giovedì 26 dicembre 2013

L'oscurità degli angeli

Bianca Garavelli, stimata esperta dell’opera di Dante Alighieri, è anche scrittrice di romanzi e racconti. La sua passione per la letteratura non le concede di essere semplice spettatrice e critica della produzione altrui, ma la spinge a cimentarsi nella narrazione, offrendo al lettore un sorprendente spaccato su un universo immaginifico multiforme, a volte anche selvaggio e brutale, figlio di molteplici influenze e di una sensibilità particolare.
La prima cosa che salta agli occhi è il debole della Garavelli per il fantastico, per la deviazione dalla norma. Con un gusto forse più maschile che femminile, l’autrice immerge i suoi personaggi in realtà che convivono con il mistero – quando va bene – se non con il puro orrore, il paranormale. Nelle sue opere, il confine tra la realtà materiale e piani d’esistenza più elusivi, incorporei, di rado manca. Il contatto a volte è delicato, pieno di una speranza quasi fanciullesca, innocente come il prodotto della fantasia di un bambino. La commistione provoca gioia, la capacità di guardare al futuro sotto una nuova luce.
Più spesso, l’inserirsi di questo mondo “altro” è violento e porta sofferenza, esperienze traumatiche, a volte anche la morte. Le forze che si aggirano ai limiti della nostra capacità di percezione possono essere troppo dirompenti e selvagge per essere controllate e spingono alla follia.
Se questa è la parte “maschile” della prosa di Bianca Garavelli, elementi di Terra e di Fuoco che si manifestano nella sua scrittura, non meno evidente e dotata di una sua peculiarità è la sua parte “femminile”, come a voler chiudere il cerchio degli Elementi.
Pur nei temi a volte forti, l’autrice conserva una dolcezza di donna che trova espressione nel trattare dei rapporti interpersonali, in temi più vicini al mondo dei bambini. Il suo approccio alle esperienze infantili, ai sentimenti di lutto o di malinconia da rielaborare (come in “Le rose di dicembre” o “La bambina che amava i rondoni”), viene messo in atto con rispetto e profondità di sentimenti, una partecipazione emozionale che commuove senza scadere nel melenso, perché sincero e non ricercato ad arte. Si evince, poi, una sorta di timidezza della Garavelli quando si parla dei rapporti uomo/donna, come se l’autrice trovasse in questo difficoltà di espressione non presenti in altri casi. Si avverte un leggero ritrarsi, come un non volersi scoprire. In questi momenti, evidenti soprattutto nel lungo racconto “L’amico di Arianna”, la prosa diventa più ermetica, meno spontanea, come se l’amore fosse qualcosa di troppo elusivo e complesso per essere adeguatamente espresso a parole.
La raccolta di racconti che vi vado a presentare, “L’oscurità degli angeli” edito da Giuliano Ladolfi Editore”, si muove lungo il fil rouge del mistero che si insinua nella vita di tutti i giorni.
“L’amico di Arianna” è una storia d’amore tormentata, un viaggio nella follia che si spinge al di là del possibile, creando un ponte straordinario tra essere umano e animale. Tutto ruota attorno alla figura del lupo e ai suoi istinti di feroce cacciatore, che trovano una risonanza nell’anima di una ragazza appena affacciatasi alle gioie della vita. “Qui tollis peccata mundi” è un racconto più breve, decisamente arcano, che ruota attorno a un’altra figura animale: il gatto. Una piccola storia disturbante, sfaccettata.
“Le rose di Dicembre” narra di un miracolo natalizio per un bambino che ha in cuore un desiderio impossibile. “Amnesia” è una bravissima parentesi di tempo dilatato, distorto, privo di connotazione. Un momento di totale scomparsa di ogni ricordo, che si scioglie in dolore al tornare della memoria. “L’olivo della strega” riunisce elementi magici con il tema del ritorno alle proprie radici, alle tradizioni di famiglia. La ricerca del sé del passato, dei momenti in cui ancora il futuro non aveva preso una precisa direzione, accomuna i successivi due racconti: “Treni”, la visione di un bivio fondamentale; “Gli anni”, la ricerca di un ricordo, lacerati tra la paura e la speranza di trovare tutto come un tempo.
Chiudono la raccolta “La bambina che amava i rondoni”, una vera e propria fiaba sul finire dell’estate, ambientata nella sua Vigevano, e “E sua nazion sarà tra feltro e feltro”, omaggio a Dante e alla sua Commedia.

venerdì 20 dicembre 2013

Storia della Bellezza

In un volume che è al contempo libro d’arte, compendio di citazioni letterarie, poetiche e filosofiche e saggio d’analisi di un concetto che definire sfuggente è poco, Umberto Eco tenta l’opera ardita di offrire al lettore, artista o meno che sia, una Storia della Bellezza.
Il concetto di “cosa è Bello” ha attraversato le epoche in una continua mutazione, seguendo i cambiamenti sociali e di pensiero. Il concetto di Bello, perciò, è lungi dall’essere immutabile e riassumibile in una sequenza di norme oggettivamente stabili. Bellezza è soggettività, per quanto molte correnti abbiano cercato di renderla asservita alle leggi della razionalità.
Ad aggiungere complicazione alla faccenda, il concetto del Bello in una determinata epoca è sempre stato lontano da una caratterizzazione univoca, come spesso ci viene insegnato a scuola. Le diverse arti e il pensiero filosofico hanno di sovente seguito strade e standard differenti pur nello stesso contesto sociale e storico, creando un mosaico non regolare di concetti e gusto tra cui è difficile districarsi.
Il volume “Storia della Bellezza”, edito da Bompiani, parte con il curare proprio l’estetica del prodotto editoriale. Un bel formato quadrato per un mattone di oltre quattrocento pagine in carta lucida, con immagini di alta qualità a colori per un prezzo accessibile. Un’ottima scelta, vista la considerevole mole di foto di opere d’arte che costella il saggio di Eco.
Il testo è diviso in capitoli che riassumono un periodo storico o una specifica corrente di pensiero, dall’antichità dell’epoca classica alla società dei mass-media del giorno d’oggi. Il linguaggio non è semplice, né i temi trattati sono alla portata di tutti, ma una lettura paziente e le numerosissime citazioni dalle fonti sono sufficienti a superare l’apparente ostacolo.
Quasi ogni autore o testo citato da Eco, infatti, trova il suo spazio in uno specchietto a fondo pagina, quando non cattura completamente la scena occupando più pagine di seguito. Questo consente di seguire con maggiore consapevolezza l’evolversi del discorso e offre spunti di approfondimento di grande interesse. Sono citati testi storici, scritti di importanti filosofi, ma anche brani di poeti e romanzieri che hanno affrontato i temi cardini dell’estetica del proprio tempo.
La cosa che salta all’occhio è che il genere umano si è quasi sempre barcamenato attraverso tre estremi, nel proprio gusto verso il Bello: la proporzione (razionalità pura), il movimento (l’imperfezione che crea attenzione e stimola la mente dell’osservatore), la decadenza (il fascino dell’orrido, della trasgressione, della morte).
Attraverso il lungo viaggio di Umberto Eco, queste tre facce si ripresentano più volte, non sempre pure e incontaminate, ma ciclicamente tese a imporsi sulla “visione” degli artisti e dei committenti. Un picco estremo in una di queste direzioni tende, dopo un certo periodo di tempo, a far vertere l’ago della bilancia su un altro estremo, come se avvenisse una sorta di “rivolta silenziosa” nei confronti di ciò che si sta imponendo come dogma.
Le cose si complicano con l’approssimarsi degli ultimi due capitoli, dedicati alla contemporaneità. Entrare nel XX secolo, e quindi nella società del consumismo e dei mass-media, disintegra ogni certezza su cosa sia Bello, in un mosaico apparentemente insensato di stili, idee, concetti e apparenze. La modernità ha sdoganato ogni possibile versione della Bellezza, facendo coesistere concetti anche diametralmente opposti, in una totale libertà di scelta e adesione a canoni dalla durata incerta (brevissima come illimitata).
Il “finale” del saggio vuole essere comunque costruttivo, ma alla sottoscritta lascia un po’ l’amaro in bocca. Quando tutto è Bello, niente è Bello. Quale sarà la nostra prossima strada?

