domenica 28 ottobre 2012

La pietra del Vecchio Pescatore

L’autrice irlandese Pat O’Shea ha impiegato dieci anni a stendere la versione definitiva del suo romanzo “La Pietra del Vecchio Pescatore”, pubblicata in Italia dalla TEA. Dieci anni trascorsi non solo a dare forma e sostanza alla storia che aveva intenzione di scrivere, ma anche ad immergersi profondamente nelle tradizioni della sua terra natia, nelle sue leggende e nel suo eroico passato, ricco di nomi, fatti, magie.
La O’Shea ha strutturato il romanzo non tanto come un fantasy quanto come una fiaba, un percorso iniziatico di due giovani protagonisti attraverso una serie di eventi e prove che metteranno a dura prova il loro coraggio e la loro innocente volontà di fare del bene, immergendoli al contempo in un passato di cui sono a conoscenza solo vagamente, attraverso gli accenni alle gloriose origini dell’Irlanda ascoltati a scuola o in famiglia.
Il linguaggio utilizzato, perciò, risulta semplice, a volte quasi ingenuo, infantile. La cosa si sposa alla perfezione con l’atmosfera incantata. La gente comune parla spesso un gergo sgrammaticato, inframmezzato da termini dialettali e abbreviazioni colloquiali, mentre i personaggi di maggiore autorità si riconoscono dalla parlata precisa, corretta, a volte perfino aulica.
La stessa autrice si sposta spesso dalla tradizione irlandese antica a quella mediata dal cattolicesimo insulare, cosa che spesso relega in forma di “fata” o “strega” personaggi che alle origini possedevano tutt’altra valenza, spesso drammatica o spiritualmente molto profonda. La cosa potrebbe far arricciare il naso a chi si interessa della cultura celtica, ma occorre ricordare che si tratta di una fiaba, non di un testo antropologico o di analisi mitologica.
La traduzione non è sempre felicissima. Sono state fatte scelte dialettiche piuttosto opinabili, che di quando in quando fanno scivolare la colloquialità quotidiana verso un accento becero, più che ingenuo e popolare, ma queste sono finezze che possono passare inosservate al lettore medio.
Il testo, inoltre, di quando in quando è arricchito da piccole illustrazioni che aggiungono un tocco di ulteriore fanciullezza e levità al racconto.
Ecco, in breve, la trama.
Pidge, un tranquillo ragazzino, viene in possesso di un antico libro che contiene un foglio misterioso, su cui è disegnato un serpente. Esso è Olc Glas, un antico essere venefico che era stato sigillato nientemeno che da S.Patrizio. Ora il sigillo è rotto e due strambe donne, motocicliste senza criterio seguite da un codazzo di segugi, vogliono impossessarsene.
Il giovane Pidge viene guidato nelle sue azioni da una voce misteriosa e benigna, appartenente all’antico dio Dagda, e da alcuni bizzarri personaggi. Insieme alla sorellina Brigit, una piccola sfrontata e coraggiosa, egli riesce a consegnare Olc Glas alla custodia della Grande Anaconda.
Il pericolo, però, è tutt’altro che scongiurato. Le donne, infatti, si riuniscono alla loro terza sorella e mostrano la loro vera natura: esse sono Macha, Bodhb e la Morrigan, la triade divina che governava la morte, il sangue sparso in battaglia, la distruzione. Questa donna, una e trina, è il tremendo nemico contro cui i bambini si trovano impegnati.
La loro purezza e bontà li porterà a partire per un viaggio magico in un’Irlanda parallela, nel Tir-na-Nog, alla ricerca di un mitico sasso su cui riposa una goccia del sangue della Morrigan, unica arma contro di lei. Aiutati da antiche divinità, eroi sotto mentite spoglie, animali parlanti, omini segnavento e teste che spuntano dal terreno, Pidge e Brigit dovranno dare fondo al loro coraggio per salvare il mondo e i loro cari da un’era di terrore.
La lettura è dolce come un pasticcino, godibile da un bambino come da un adulto, visto che contiene – come nella migliore tradizione delle fiabe – più di un livello di comprensione. La prosa è ricca di immagini vivide, che sembrano luminosi dipinti di luoghi, genti, creature.
La porta sull’Irlanda creata dalla O’Shea è spalancata e il lettore può entrarvi e immergervisi per tutto il tempo necessario ad arrivare all’amata e odiata parola “fine”.

