con la piccola nell’antica casa di famiglia, abitata ormai sono da un’anziana zia, la sua badante e la scarna servitù. Presto cominciano ad accadere fatti inspiegabili. Nel castello si propaga una musica d’organo misteriosa e la piccola Rosamond si sente chiamare con profusione di pianto da una misteriosa bambina. Presto anche gli adulti saranno costretti alla resa dei conti con lo spettro della bambina e della madre di lei, tracce soprannaturali di antichi drammi familiari.
Ad esso segue “La clarissa”, forse il racconto meno riuscito della raccolta. Un giovane notaio si invaghisce di una bella fanciulla, che è afflitta da una maledizione. Di quando in quando, infatti, al suo fianco compare un doppione crudele, un demone tanto bello quanto perverso, che le rovina l’esistenza. Deciso ad aiutare la sua amata, il giovane scopre che l’autrice della maledizione, scagliata contro il padre della ragazza, è tale Bridget Fitzgerald, un’anziana donna con poteri stregoneschi. Quello che la vecchia non sa è di aver maledetto la sua stessa nipote, figlia di sua figlia. La strega espierà entrando nel convento delle Clarisse e pregando per scacciare il demone da lei stessa evocato.
L’ultimo racconto è quello più azzeccato dell’intera raccolta, forse perché molto meno ultraterreno e più pratico, forse più sentito sia nei temi che nella caratterizzazione dei personaggi. “Susan Dixon” parla di una ragazza forte e matura che, morta la madre, si trova a ritenersi responsabile per l’incolumità del fratellino, più gracile e sensibile della media. La vita sembra comunque arriderle grazie al fidanzamento con il vicino di casa Michael, ma una malattia le uccide il padre, la inchioda al letto per mesi e rende suo fratello un povero pazzo. Il suo senso della responsabilità viene a scontrarsi con l’opportunismo di Michael e Susan sacrifica amore e giovinezza per badare al fratello disabile e portare avanti da sola la fattoria, finché la vita non la metterà di nuovo di fronte al suo passato, in una drammatica resa dei conti.
Consigliato soprattutto al pubblico femminile, un libro delicato e malinconico.