Faccio presente che questo volume ha un gemello, “Storia della Bruttezza”. Da mettere subito in lista acquisti!

giovedì 12 dicembre 2013

La cattedrale del mare

Eccoci di nuovo a parlare di un romanzo a sfondo storico, anche se nel caso specifico manca il connotato misterico o cospiratorio che tanto va di moda di questi tempi e su cui ho già detto la mia in altri casi. Attenendosi alla Storia come unica protagonista, sulla scorta di romanzi ormai datati ma sempre eccezionali e sinceri come “I pilastri della terra” di Ken Follett, e portando avanti l’obiettivo (non dichiarato ma palese) di raccontare il passato della propria terra attraverso le voce dei suoi personaggi, Ildefonso Falcones scrive il suo primo successo, “La cattedrale del mare”, edito in Italia da Longanesi.
Il romanzo gravita attorno al protagonista, Arnau Estanyol, la cui vita è legata a doppio filo alla costruzione della chiesa di Santa Maria del Mar e attraverso le cui vicende si viene a conoscere la situazione di Barcellona in particolare, ma in fondo della Catalogna tutta, nel XIV secolo.
Arnau è figlio di un servo della gleba, la cui moglie è stata stuprata e usata come serva dal signorotto locale. Il padre salva il neonato da morte certa e fugge con lui a Barcellona. Se riusciranno a vivere in città un anno e un giorno senza farsi catturare, saranno dichiarati cittadini e uomini liberi. Grazie ai tanti sacrifici del padre, che si mette a lavorare per il parente Grau Puig, Arnau riesce a crescere e a diventare un bambino sano e volenteroso, anche se la vita è aspra e dura, piena di umiliazioni.
Presto Arnau dovrà affrontare il crudele mondo degli adulti, adotterà come fratello minore un bambino sfortunato quanto lui e vedrà morire il padre in uno dei tumulti cittadini. Comincerà allora la sua faticosa strada da uomo, prima come bastaix (scaricatore di porto e portatore di pietre per la chiesa), poi come soldato e quindi come ricco e influente uomo cittadino. Conoscerà le donne fondamentali della sua vita, alcune per la gioia, altre per ostacolare il suo cammino. La rovina, però, è sempre dietro l’angolo e Arnau è destinato ad affrontare più prove di quante possa immaginare.
Ne “La cattedrale del mare” viene dipinta una Barcellona d’altri tempi, che si può respirare sotto la superficie della città odierna e il cui carattere orgoglioso e conscio dei propri privilegi si evidenzia nelle battaglie combattute con il governo centrale per ottenere di nuovo una sorta di indipendenza. La città prende vita nelle pagine del romanzo, contendendo il ruolo di protagonista ad Arnau Estanyol da una parte, e al tempio in costruzione, quella Santa Maria del Mar che si erge pian piano negli anni della narrazione, tempio alla Madonna e chiesa del popolo semplice, di quei lavoratori legati al mare per la loro sopravvivenza.
La straordinaria accoglienza data a questo scrittore deriva probabilmente dalla schiettezza con cui lascia trasparire da ogni riga il suo intento didattico, più che narrativo, sempre con uno stile semplice, di dialogo con il lettore più che accademico e pedante. Le informazioni vengono elargite ad ampie mani ma non risultano mai noiose, né ridondanti.
Questo è al contempo il suo pregio e il suo difetto. Per quanto Falcones crei dei personaggi dotati di una vita propria e li renda capaci di suscitare affezione ed emozioni nel lettore, non si può fare a meno di notare come in parecchi punti la psicologia e le azioni degli stessi prendano una piega più o meno forzata, quando l’autore decide di introdurre un argomento specifico nella narrazione. Tornano, così, personaggi magari perduti molto tempo prima, che prendono a comportarsi in maniera differente da come li si era conosciuti, ora al servizio di una svolta narrativa pensata a tavolino.
Questo rende un po’ meccanico il progredire della vicenda, lasciando la sensazione che l’autore ogni tanto giochi al massacro col povero Arnau; nei momenti in cui le disgrazie al protagonista si affastellano senza requie, solo per poter indagare fino in fondo le conseguenze di una norma dell’epoca o per introdurre un evento che ha segnato la storia di Barcellona, in quanto lettrice ho provato una certa irritazione e il contatto con il romanzo si è sfilacciato.
In generale, comunque, un romanzo piacevole e molto più godibile di tanti dello stesso genere. Falcones è un autore da indagare più a fondo, che potrebbe arrivare a scrivere storie di grande peso letterario. Ho a disposizione anche i successivi “La mano di Fatima” e “La regina scalza”. Spero di potervi aggiornare rilevando quel miglioramento puramente narrativo che mi farebbe amare la sua scrittura.

lunedì 2 dicembre 2013

Grammatica della fantasia

Scrivere favole e filastrocche per bambini non è un lavoro semplice. Si tende a dimenticare che i bambini sono il pubblico in assoluto più esigente, che non si può accontentare con un prodotto poco efficace o nato da un impulso meccanico e svogliato. Uno dei grandi della letteratura per l’infanzia del nostro Paese è senza dubbio Gianni Rodari, maestro di scuola e scrittore che negli anni ’70 ha raccolto le sue esperienze e le sue riflessioni sull’argomento nel piccolo saggio “Grammatica della fantasia” (Edizioni Einaudi), sottotitolo “Introduzione all’arte di inventare storie”.
Rodari, in queste pagine, spazia attraverso diversi argomenti, non tutti strettamente collegati alla scrittura. Da una parte cerca di analizzare i meccanismi di creazione della fiaba, sia dal punto di vista strutturale (citando filologi di grande levatura come Vladimir Propp) che attraverso giochi di associazione e concatenazione di parole. Dall’altra prende in analisi le metodologie di interazione tra l’adulto e il bambino, sia nella figura del genitore che dal punto di vista dell’educatore. Essendo maestro, Rodari lascia ampio spazio alle sue proposte di modifica della routine scolastica.
Offre spunti per numerosi giochi con le parole che possono aiutare il bambino a crearsi una fiaba da sé oppure in gruppo, in classe. Svela qualche utile meccanismo per creare associazioni di parole in rima, in modo da comporre filastrocche, e spiega la magia degli indovinelli, come questi stimolino la capacità logica e l’inventiva del bambino e come formularne di nuovi.
Molto interessanti sono i meccanismi di partenza che danno origine alla fiaba. Si parte dal binomio fantastico di parole apparentemente non collegate tra loro, che messe a confronto possono dare origine a situazioni o personaggi originali. Viene poi consigliata la tecnica dell’estraniamento, che permette la rivalutazione di un oggetto o una situazione con un’ottica completamente nuova (Rodari fa l’esempio delle fiabe di Andersen, spesso incentrate su oggetti di uso comune resi senzienti). Un altro stratagemma sta nel sovra o sotto dimensionare cose e persone.
Un ulteriore sistema di creare storie per bambini può essere quello di “sbagliare” consapevolmente le favole già esistenti oppure creare dei seguiti o dei cross-over. La frase “cosa succederebbe se…” può aprire porte su migliaia di mondi nuovi.
Rodari consiglia anche di utilizzare le cose di casa in modo creativo e diverso, facendole diventare protagoniste o strumenti di avventure da costruire insieme ai propri figli. Si parla inoltre del delicato tema del tabù. Le “parole degli adulti”, le funzioni corporali, le situazioni imbarazzanti, sono evitate dal bambino a causa dell’educazione ricevuta e diventano terreni minati che possono creare disagio. Rodari invita a lasciare che i bambini esplorino i territori proibiti, mettendoli appunto in favola, in maniera da superare gli imbarazzi e le reticenze e dare a queste “zone oscure” un nuovo significato, estrapolandole da un contesto totalmente negativo.
Lasciano un po’ d’amaro in bocca alcune di queste considerazioni, sebbene debbano essere lette e valutate nell’ottica del periodo storico in cui Rodari è vissuto e nella visione liberale e sperimentale degli anni ’70. Lo scrittore politicizza in maniera decisa le sue idee, dichiarandosi apertamente di sinistra in più di un’occasione. Inoltre, propugna una libertà del bambino contro ogni regola preconcetta, incentiva l’uso di tutti gli oggetti di casa (compresi quelli fragili, fa niente se si rompono), delle parolacce in libertà (per potersene appropriare e quindi disfarsene una volta superato l’effetto tabù) e un superamento di interrogazioni, pagelle, valutazioni a scuola, sognando una libera forma d’apprendimento creativo.
Al lettore di oggi, che ha sotto gli occhi le nuove generazioni cresciute proprio con eccessiva libertà e pochissimo rispetto, questo genere di utopie possono far storcere un po’ il naso. La libertà senza spirito critico porta solo al caos.
Nonostante queste divergenze di vedute, un libro consigliatissimo a chi lavora con l’infanzia, ma anche al genitore creativo che desidera ravvivare in casa i momenti della fiaba e del gioco.