giovedì 18 ottobre 2012

La magia nel Medioevo

La Editori Laterza presenta in un bel formato in carta lucida il saggio “La magia nel Medioevo” di Richard Kieckhefer, docente di Storia del Cristianesimo ed esperto di mistica e teologia.
L’autore analizza non solo l’impatto della magia nella società medievale, ma anche l’effettivo fenomeno sociale della figura del mago o negromante sia sul piano reale e storico che su quello immaginario e letterario.
Per prima cosa, come è giusto, Kieckhefer cerca di dare definizione alle varie branche della magia; uno scrupolo che può sembrare ozioso a chi non si è mai interessato alla materia o non è a conoscenza delle accese diatribe in merito che hanno riscaldato gli animi di grandi pensatori sia laici che religiosi per tutto il Medioevo, ma che in realtà cela la chiave per comprendere come si sia giunti alle persecuzioni inquisitorie dei secoli più bui (paradossalmente alla fine di quello che chiamiamo Medioevo, e non ai suoi inizi).
Al principio della nostra analisi, ciò che oggi chiamiamo magia non esisteva in quanto tale. “Magia” era l’arte di dubbia fama di personaggi provenienti dall’Oriente, chiamati appunto magi. Essi erano sempre visti con una certa diffidenza, in quanto non si riusciva a capire quanto del loro potere fosse reale e quanto derivante da trucchi che oggi assoceremmo più a un prestigiatore che alla figura del mago vera e propria.
Il coacervo di superstizioni, riti propiziatori e divinazioni che poi entrerà a far parte del patrimonio culturale del panorama magico, ai primordi del Medioevo era una cosa perfettamente normale. Si trattava di tradizioni dell’antica religione politeista, sradicata e denigrata dal Cristianesimo, che stava prendendo possesso dei territori dell’Impero.
Per farsi largo, essa dovette far dimenticare (e quindi proibire) tutta una serie di piccoli riti domestici e non che facevano ancora affidamento sulle forze della natura, sugli spiriti, tacciando chi ne faceva uso di idolatria e comminando punizioni esemplari. Un altro sistema, usato soprattutto nel nord Europa, era quello di sostituire a festività, divinità e riti pagani una versione cristianizzata degli stessi, per intervenire in maniera meno traumatica ma ugualmente invasiva.
L’affermarsi del Cristianesimo come unica religione, però, non riuscì a distruggere completamente l’abitudine di usare la magia “naturale”, di solito composta da innocenti riti con erbe o oggetti di uso quotidiano, magari benedetti da formule che erano non molto differenti da normalissime preghiere. La magia, a differenza della religione, mira a modificare i fatti invece di affidarsi alla volontà divina, ma i piccoli incantesimi di questo tipo erano una commistione dei due elementi, usata da gente per lo più in buona fede, che voleva solo un favore da Dio e sperava di ottenerlo dicendo le cose giuste e procurandosi gli aiuti naturali necessari.
Di tutt’altro genere era la magia negromantica, il cui scopo era evocare le forze spiritiche (demoniache, per lo più) per ottenerne i favori. Questo era un genere di magia colta, probabilmente nata e sviluppatasi all’interno dello stesso ambiente clericale, in quanto prevedeva conoscenze linguistiche, teologiche e tecniche che una normale persona del volgo non poteva possedere (ma furono tra la gente comune, paradossalmente, quasi tutte le vittime delle inquisizioni che seguirono al proliferare di questa magia “nera”). La negromanzia usava e pervertiva preghiere e riti cristiani per renderli magici e adatti all’invocazione di forze tenebrose.
Altro discorso si poteva fare per l’astrologia, divinazione del futuro tramite il moto dei pianeti, e l’alchimia, ricerca della Materia Fondamentale e dell’immortalità. Entrambe le branche magiche sono progenitrici delle moderne scienze, per cui dobbiamo molto alla ricerca degli appassionati, anche se tra loro vi erano ciarlatani, visionari. La Chiesa tentò sempre di soffocare entrambe, ritenendole sacrileghe, in quanto andavano a indagare in ciò che concerneva solo Dio. Anche l’uso delle erbe guaritrici, l’arte di costruire automi o di congegnare trucchi che ingannassero gli occhi, venivano considerate magia. Non si faceva una grande distinzione e quando scoppiò la fobia nelle streghe le differenze tra magia naturale, divinazione e magia nera scomparvero del tutto.
Dalla controversa magia “reale” nacque poi quella letteraria, di cui i romanzi cortesi sono pieni. Più poetica e favolosa di quella che incuteva timore nella vita di tutti i giorni, la magia cortese rimane la “versione dei fatti” che condiziona la nostra visione della stessa ancora oggi.
Scritto con un linguaggio semplice, alla portata di tutti, e corredato da illustrazioni, “La magia nel Medioevo” è un magnifico volume di cui consiglio caldamente la lettura.