giovedì 21 novembre 2013

La mia Istanbul


I diari di viaggio sono un genere poco gettonato, in questo periodo, ma personalmente li ho sempre amati. Non solo ti portano in luoghi lontani; ti avvicinano all’anima di individui che non conosci. Ti permettono di accostarti alla loro esperienza personale, alle loro avventure come alle domande e ai pensieri che nascono durante esperienze vissute tanto lontano da casa. Da essi si può imparare qualcosa, o trovare spunti di riflessione anche importanti.
Il viaggio fatto da soli non funziona come fuga dal nostro quotidiano, dai problemi che ci assillano, ma offre la possibilità di valutarli e ragionarci sopra da un punto di vista più calmo, oggettivo. Un viaggio può aiutare a trovare soluzioni, a conoscersi meglio attraverso il nuovo che ci circonda, a dipanare quei nodi che le abitudini hanno intrecciato dentro di noi.
In “La mia Istanbul” di Francesca Pacini, edito con Edizioni Ponte Sisto, ho trovato il connubio desiderato di bella prosa ed esperienza di viaggio, verità dei fatti e cammino spirituale. La scrittrice non solo dipinge a tinte vivide una città che è diventata la sua meta d’elezione, una seconda casa che non cessa mai di affascinarla e arricchirla, ma ci permette di accostarci a temi che oggi sono di estrema attualità e che ci vengono proposti senza il filtro dei pregiudizi occidentali: la società moderata musulmana, il ruolo e le abitudini delle donne, la cultura islamica in generale.
Una prosa a tratti onirica, ogni capitolo è un dipinto realizzato usando le parole come colori. L’amore di Francesca Pacini per ciò che descrive e per il suo viaggio – dell’anima e del pensiero, oltre che del corpo - è palpabile in ogni frase e le restituisce quell’afflato di sincerità che il lettore non può che apprezzare, godendosi la proprietà di linguaggio e la sua musicalità non solo nel piacere della bella scrittura ma godendo dello sforzo – non artificioso – di rendere con le parole più adatte, gli accenti migliori, ciò che è stato veramente visto, respirato, gustato. Soprattutto, amato.
Istanbul, per sua natura, è un ponte tra Occidente e Oriente, un luogo liminare ove si uniscono due continenti, da una parte e dall’altra di un braccio di mare che ha visto accadere innumerevoli gesta degli uomini. Come tale, conserva in sé numerose contraddizioni e mostra al visitatore sia la sua parte musulmana tradizionale che quella più spregiudicata e godereccia dei quartieri del divertimento. Occorre capirne entrambi i volti per entrare nell’atmosfera di questa città magica, ricchissima di Storia e segnata da sanguinose battaglie.
Ogni parentesi di questa esperienza crea un momento di meditazione, dà forma a una domanda su cui sarebbe il caso di fermarsi a riflettere per il tempo necessario ad aprire la mente a diverse forme di pensiero, a culture differenti. L’odio e l’incapacità di accettare le altrui abitudini derivano soprattutto da una cecità radicata dalla convinzione che il proprio modo di vivere sia il solo a poter essere etichettato come “giusto”. La Pacini si avvicina alla realtà musulmana con la mente aperta, senza rinnegare le proprie tradizioni ma disponibile a cercare di comprendere quelle altrui.
Riveste per lei grande significato la possibilità di approcciare un nuovo modo di concepire e vivere la femminilità, senza intenti polemici ma in un’analisi personale di ciò che è diventato il corpo della donna nella cultura occidentale e la valenza che riveste invece nella cultura musulmana. Come sempre, ciò che non si ha possiede un fascino tentatore. Per le musulmane, il desiderio di una maggiore libertà di costume. Per la donna occidentale senza pregiudizi, un ritorno a quel minimo di pudicizia, di consapevolezza delle differenze oggettive tra uomo e donna e quel rispetto reciproco senza ostentazione del corpo che le lotte femministe hanno travisato e cancellato, andando oltre gli intenti iniziali e appiattendo, in qualche modo, la figura della donna.
La mistica sufi riveste un ruolo essenziale nell’attrarre costantemente la Pacini a Istanbul. Il fuoco interiore dei dervisci, la loro danza che unisce al trascendente e supera le leggi della materia, conserva per lei un’importanza fondamentale, conducendola – insieme ai riti dell’hammam – a percepire una dimensione spirituale più ampia, lontana dal tran-tran frenetico del mondo materiale.
Il contatto con le povere ma dignitose famiglie curde, con modi di vivere tradizionali e con donne tentate dall’Occidente, le interminabili camminate lungo le strade sempre imprevedibili di Istanbul, conducono Francesca Pacini – e noi con lei – in un viaggio di sogno, un’esperienza che disgrega e rinnova, in un tentativo riuscito di mettere in parole un’affinità elettiva.

giovedì 14 novembre 2013

Gli Impressionisti

La corrente artistica degli Impressionisti ha fatto da spartiacque, relegando all’antico il lungo percorso verso la “bella pittura” e la maniera accademica per inoltrarsi nel concetto di colore, percezione e interpretazione personale del concetto di rappresentazione, cosa che ha poi condotto alle avanguardie e all’arte contemporanea.
Questo nuovo modo di concepire la pittura fu figlio non solo del genio di un gruppo di artisti dall’animo ribelle e senza alcuna paura di sperimentare, ma anche dei tempi. La Francia della metà dell’Ottocento era pervasa dalla voglia di cambiamento, di lasciarsi alle spalle il passato, la burocrazia, le pastoie sociali. Era una Francia che voleva divertirsi, lasciarsi andare, inoltrarsi nella modernità e nelle nuove scoperte tecnologiche. L’Accademia, con i suoi esercizi di maniera privi di contenuti e di novità, divenne l'emblema di ciò che andava cambiato alla radice.
Questo, come ovvio, generò un netto rifiuto da parte delle istituzioni e costrinse gli artisti a imparare a “vendersi” da sé, organizzando in proprio le esposizioni, prendendo contatto con mercanti d’arte e collezionisti, allacciando relazioni con scrittori e giornalisti che potessero far loro una pubblicità positiva, avvicinandoli al grande pubblico, che – come ovvio – non capiva la loro pittura e la malgiudicava. Fu il primo passo verso un moderno mercato dell’arte, anche se gli sforzi degli Impressionisti non trovarono seguito se non dopo la loro morte, quando il panorama artistico aveva ormai imboccato una svolta epocale e i loro lavori vennero valutati per cifre altissime.
Il bel libro della Giunti che vi sto presentando offre, oltre ad un pregevole prodotto editoriale in carta lucida e moltissime immagini a colori, un riassunto ben congegnato di ciò che è stata questa corrente, di chi fossero gli artisti che ne facevano parte e quali fossero non solo le loro tecniche ma anche i loro obiettivi, raccolti poi dai successivi adepti della loro scuola. Le pagine a sinistra contengono il testo, ricco di dettagli, e piccole immagini di riferimento. Le pagine a destra sono dedicate alle stampe di grande formato e alle schede di approfondimento.
Si parte con una parentesi sui predecessori degli Impressionisti, coloro che hanno aperto la via per il cambiamento. Oltre ad un’analisi della Parigi di metà secolo, si parla quindi del Realismo, prima pietra di scandalo nell’ambiente artistico francese. La scuola di Barbizon da una parte, con la predicazione della pittura di paesaggio en plain air contrapposta al lavoro in studio insegnato in Accademia, e artisti come Courbet e Corot tanto attenti a rappresentare la realtà quotidiana senza filtri di buon gusto e maniera, influenzarono profondamente temi e modi dell’Impressionismo.
Vengono quindi raccontate le vicissitudini riguardanti le mostre impressioniste: come sono nate, chi vi ha partecipato, quali sono state le reazioni del pubblico e della critica. Vengono anche sviscerati i contrasti interni al movimento, che hanno modificato più volte l’organico di coloro che esposero sotto il nome di “impressionista”. Un capitolo a parte è dedicato ai luoghi di ritrovo di questi artisti, principalmente locali cittadini e studi privati, ove si faceva salotto e si accendevano discussioni sull’evoluzione dell’arte che coinvolgevano anche letterati e giornalisti.
Si analizzano poi i soggetti preferiti (paesaggi ma anche scorci della movimentata vita di città e del mondo del lavoro), le tecniche pittoriche utilizzate e l’avvento del mezzo fotografico, i personaggi altrettanto famosi che hanno gravitato attorno all’ambiente impressionista (vedi il poeta Baudelaire o il romanziere Zola). Si chiude con le brevi biografie dei principali artisti del gruppo, corredate da una galleria fotografica aggiuntiva, e di coloro che porteranno altra innovazione partendo dalle loro orme: i “puntinisti” Seurat e Signac, quel Gaugain che cercherà fuori dalla Francia la sua ispirazione, e Vincent Van Gogh, rivoluzionario e sfortunato artista.
Un bellissimo regalo per tutti gli amanti dell’arte.

mercoledì 6 novembre 2013

L'esperimento del dottor Ox

Jules Verne (1828 – 1905) fu uno scrittore francese che coniugò la fantasia alla scienza, creando romanzi e novelle che cementarono le fondamenta della moderna fantascienza e fecero (ancora fanno) sognare bambini e adulti. Suoi titoli intramontabili come “20.000 leghe sotto i mari”, “Dalla Terra alla Luna” e “Il giro del mondo in 80 giorni”. Il racconto che vi vado a presentare oggi mette in luce, oltre agli interessi per cui Verne è famoso, un’ironia tagliente ed esilarante che lo rende ancora più vicino alla cultura contemporanea.
“L’esperimento del Dottor Ox” racconta le vicissitudini di una cittadina delle Fiandre, Quiquendone, così tranquilla fin dai primordi della sua fondazione che spesso la gente si dimentica della sua esistenza, tanto che essa non compare nemmeno sulle carte geografiche.
La vita a Quiquendone è la quintessenza della vita fiamminga nelle esagerazioni caricaturali del resto del mondo: pacata, lenta, ponderata. Qualunque decisione viene procrastinata per anni, decenni, nel timore di affrettare troppo i tempi e prendere la decisione errata. I fidanzamenti durano anni e anni, senza quasi alcun rapporto tra gli innamorati, che così avranno tutto il tempo di abituarsi all’idea del matrimonio. Le chiacchierate si dipanano in lunghe ore fatte soprattutto di pause di riflessione. Ogni casa è esempio d’ordine, calma e silenzio.
In un tale contesto, è appena stata presa una decisione che porterà un po’ di modernità – ma solo un po’- in un luogo quasi fuori dal tempo. Il borgomastro Van Trikas e il consigliere Niklaus, infatti, hanno finalmente concordato che Quiquendone avrà l’illuminazione a gas per adeguarsi ai tempi.
Il lavoro di allacciamento di tutti gli edifici cittadini, impresa non da poco, è stato affidato a uno scienziato straniero, il dottor Ox, giunto da poco in città insieme al suo assistente. A quanto pare, il dotto scienziato conosce un sistema alternativo di illuminazione a gas che consentirà alla brava gente di Quiquendone di avere una splendida luce risparmiando in moneta sonante.
Ciò che gli sventurati cittadini non sanno, è che Ox non ha alcun interesse a fornire semplicemente la luce alla città dietro compenso. Il suo vero scopo è usare l’intera, flemmatica cittadinanza di Quiquendone come cavia per un importante esperimento scientifico. I collegamenti per il gas posizionati in tutti gli edifici, infatti, serviranno a saturare l’aria di ossigeno per valutarne gli effetti sulla flora e sulla fauna, ma soprattutto sulla psiche degli esseri umani.
Le prime avvisaglie che qualcosa di arcano si sia messo in movimento viene dalla crescita rigogliosa, perfino mostruosa di piante e frutti, che raggiungono dimensioni pazzesche per poi morire velocemente. Di seguito si riscontra un’irritabilità mai vista negli animali. Poi, finalmente, sono le persone a dare segni di squilibrio.
I calmi e letargici cittadini cominciano a discutere animatamente, ad accelerare i tempi, a dar vita a feste mai viste, a litigare. Ad un certo punto, infiammati gli animi, perfino a dar luogo a risse e a cercare un pretesto per dichiarare guerra alle città vicine! Quali saranno le conseguenze del pericoloso esperimento del dottor Ox?
Verne basa il racconto sul doppio volto della scienza, che non esita a diventare dannosa pur di raggiungere i propri scopi di conoscenza, trasformandosi in una piaga quando il suo scopo dovrebbe essere quello di servire l’umanità. Ox è lo scienziato disposto a sacrificare tutto e tutti pur di sperimentare le proprie teorie. I cittadini sono semplici cavie da laboratorio, ignare di quanto sta avvenendo.
Al contempo, lo scrittore dileggia queste placide vittime senza pietà, in una parodia del popolo bue che si fa guidare qua e là dal burattinaio senza nemmeno un sentore che qualcosa non vada, che gli eventi siano manipolati dall’alto. L’ironia francese verso i vicini fiamminghi qui viene portata all’eccesso, con una dichiarata intenzione grottesca. Al contempo vi si può leggere dell’ironia anche verso i concittadini di Verne, in quanto i fiamminghi dopati con l’ossigeno somigliano moltissimo ai francesi infiammati ad ogni buona occasione di protesta.
Un racconto divertente e dissacrante, godibilissimo nonostante l’abbondante secolo che ci separa, ancora pericolosamente attuale nei riguardi di quella scienza che fa dell’umanità la sua cavia da laboratorio.

venerdì 1 novembre 2013

Per interposta persona

Oggi parliamo di un autore che ho scoperto e recensito qualche tempo fa, sperando di avere l’opportunità di leggere ancora qualcosa di suo e notare i miglioramenti che le sue trovate narrative promettevano. Non sono stata delusa da questa seconda lettura di un’opera di Massimiliano Venturini, scrittore con la predisposizione al “giallo all’italiana”.
“Per interposta persona – Il ritorno del Passatore”, edito da Italic, narra le rocambolesche vicende di un giovane romagnolo che, a causa di una perfetta omonimia con il bandito ottocentesco Stefano Pelloni (citato anche da Pascoli in “Romagna”, che l’autore ha omaggiato all’inizio del libro), con il tempo finisce per credersi la sua reincarnazione e avvia una carriera di ladro scaltro e vendicativo, prendendosi con la forza quelle soddisfazioni che la vita gli ha negato.
A mettergli i bastoni fra le ruote, un uomo non meno intelligente di lui: l’ispettore Randello, convinto della colpevolezza di Pelloni fin dal principio della sua carriera di ladro, gli starà sempre addosso per approfittare della prima sbavatura nei suoi piani e sbatterlo in galera.
Questo nuovo Passatore, pur con le sue ingegnose parentesi criminali, conserva in realtà un’ingenuità che fa quasi tenerezza. Abituato a vivere in estrema povertà, cresciuto senza davvero conoscere gli affetti familiari, ha un rapporto sbagliato sia con il denaro che con il suo prossimo, gentil sesso in testa.
La maschera del Passatore gli offre inaspettatamente un modo per rapportarsi con il mondo da vincitore, invece che da vinto. Gli dà il coraggio di tentare bizzarre avventure amorose, lo spinge alla rivalsa verso coloro che ostentano il proprio denaro. Lo fa sentire potente, imprendibile, finalmente in grado di confrontarsi con il mondo da una posizione di superiorità. L’anonimato del lavoro al bar gli torna utile e si prende le sue soddisfazioni materiali con una certa parsimonia, tutto sommato.
La fame di sfide, però, lo porta a rischiare sempre di più e sempre più spesso, pur sapendo di avere un mastino alle calcagna (e in questo il ladro si eleva nel rispettare profondamente il proprio avversario “dalla parte della legge”). Forse c’è un inconscio desiderio di essere fermato, tanto da sbandierare il proprio soprannome agli ultimi rapinati, come lasciando un biglietto da visita ad uso e consumo dell’ispettore Randello. Una personalità vera e vivace, profondamente italiana.
Venturini trova nella scrittura in prima persona una forma narrativa che gli è congeniale e che valorizza la territorialità della parlata, pur senza volute insistenze sul gergo dialettale e con la premura di fornire spiegazioni dei termini locali quando utilizzati. Il tutto, però, inserito con eleganza nella narrazione stessa, senza note a piè di pagina.
Molti dei difetti presenti ne “Il ritorno degli Dei” qui scompaiono del tutto, palesando una maturazione dello scrittore e una pregevole attenzione dell’editore per il prodotto. A una trama valida e interessante, infatti, Venturini aggiunge una prosa senza difetti sintattici o refusi di stampa, permettendo finalmente una lettura scorrevole che consente al lettore di godersi senza ostacoli le trovate dell’autore e le vicissitudini di questo particolare protagonista.
Dalla prosa di Venturini emerge un amore tutto italiano per il cibo. Pur senza diventare parossistico, il piacere della buona tavola traspare dalle righe – mai mancanti – che descrivono i pasti dei personaggi, un soffermarsi che con poche parole sa risvegliare il senso del gusto e renderci partecipi di questa esaltazione per il gusto e la vista.
Altra trovata interessante, la sfilata di personaggi che frequentano il bar di Pelloni e che costituiscono uno sfaccettato spaccato di umanità nostrana. Dal professore di fisica al venditore di gioielli, dall’impiegato di banca al beghino affetto da cleptomania, dalla ragazza con mire di convivenza alla donna volgare e subdola che tenta ogni uomo che entra nel locale. Ognuno di loro ha qualcosa da dire, il proprio contributo da dare. Spesso il giovane criminale parla citando i propri clienti, che hanno sempre qualcosa da insegnarli, qualche perla di saggezza o sapienza con cui arricchire la propria cultura.
Una lettura davvero piacevole, una bella conferma del talento di Massimiliano Venturini.