mercoledì 10 ottobre 2012

La incantatrice

Colin e Bea sono gemelli, due bambini molto diversi tra loro nati nella Svizzera calvinista del diciottesimo secolo. Colin è un giovane timido, accondiscendente e tranquillo, con una passione per gli automi e la scienza ereditata dal padre e un difetto al piede che lo costringe a zoppicare. Bea, invece, è una creatura passionale e definitiva, primordiale, che ha ereditato il potere materno di vedere il futuro e di leggere nelle anime altrui, vicina com’è al mondo dello spirito.
La madre dei bimbi, infatti, è una discendente delle antiche sacerdotesse della religione celtica e ancora adesso ne porta avanti le tradizioni, pur se di nascosto. Purtroppo, il fanatismo religioso la trasforma nell’obiettivo dell’odio. Accusata di stregoneria, viene bruciata viva nella sua casa insieme al marito. Si salvano solo i gemelli e il loro fratellastro, Valentin.
Questo fatto traumatico sconvolge la vita dei bambini, che dovranno imparare a cavarsela da soli in un mondo che, se è pieno di meraviglie, è anche maledettamente costellato di pericoli. Comincia così il loro difficile viaggio verso l’età adulta, un viaggio dell’anima tanto quanto del corpo. Colin e Bea lasciano presto la Svizzera per recarsi addirittura in Cina, ove l’arte degli automi occidentali è particolarmente amata, e quindi nel regno dei Thai.
I gemelli, separati sempre più dalla loro diversa visione della vita e da una passione inespressa e proibita, dovranno imparare a convivere con culture e religioni differenti, imparando da esse quanto più possibile e allargando sempre più mente e orizzonti, cercando il loro destino in mezzo ai grandi fatti della Storia.
La prosa di Han Suyin è fresca, delicata, al contempo intrisa di una passione profonda, radicata e indomabile. L’autrice riesce a intrecciare fra loro con abilità tematiche complesse e all’apparenza senza alcun collegamento l’una con l’altra, a dare sfoggio di cultura senza che questa diventi un peso per il lettore, trasformando quelle che a ben vedere sono lezioni di storia in brevi parentesi di comprensione mutuate attraverso gli occhi dei protagonisti, sempre assetati di nuove conoscenze.
La mancanza di forzature nel romanzo è encomiabile, perché è evidente che “La incantatrice” è stato scritto partendo da uno schema iniziale ben preciso. Dovendo affrontare tante tematiche complesse, l’autrice deve aver passato parecchio tempo a farsi una cultura in merito e questo avrebbe potuto rendere meccanico il lavoro finale. Sarebbe stato fin troppo facile grippare in qualche passaggio, far storcere il naso al lettore nel sentore di qualcosa di mancante, di un ingranaggio non perfetto.
Come Colin con le sue macchine, invece, Han Suyin fa il suo piccolo miracolo e confeziona una storia coerente e avventurosa, piena di cultura e al contempo appassionante.
Ogni cosa viene descritta con minuziosa cura ma senza sbrodolare. Le meraviglie esotiche, l’apparente calma dei cantoni svizzeri, gli usi e i costumi dei popoli ci vengono mostrati attraverso gli occhi dei gemelli con tale maestria che il romanzo sembra un susseguirsi di immagini vivide, sfavillanti di colori e di vita, tangibili.
Si passa dalla pulita e ordinata Svizzera, con le sue montagne, i laghi cristallini e le dimore nobiliari, all’avventura sugli oceani al fianco del principe musulmano Abdul Reza. Gli anni in Cina vengono descritti con dovizia storica e una prosa sognante, onirica, spezzata bruscamente dalla scia di sangue che segue all’improvviso scontento dell’Imperatore e che costringe i gemelli alla fuga nel grandioso e decadente impero Thai, una profusione di colori e vita che sta per spirare nel fuoco della guerra.
Opposti, i due gemelli si combattono e si cercano, desiderosi di tornare un tutt’uno ben sapendo che questo è proibito, impossibile. Il loro legame indurrebbe a credere che prima o poi entrambi capiscano che la loro forza raddoppierebbe nell’accogliere la visione del mondo dell’altro e unirla alla propria, ma questa fusione non regge, si scompone e ognuno si perde nel proprio cosmo, nella propria visione dell’esistenza, per riunirsi solo quando il caos distrugge il sogno di entrambi.
Nelle sembianze di Colin e Bea si consuma la lotta tra il passato magico, spiritico e il futuro meccanicistico e fisico. Ci accostiamo a due modi di vedere e assaporare il mondo, due strade differenti che non necessariamente devono vivere l’una contro l’altra ma che, tristemente, finiscono per essere entrambe sconfitte, dalla follia o dalla rassegnazione.