lunedì 21 ottobre 2013

Il lavoro dell'attore su se stesso

Il metodo Stanislavskij: tutti coloro che si sono avvicinati al teatro anche solo a livello amatoriale ne hanno sentito parlare. Moltissimi attori e registi si vantano di utilizzarlo, ma gran parte delle volte si tratta di un fraintendimento di ciò che chiede tale metodo. Non si tratta, infatti, della semplice, totale immedesimazione nel personaggio, come molti credono. Il metodo è composto da molte fasi, gran parte delle quali razionali e costruite a tavolino, che si uniscono a una ricerca dell’immedesimazione nella parte. E’ un percorso difficile e anche rischioso per la psiche dell’attore, che deve esercitare un grande controllo su se stesso.
Konstantin Stanislavskij nacque 150 anni fa in Russia e fin dall’infanzia fu educato al mondo teatrale e musicale. Attore e regista, non soddisfatto del manierismo che imperava nel teatro del suo tempo, si applicò per creare un metodo di lavoro alternativo, che portasse a una recitazione più “naturale”. Non disinvolta, ma volta a ricreare la realtà, senza artifici o esagerazioni innaturali. Scrisse due tomi in cui riassunse il suo pensiero sul teatro tramite lezioni: “Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”. I suoi insegnamenti confluirono nel metodo Strasberg dell’Actor Studio, che però travisò non poco il pensiero di Stanislavskij. A oggi, sono ben pochi coloro che possono affermare di usare davvero questo metodo.
Lo scopo dei due tomi è offrire uno scorcio su quello che dovrebbe essere il training di un attore secondo Stanislavskij, un percorso fatto di compiti ben precisi, recupero e utilizzo delle emozioni, totale consapevolezza di quanto avviene una volta sul palco.
“Il lavoro dell’attore su se stesso” è una sequenza di lezioni viste attraverso il punto di vista di un allievo, nuovo iscritto alla scuola. Il regista Arkadij Nikolaevic Torcov (che poi è Stanislavskij stesso) cercherà attraverso esercizi ben mirati ed esperienze a volte complesse di mostrare alla classe cosa si richiede ad un attore e quali sono le trappole a cui prestare attenzione.
La prima cosa che Stanislavskij ricerca, infatti, è la verità dell’interpretazione. Vero sentimento, vera intenzione. Niente manierismi né cliché, che trasudano finzione e costituiscono solo un codice artefatto che con la recitazione c’entra poco o nulla. Un conto è acquisire il mestiere ed essere in grado di replicare la medesima performance più e più volte con la stessa partecipazione; un altro è recitare in maniera meccanica e vuota, pensando solo a portare a casa il risultato.
Nella prima sequenza di lezioni, il lavoro di Stanislavskij si basa soprattutto su questo: verità d’azione e di sentimento. I temi trattati sono molteplici e cercano di dare voce a tutti i campi di lavoro dell’attore su se stesso che secondo Stanislavskij sono fondamentali.
Viene mostrata, ad esempio, la differenza tra una recitazione inutilmente enfatica e senza scopo e la stessa scena recitata con un obiettivo ben preciso. Si dà grande importanza alla stimolazione dell’immaginazione. Per un attore è fondamentale andare oltre ciò che è scritto sul copione. Occorre essere in grado di immaginare un prima e un dopo, un contesto, saper visualizzare quanto circonda il proprio personaggio.
Parla poi di due temi estremamente importante: il compito e “il magico se”. L’attore, in scena, non deve aggirarsi senza scopo. Esistono compiti psicologici e compiti fisici che vanno definiti fin dall’inizio. Questo non solo rende molto più efficace la recitazione in scena, ma costituisce anche un aiuto non indifferente per la memoria. Utilizzando il “…e se…” come stimolo alla creazione e visualizzando con precisioni i propri compiti in scena, l’attore stimola al contempo creatività e un piano d’azione che gli consenta di mantenere sempre la concentrazione oltre una certa soglia.
Viene stimolata la memoria emotiva. Un attore deve essere in grado di riportare alla mente sensazioni, emozioni e sentimenti che possono essergli utili nella costruzione del personaggio. Non è necessario aver vissuto le stesse esperienze di colui che si interpreta: basta trovare una chiave personale che metta l’attore sulla sua stessa lunghezza d’onda. L’emozione rievocata può diventare un danno per l’attore, se lasciata libera di esprimersi senza razionalità. L’attore deve sempre avere il controllo sulle proprie emozioni, per impedire che queste si manifestino in modo tale da rovinare la sua performance. L’attore è veicolo dell’emozione, non serve a nessuno che ne sia sopraffatto. Questo è il più grande fraintendimento a cui il concetto di immedesimazione può portare.
Il secondo volume è una raccolta di appunti più o meno codificati lasciati da Stanislavskij in forma non definitiva e segnano un’ulteriore evoluzione del suo pensiero, che conferisce maggiore importanza ai compiti fisici quali catalizzatori dell’immedesimazione psicologica. Vengono prese in esame alcune messe in scena, a volte sotto forma di lezione ed altre come flusso libero di pensieri.
Due letture essenziali per chi si occupa di teatro.

lunedì 14 ottobre 2013

Joyland

Il primo, vero amore ha in sé un potere straordinario. Può riempirci di una gioia incontenibile, di sogni meravigliosi. E’ in grado di dare la forza di sopportare molti sacrifici pur di ottenere la felicità con la persona amata, ogni ostacolo può essere superato con la semplice tenacia. Allo stesso tempo, il primo amore può trasformarsi nel nostro peggior nemico. Se questo sentimento puro e potente viene improvvisamente svilito e il suo filo rosso viene tranciato dall’altra metà, ci si ritrova sperduti, feriti a morte, in balia di pensieri autodistruttivi.
Certe emozioni sono in grado di scuotere profondamente un adulto, figuriamoci un ragazzo alla sua prima, vera esperienza amorosa. Devin ha messo tutto se stesso in questo amore, solo per vedersi lasciare quasi con indifferenza. Ora, svuotato e sconvolto, privato di tutti i suoi progetti per il futuro, il ragazzo ha un gran bisogno di ritrovare la voglia di vivere e di sanare le proprie ferite. Cosa può esserci di meglio che andare a lavorare in un parco di divertimenti, dove il prodotto più venduto è proprio la felicità?
King ha una passione per i luna park. A parte la maschera di clown di It, incubo tra i più vividi creati dall’autore americano, ricordiamo emblematica anche la piccola giostra che fa da sfondo nel prologo de “Il talismano” o l’appuntamento del protagonista di “La zona morta” con la fidanzata, appena prima dell’incidente che cambierà la sua esistenza. Il parco di divertimenti è un luogo liminare, dove l’allegria e il gioco vivono in una dimensione a metà tra il sentimento spontaneo e il business. Chi vi lavora è al servizio della gente e al contempo si approfitta della credulità e delle mani bucate del visitatore.
Fidarsi o non fidarsi del magico mondo colorato che promette tanto divertimento? Questo ambiguo sentimento, già evidenziato da scrittori come Ray Bradbury (non a caso, a sua volta legato ai temi dell’infanzia e all’ambivalenza del mercato legato al divertimento e al gioco), conferisce all’ambientazione di questo romanzo un’aria decadente e di incerto equilibrio che ben si adatta con lo stato d’animo del giovane protagonista.
Devin viene a conoscere entrambi i volti di un luna park: sia la sua versione estiva, piena di gente, musica e di frenetico lavoro allo scopo di divertire, sia il volto invernale, fatto di silenzio spettrale, duro lavoro di manutenzione e attesa. Questo coincide con i due aspetti del suo sentimento, a ben guardare. Dapprima tutto sembra luminoso e gaio, benché pervaso da una sottile sensazione di forzatura; quando la maschera gioiosa cade, rimangono solo solitudine e desolazione.
Per quanto sia fondamentalmente una storia basata sull’amore adolescenziale e sulla crescita, King non si fa mancare quella nota paranormale che l’ha caratterizzato durante la sua produzione letteraria. Nel caso di Joyland, esso si manifesta nel mondo tangibile tramite tre canali.
Il primo è una chiromante di dubbia capacità, lavorante a Joyland, che però sarà in grado di mettere in guarda Devin da alcuni incontri e situazioni che condizioneranno il suo futuro. Il secondo è incarnato in un bambino, malato, residente con la giovane madre in una casa sulla spiaggia, lungo la via per Joyland. Il bambino è molto più adulto della sua età, consapevole della propria morte imminente e dotato della capacità di vedere nei pensieri altrui e di scorgere ciò che esiste su livelli diversi da quello terreno. Il suo coraggio e la sua amicizia saranno fondamentali per Devin.
Il terzo canale è quello che ha fatto sperare ai più che il racconto vertesse sull’horror: a Joyland c’è un fantasma. Non si tratta di una leggenda, c’è davvero! Una giovane donna, uccisa da un misterioso killer all’interno del Trenino dei Fantasmi, ancora intrappolata dopo la morte all’interno della giostra.
Queste incursioni nel paranormale, però, sono molto delicate, quasi un corollario alla storia di Devin. King dà molta più importanza ai suoi sentimenti, al legame con Joyland, con il bambino e alla presa di coscienza che è necessario andare avanti anche quando si crede di non avere più voglia di vivere. Un finale forse un po’ affrettato porta a svelare anche l’oscuro mistero che si cela dietro al parco di divertimenti che per un anno gli ha fatto da casa.
Un King ispirato, anche se il binario non è quello dell’horror. Un bel romanzo, dolce e avvolgente come un abbraccio.

lunedì 7 ottobre 2013

Asakusa Kid

Takeshi Kitano, nato nel 1947, è un personaggio caratterizzato da un eclettismo estremo. Attore, regista, pittore, poeta, nella sua vita non ha mai esitato a gettarsi in qualsiasi tipo di avventura che potesse arricchirlo artisticamente. Comico di successo, stupisce i propri fan diventando un attore cinematografico drammatico, per poi dedicarsi alla regia di numerosi film in grado di ottenere anche successo internazionale (vedi titoli come Zatoichi, L’estate di Kikujiro, Hana-Bi).
Un grave incidente in moto gli procura gravi problemi di salute (è costretto anche a ricorrere alla chirurgia plastica per il viso) ma la pausa forzata lo avvicina all’esperienza della pittura, che metterà a frutto.
Nel libro di cui stiamo per parlare, “Beat Takeshi” rievoca i primi tempi della sua carriera – o meglio, del suo apprendistato – raccontando come sia nata in lui la smania di diventare un attore e quali personaggi l’abbiano aiutato a diventare ciò che è oggi.
Il titolo di questo spaccato autobiografico è “Asakusa Kid” e in Italia è edito da Mondadori. La decisione di abbandonare tutto e di trovare un modo per salire sul palco attraversa la mente di Kitano durante gli anni dell’università. Anni buttati via, secondo la sua valutazione; anni passati a frequentare circoli di universitari che a parole promettono rivoluzioni culturali, genialità letterarie, e che invece non fanno che perdere tempo in divertimenti aspettando di terminare gli studi e prendere in mano le redini dell’attività di famiglia. Stanco dall’ambiente inconcludente e dalla sensazione di stare perdendo tempo, Kitano molla tutto e decide di dedicarsi al suo sogno, costi quel che costi.
Torna così ad Asakusa, un quartiere popolare che, durante la sua infanzia, era sinonimo di vestiti all’ultima moda, spettacoli, vitalità. Quando vi ritorna, Asakusa ormai è un quartiere provinciale e decadente, ancora pieno di locali per spettacoli ma ormai in forte declino. La sua prima missione è cercare un maestro, ma riceve solo rifiuti.
Per un colpo di fortuna, trova da lavorare al François, un locale di spogliarelli alternati a numeri comici diretti dal famoso Senzaburo Fukami. Pian piano, un po’ grazie all’insistenza e un po’ grazie a qualche colpo di fortuna, Kitano entra nelle grazie del Maestro, riesce a farsi insegnare i primi rudimenti e a fare il suo debutto sul palco, passando anche da mansioni di accoglienza e pulizia del teatro a quelle di direttore di sala. L’esperienza si rivela, oltre a una scuola di formazione artistica, un’occasione di scoperta di sfaccettati tipi umani.
Conosce il rutilante e decadente mondo delle spogliarelliste del locale, un gruppo di ragazze e donne non più giovanissime che in qualche modo lo adottano e si curano del fatto che riesca a mangiare a sufficienza. Conosce i loro compagni – papponi, per meglio dire – che fanno da agenti delle ballerine oppure vivono alle loro spalle come parassiti.
Impara a vivere di espedienti, a raggirare a sua volta il prossimo per racimolare un po’ di denaro con cui permettersi qualche vizio. L’ingenuo collega Inoue diventa suo amico e al contempo bersaglio dei suoi piani geniali e vittima delle sue frustrazioni quando le cose non girano per il verso giusto. Fa conoscenza con gli eccentrici personaggi che pullulano per Asakusa, compreso il barbone Kiyoshi, così chiamato in onore di un famoso comico che lo tratta sempre benevolmente.
L’attività frenetica, la fame e la mancanza di denaro non allontanano Kitano dal suo sogno. Anzi, accarezza l’idea di lasciare il François e mettere in piedi un duo comico. Finirà per farsi convincere dalla proposta di un suo collega, creando un duo manzai e iniziando una difficile gavetta che decollerà solo quando l’anticonformismo un po’ matto di Kitano diventerà la chiave di volta degli sketch del duo.
L’artista giapponese si svela in questo racconto/diario della sua giovinezza senza abbellimenti, senza dare di sé un’immagine patinata, bensì molto concreta e realistica. Offre al lettore uno spaccato della vita in Giappone negli anni ’70, le difficoltà di un ambiente ambiguo e sempre legato al malaffare, nonché un commovente omaggio al suo maestro e ai suoi insegnamenti, che rimangono vivi nel cuore di Kitano anche a tanti anni di distanza.

martedì 1 ottobre 2013

Giorgio Strehler o La passione teatrale

Il libro che vi vado a presentare oggi (chiedo scusa ma non ho trovato l’immagine di copertina) è un testo multiforme nato dalla trascrizione di un evento del 1990, la premiazione di Giorgio Strehler al Taormina Arte – Europa per il Teatro. Un po’ intervista, un po’ raccolta di saggi sul teatro, un po’ conversazione aperta su ciò che è stata l’esperienza del teatro di Strehler, questo magnifico testo edito con Ubulibri ci restituisce un evento storico e artistico di grande levatura.
Dopo una prima parte di presentazione dell’evento e delle motivazioni alla base sia della manifestazione che della premiazione, viene proposta una conversazione con Anatolij Aleksandrovic Vasil’ev, regista russo nato nel 1942 che in questa specifica occasione ricevette a sua volta un premio per le proprie esperienze teatrali.
Appassionato di Pirandello, Vasil’ev lavora con i propri attori utilizzando con generosità l’improvvisazione sul testo, poi codificata per la messa in scena ma sfruttata per dare nuovo respiro, una nuova vita ai testi presi in esame. Spesso le sue rappresentazioni non sono nemmeno andate in scena, osteggiate dal regime comunista, e ne rimane solo l’esperienza del lavoro. L’intervista lo porta a parlare della sua idea del teatro, delle sue esperienze e del difficile clima nel suo Paese natale, cosa che all’epoca lo faceva tentennare tra le offerte provenienti dal resto d’Europa e il desiderio, nonostante tutto, di ottenere un proprio spazio in Russia e offrire il lavoro di scena al pubblico del suo Paese.
A questo omaggio al nuovo che avanza, segue una sezione costituita da brevi saggi che hanno lo scopo di indagare le tematiche e i modi del teatro di Strehler. Si analizza la scelta dei testi da parte di questo regista iperproduttivo, le sue preferenze in fatto di autori (è un dato di fatto che spesso si instaura una sorta di ponte emotivo e artistico tra un regista e determinati autori teatrali), il suo quasi totale abbandono dei testi contemporanei per dedicarsi al repertorio “storico”. Viene rievocata la sua esperienza volta a creare un teatro europeo, con i lavori portati in scena in Germania e, soprattutto, in Francia. Si analizza la componente sociale /politica di una parte del suo lavoro, la sua idea di quello che è regia e le scuole di pensiero che hanno contribuito alla sua visione del Teatro.
Cominciano quindi le interviste, che riescono a dare – molto più dei saggi – uno spaccato artistico e profondamente umano dell’esperienza strehleriana e di ciò che lavorare con questo regista ha lasciato ad attori e addetti ai lavori.
In un dialogo aperto tra Strehler e i suoi collaboratori, si delinea il profilo di un professionista esigente fino a sfiancare chi gli sta attorno, istrionico, incapace di dirigere dalla sala senza fare su e giù dal palco innumerevoli volte. Un regista che affronta ogni testo come un viaggio che abbraccia letteratura, storia, arte, costume e che costringe tutti a seguirlo nella magia, appassionando e mettendo alla prova le forze di chi lavora al suo fianco. Un artista che conosce alla perfezione la parte di ognuno, le partiture musicali, i progetti di scena. Un genio che insieme a Paolo Grassi e a Nina Vinchi è riuscito a creare un polo teatrale di livello internazionale al Piccolo di Milano.
Si alternano nella rievocazione di episodi lavorativi e personali grandi nomi come Giulia Lazzarini, Ezio Frigerio, la stessa Nina Vinchi, Turi Ferro…Un dialogo aperto con Strehler, che li incoraggia, li contraddice, a volte persino si commuove nello scoprire quanto ha segnato l’evoluzione come artista di alcuni suoi collaboratori.
Segue un dialogo tra Giulia Lazzarini e Giorgio Strehler che parlano del lavoro svolto su “Elvira, o la passione teatrale” di Jouvet. A metà tra l’analisi critica della messa in scena e la lettura drammatizzata del testo, i due analizzano le tematiche di questa “lezione” di teatro ambientata a cavallo degli anni della Seconda Guerra Mondiale, portando in luce le difficoltà dell’interpretazione scenica e offrendo un bellissimo scambio tra regista e attrice, in parte “scenico” e in parte verità.
Con un discorso conclusivo, termina questo bellissimo documento. Per chi, come me, fa teatro o quantomeno lo ama, una lettura che fa desiderare ardentemente di aver potuto assistere in prima persona all’evento e che restituisce un’immagine sfaccettata di uno dei più grandi registi del secolo scorso.