lunedì 1 ottobre 2012

Favole, miti e leggende dell'Antico Egitto

Chi crede che la fiaba sia un genere adatto esclusivamente all’infanzia, prende un colossale granchio. La favola, infatti, non è tanto un semplice intrattenimento narrativo quanto un sistema di immediato impatto per offrire insegnamenti morali, sociali e religiosi.
La favola nasce insieme al mito, fa parte della tradizione orale che ha preceduto l’epoca della parola scritta e possiede una profondità di significato che sarebbe sciocco sottovalutare.
Ogni civiltà, ogni epoca ha le sue fiabe. Purtroppo, gran parte di esse non ci è stata tramandata in quanto facente parte, appunto, di un patrimonio orale che non sempre ha trovato un volenteroso che si sia dedicato ad una loro stesura scritta per i posteri. La tradizione di molte culture antiche per noi è andata irrimediabilmente perduta, ma se ne incontrano tracce in fiabe e miti di luoghi ed epoche più vicini a noi, come il Medioevo europeo, nascoste in maniera intelligibile solo all’erudito attraverso la trasformazione di figure e tematiche comuni a gran parte del genere umano.
La curatrice dell’antologia “Favole, miti e leggende dell’Antico Egitto”, Emma Brunner-Traut, si è data lo scopo di recuperare storie nate durante il magico periodo di splendore dell’Egitto dei faraoni, nonché i frammenti di quelle andate perdute.
L’antologia si divide in capitoli tematici. Si comincia con le fiabe vere e proprie, tra cui spiccano quelle relative agli animali. Essi venivano umanizzati e fatti interagire tra loro in un’imitazione della società umana, spesso deridendola e al contempo dando spiegazioni a comportamenti, simpatie e antipatie nel mondo animale. Questo genere ci è familiare grazie soprattutto alle fiabe di Esopo, con tutta evidenza ispirate a tradizioni più antiche.
Si passa poi ai racconti mitici, che narrano le grandi gesta e diatribe degli Dei, con particolare attenzione al mito fondamentale riguardante l’Oltretomba: quello di Osiride, Iside e Seth, che uccise e smembrò il fratello, il quale risorse dopo varie vicissitudini come re del Mondo dei Morti. Vi sono anche testi sulla lotta tra Seth e Horus (figlio di Iside e Osiride), una metafora della lotta tra la Forza bruta e l’Intelletto.
Seguono altre favole sugli animali, con evidente scopo educativo sui comportamenti giusti o errati, e quindi alcuni divertenti racconti farseschi, che prendono in giro con arguzia la società, alcuni personaggi famosi, modi di fare dell’epoca.
Si passa quindi ai racconti magici e meravigliosi, vale a dire a storie molto più articolate delle precedenti che spesso si basano su persone realmente vissute, entrate nella leggenda per la loro sapienza o per gli eventi straordinari accaduti durante la loro vita. Queste storie sono dei piccoli romanzi, molto ricche di dettagli e profonde anche nella caratterizzazione psicologica dei personaggi.
Si finisce con brani della tradizione cristiana-copta, dal sapore inconfondibilmente egiziano per il riutilizzo di tematiche e formule care alla tradizione, più o meno abilmente adattate alla nuova religione “di successo”.
L’antologia è corredata da una spiegazione ampia ed esauriente di ogni brano o frammento; esse sono raccolte alla fine del libro, in maniera da dare coordinate più precise al lettore sulla fonte del testo, sulla sua antichità e sui suoi significati più profondi. Alle spiegazioni sono affiancate le note, che così non vanno a disturbare la lettura né si affollano indebitamente a fondo pagina.
Il tutto è corredato da illustrazioni tratte da opere d’arte scultoree o su parete dell’Antico Egitto, prove grafiche della tradizione favolistica del regno dei Faraoni.
Oltre alla valenza storica della raccolta, si rimane stupefatti dal piacere che la lettura di queste storie può offrire, anche a distanza di millenni. Il linguaggio, pur adattato dai traduttori, si rivela in tutta la sua spigliata vitalità, freschezza, irriverenza e ironia, una modernità di approccio al racconto che sbalordisce nel rapportarsi a una cultura tanto antica.
Una raccolta stupenda, di interesse per lo studioso e divertente per il lettore medio. Un acquisto consigliato, un ennesimo centro perfetto della Newton Compton.