martedì 24 settembre 2013

L'uovo


La fine del mondo. Quella vera, l’Apocalisse che ridurrà a niente la vita sulla Terra e i millenni di cultura del genere umano. Così, in pochi minuti, senza alcun preavviso, ogni cosa viene spazzata via. Non c’è tempo per tentare di trovare una soluzione, una via di salvezza; nessuna occasione per gli ultimi addii.
Un attimo prima c’è la Vita e l’Uomo governa il pianeta. Un attimo dopo, tutto è finito.
L’ecatombe viene vista in diretta da una base lunare, abitata da un piccolo manipolo di scienziati e volontari comandati dal cupo Odama. Spetterà a lui il compito di trovare un significato in tutto ciò, parlare con coloro che ne sono la causa ed essere protagonista dell’annientamento finale…o forse di una rinascita.
Questa, in breve, la trama di “L’uovo” di Rodolfo Viezzer, edito con Aracne, Un breve romanzo che unisce fantascienza e teologia, morale e scienza, in un viaggio tra le macerie di un pianeta che si risveglia sull’orlo della distruzione, non dissimile all’animo dello stesso protagonista, che dalla morte della compagna ha perso ogni interesse alla vita e a tutto ciò che lo circonda.
Secondo molte mitologie, l’Universo nasce da un Uovo. Pensare ai pianeti come gusci di creature che crescono al loro interno aspettando il momento della nascita è al contempo splendido e terrificante, troppo al di là della capacità di visualizzazione del genere umano.
Un essere gigantesco sotto la crosta terrestre provoca, per venire al mondo, l’estinzione di miliardi di vite. Odama si batte attraverso un confronto etico fatto di solo pensiero per insegnare all’intelligenza aliena fecondante quanto aberrante sia questa proporzione, quanto significhi in termine di danno cosmico. Anche una sola vita perduta, con il suo carico di esperienza e ricordi, è un danno incalcolabile.
Odama ed Ave. Adamo ed Eva. Un semplice acronimo, ma non così scontato. Ce ne si rende conto piano piano, proseguendo con la lettura. Ave è morta; era la luce nella vita di Odama, che ora vive senza speranza e senza più legami con tutto ciò che, sulla Terra, gli ricorda lei. Dentro di lui è avvenuto qualcosa di molto simile al disastro che si sta abbattendo sul pianeta e forse proprio per questo riesce a gestire tanto bene la situazione, a far continuare l’attività della base in sua custodia.
E’ l’unico ad avere la forza e il coraggio di indagare, quando si scopre che il cataclisma è stato indotto da creature che attendevano questo momento da milioni di anni.
L’analisi della psiche di Odama occupa nella narrazione un posto non meno fondamentale del destino a cui la Terra e l’Uomo stanno andando incontro, intrecciata indissolubilmente alle sorti del nostro mondo e della specie.
La particolarità di questo piccolo romanzo sta nell’ambiguità del momento, all’interno del flusso del Tempo, in cui tutta la vicenda si svolge. Potrebbe trattarsi del nostro futuro, neanche tanto lontano. Oppure, perché no, di un remotissimo passato di civiltà evoluta cancellata dallo sconvolgimento planetario, poi rinata grazie a una “seconda possibilità” in cui stiamo ricalcando le tappe precedenti…
L’autore non lo specifica. Forse nemmeno intendeva offrire una suggestione simile. Fatto sta che essa nasce nella mente del lettore fin dalle prime pagine e dona qualcosa in più a tutta la vicenda.
Nonostante la necessità di un editing un po’ più attento, una storia di fantascienza costruita con classe, di gradevolissima lettura, che offre molti spunti di riflessione.

martedì 17 settembre 2013

La fortuna viene a chi sorride


Ci vuole un bel coraggio per lasciare tutte le proprie sicurezze, un lavoro fisso e le abitudini di una vita e decidere di girare il mondo alla ricerca della conoscenza e della felicità, con la sola sicurezza di una vasta rete di amicizie internazionali costruita negli anni e le proprie abilità di artista di strada, sempre pronto a esibirsi per grandi e piccoli pur di strappare un sorriso.
Luca, il protagonista del romanzo-diario “La fortuna viene a chi sorride”, questo coraggio lo trova. Anzi, si mette in viaggio con una gran gioia nel cuore, desideroso di immergersi nell’atmosfera di Paesi lontani e conoscere gente nuova, abitudini differenti.
Assistiamo così alle sue peregrinazioni e leggiamo dei suoi contatti con gente di tutto il globo.
Per Luca (che poi altri non è che l’autore stesso sotto pseudonimo) i sorrisi sono il motore che fa girare il mondo. Le cose belle, la fortuna, sono attratte da chi sa sorridere e lui se ne rende prova vivente più e più volte durante l’intera narrazione.
Dopo un paio di tappe europee, Luca parte per l’India, dove peregrina da un luogo all’altro assaporando le abitudini del luogo, la cordialità della gente e dove trova conoscenze vecchie e nuove, tra cui giocolieri suoi colleghi. Ci porta in Thailandia, in Australia, e poi di nuovo nel Sud-Est asiatico, in un viaggio del corpo e dell'anima che lo riporterà in Italia per una fortunata (appunto) intuizione: un male invisibile gli sta minando la salute e minaccia la sua vita. Serviranno tutto il suo coraggio e la sua positività per ricominciare.
Sono due i punti di forza di questo libro, edito da “Il Ponte Vecchio”: il linguaggio e la variegata casistica umana che vi compare. Zaganelli trascrive i fatti e le conversazioni con lo stesso tono informale della vita di tutti i giorni, senza cercare di rendere più “letterario” il suo stile, conservando una freschezza e una immediatezza che si sposano perfettamente con il carattere del testo.
I volti, le voci e le abitudini che ci vengono mostrati di pagina in pagina, poi, sono un dipinto multicolore di un’umanità varia e traboccante di vita. Gente il cui intrinseco valore non risiede solo nella diversa cultura, ma nella capacità – da noi quasi scomparsa – di godere delle cose belle della vita, della conoscenza del prossimo per il puro gusto di avvicinare un altro essere umano, senza interessi reconditi.
A questa gente “bella” si contrappone, anche se non è intento dell’autore creare due categorie, un’umanità occidentale in viaggio per ritrovare se stessa, spesso confusa e non ancora pronta ad aprirsi davvero a esperienze diverse dal consueto se non per una forma di snobismo nel ritenersi “alternativo” e frequentare solo luoghi “di grido”.
La principale pecca, come purtroppo accade fin troppo spesso negli ultimi anni, è una mancata (o quantomeno approssimata) correzione delle bozze. Non mancano errori di battitura e di punteggiatura, che fortunatamente non tolgono nulla alla bellezza di questo diario di viaggio ma sicuramente risultano poco graditi.
Zaganelli ci regala uno scorcio luminoso della sua esperienza di vita. Da leggere tutto d'un fiato.

mercoledì 11 settembre 2013

Le parole raccontate

Andrea Camilleri potrebbe essere definito un uomo che ha vissuto due volte. Quantomeno, ha vestito sia i panni del regista teatrale che, successivamente, del romanziere di successo. La cosa che fa riflettere è come il passaggio da una figura all’altra sia inizialmente stato visto con sospetto, per poi arrivare all’estremo di ricordare Camilleri unicamente come scrittore, lasciando solo agli addetti ai lavori il ricordo della sua lunghissima carriera nel mondo del Teatro.
Andrea Camilleri nasce nel 1925 in provincia di Agrigento. Nel 1949 viene ammesso al corso di regista presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, a Roma. Regista di moltissimi testi, insegnante, affianca al lavoro teatrale la scrittura. Pubblica novelle e romanzi, molti ambientati nella sua terra natia, la Sicilia; alcuni, dedicati a grandi artisti del nostro passato. Famosissimo il personaggio del Commissario Montalbano, interpretato per la tv da Luca Zingaretti. Da quando ha abbandonato le scene, i suoi successi letterari hanno messo un po’ in ombra il suo importante contributo al panorama teatrale italiano.
Questo piccolo libro edito da Rizzoli, Camilleri va ad attingere alla propria memoria della passata carriera da regista in modo ironico e scanzonato, in un saggio dal doppio volto nato come chiacchierata senza filtri con tutti i teatranti, a qualunque livello.
Il testo si compone di due parti distinte: la prima è, appunto, una sorta di dizionario dei termini teatrali. La seconda, è la trascrizione di una lezione-incontro tenuta da Camilleri per una classe di ragazzi che si stavano affacciando all’esperienza teatrale.
Il dizionario viene definito dall’autore “lacunoso”, questo perché non ha alcun intento didattico, nasce dalle miniere della memoria. E’ una raccolta di aneddoti, cui il termine di referenza fa quasi da titolo. Camilleri utilizza questa forma a metà tra la voce didascalica e il racconto puro e semplice per metterci a parte di alcuni episodi della sua vita da allievo regista, curiosità dei dietro le quinte, riflessioni sul suo lavoro. Ci presenta un volto poco noto di personaggi dello spettacolo, parla dei critici e di alcune esperienze particolari.
L’autore si sofferma volentieri a tracciare i retroscena dei lavori a cui ha preso parte sia come regista, sia – più modestamente – come aiuto. Mette in mostra difetti e capricci di attori, registi e personalità varie del teatro, con un’ironia e un’autoironia che paradossalmente dimostrano il profondo rispetto di Camilleri per questo mondo fragile ed esigente.
Si parla perfino di apparizioni fantasmagoriche in teatro, come se questo luogo in cui vengono messi in scena i sogni sia davvero un ambiente liminare in cui diversi piani d’esistenza si trovano e si toccano, palesandosi a vicenda.
La seconda parte del libro è la trascrizione di un seminario tenuto da Camilleri a un gruppo di giovani attori. La chiacchierata si fa subito informale, senza rigidità tra professore e allievi. Relatore e astanti sono accomunati dalla passione e dall’amore per l’arte teatrale, e tanto basta.
Ovviamente consigliato a coloro che hanno un forte interesse per il Teatro, ma una lettura molto piacevole anche per i fan del Camilleri scrittore.

mercoledì 4 settembre 2013

Storia del Giappone

Il Giappone è un Paese misterioso e contraddittorio, affascinante, la cui storia non è ancora del tutto chiara nemmeno ai nativi. Le sue origini antropologiche sono avvolte nel mistero più fitto, la ricerca è ancora lungi dal comprendere come e quando il genere umano ha fatto la sua comparsa su questo gruppo di isole, dando inizio al lungo viaggio di una cultura peculiare e quasi incomprensibile per il pensiero occidentale, capace di attingere dagli usi e costumi altrui ma solo per costruire qualcosa di nuovo, originale, che fosse sempre in grado di rivaleggiare e prevalere sia con i “vicini di casa” che con il resto del mondo.
“Storia del Giappone” di Kenneth H. Henshall (edito da Mondadori) si prefigge di offrire una panoramica quanto più possibile chiara ed esauriente delle epoche che hanno caratterizzato l’evoluzione sociale nipponica, utilizzando un linguaggio semplice e preciso per inquadrare periodi storici, forme di governo, ordinamenti sociali, correnti di pensiero.
Ogni era viene illustrata in un capitolo dedicato, senza soffermarsi in maniera eccessiva sui dettagli – che sarebbero solo d’impiccio a chi si avvicina per la prima volta alle tradizioni di questo mondo particolare – ma ponendo l’accento sui fatti e i personaggi salienti, attenendosi alle chiavi di lettura che in campo accademico sono ritenute maggiormente aderenti al vero. In conclusione di ogni capitolo, inoltre, l’autore offre un riassunto di quanto spiegato, corredato da due tabelle: una cronologica, l’altra inerente le principali peculiarità sociali e di pensiero del periodo descritto.
Questo è uno strumento di grande utilità per coloro che intendono usare il testo per prepararsi mnemonicamente senza essere costretti a destreggiarsi tra concetti essenziali e nozioni aggiuntive.
Il primo capitolo affonda le sue radici nella preistoria e cerca di tracciare le origini del popolo giapponese attraverso i flussi migratori continentali e le tracce lasciate dalle etnie che si sono avvicendate, a volte scontrandosi, sul territorio. L’autore non esita a raccontarci anche la versione mitologica delle origini del Giappone, fondamenta della religione shintoista che ha imperato fino al radicarsi della filosofia buddhista e che ancora oggi fa parte indissolubilmente della vita dei giapponesi.
Questo popolo, infatti, ha sempre avuto un atteggiamento molto aperto nei confronti delle diverse religioni, adottandole indifferentemente e portando avanti percorsi spirituali peculiari che non hanno simile attitudine in nessun altra parte del mondo.
Pian piano, un territorio diviso e vulnerabile nei confronti del vicino impero cinese diventa uno Stato unitario (Yamato) con un sistema a sua volta imperiale, incentrato su una corte che col passare del tempo si isola dal mondo, affidandosi al rituale buddhista e alla ricerca dei raffinati piaceri delle arti. Questo periodo, nominato Heian, termina con il sorgere di personalità guerriere che iniziano a combattersi per il potere, che viene decentrato nella figura dello shogun. Dopo secoli di guerre, sarà Oda Nobunaga a prevalere su tutti e riunificare il Paese.
Dopo lui e il suo braccio destro, prenderà il potere la dinastia Tokugawa, conservatrice fino a decidere di chiudere il Giappone agli stranieri e gestire la società in caste guidate da norme rigidissime. Solo l’insistenza americana, nel XIX secolo, costringerà il Giappone a cambiare rotta e decidere di prendere tutto ciò che poteva essere utile dagli Occidentali.
All’Imperatore si affianca un’oligarchia di militari che, dietro apparenze democratiche, costruisce una dittatura nazionalistica con mire d’espansione in Asia e non solo, in netta competizione con l’Occidente. Questo porta alle amare conseguenze della Seconda Guerra Mondiale e a una sconfitta devastante. Il Giappone, però, ha dimostrato di sapersi sempre risollevare dalle proprie ceneri, reinventando se stesso quando necessario, pur rimanendo una realtà piena di sottili contraddizioni che la nostra forma mentis fatica a comprendere.
Una lettura che risulta sia piacevole che istruttiva. Un buon modo per cercare di conoscere meglio un Paese meraviglioso e un popolo dal passato turbolento, le cui caratteristiche migliori sono da esempio per credere nella possibilità di ricominciare.

martedì 27 agosto 2013

Richard Matheson - Tutti i racconti


La casa editrice Fanucci ha messo in opera l’ambizioso obiettivo di raccogliere in una collana tutti i racconti del grande scrittore di fantasy e fantascienza, rispettando l’ordine cronologico con cui essi vennero scritti, dal 1950 al 2010. La recente scomparsa del padre di “Ai confini della realtà” rende ancora più preziosa questa opera omnia.
Scrivere racconti non è facile. Il fatto che siano molto più brevi di un romanzo non costituisce un elemento di accessibilità, quanto una caratteristica micidiale. Non è affatto semplice creare una storia che stia in piedi e sia in grado di garantire uno svolgimento coerente nell’arco di poche pagine. Suscitare l’emozione, un sentimento di qualche tipo verso i protagonisti, diventa un’opera di cesello e di abilità pura.
Matheson, maestro di un altro grande novellatore del nostro tempo – Stephen King – e stimato contemporaneo del grande, e compianto, scrittore del fantastico Ray Bradbury, porta la distorsione, l’orrore, il disagio ultraterreno nella vita quotidiana, utilizzando un linguaggio diretto come uno schiaffo, ridotto all’essenziale, senza sbrodolare in descrizioni inutili, dettagli scientifici, parentesi fuorvianti.
L’autore immagina futuri fantascientifici di viaggi nello spazio, salti temporali, contatti con razze aliene. Gioca con i confini tra la vita e la morte, ci mostra come basta un piccolo dettaglio fuori dal tran-tran quotidiano a farci precipitare (più o meno a ragione) in un universo sconosciuto in cui le regole del gioco non sono più le stesse. Scandaglia pregi e difetti dell’animo umano mettendoli a confronto con paure ataviche e pregiudizi sul “diverso” che conosciamo fin troppo bene. Parla del sesso, della discriminazione e dei peggiori impulsi umani con una modernità disarmante, senza nascondersi dietro buonismi e moralità.
La raccolta si compone di quattro volumi; in questa recensione vi parlerò del primo, che raccoglie i frutti della fervida fantasia di Matheson dal 1950 al 1953. La fantascienza è il tema portante su cui si fonda la prosa dell’autore in questi anni, pur con excursus nel fantastico e nel racconto di pura tensione. In trentaquattro racconti, trascina il lettore attraverso un viaggio onirico e mai uguale a se stesso, caratterizzato anche da sperimentazioni di stile (come la riproduzione del nastro registrato di un interrogatorio o di una seduta dallo psicologo).
La fantascienza impera. “Sogni a occhi aperti” racconta di una realtà virtuale, sola spinta di un’umanità molle e alla deriva. “Terzo dal Sole” è la fuga da un mondo che sta morendo. “Le montagne della mente” racconta del viaggio di uno scienziato ipnotizzato dalle proprie onde encefaliche, specchio di vere montagne in cui si nasconde un segreto. “Ritorno” tratta dei viaggi nel tempo con uno struggente sguardo alla vita oltre la morte. “La cosa” ci parla di un mondo in cui la Scienza impera, decidendo cosa è vero e cosa no. “Guerra di streghe” unisce un tema addirittura medievale a guerre futuristiche in cui il potere della mente di poche ragazzine fa la differenza. “Prima che avvenga” ha per protagonista uno scrittore di fantascienza che vede realizzarsi pian piano tutte le proprie storie di fantasia, fino all’invasione aliena. “Fratello della macchina” è uno scorcio su un mondo in cui il confine tra uomo e robot si sta perdendo. “Sempre vicina a te” racconta dell’amore morboso di una badante aliena. “Appartamento a basso canone” insegna che dietro un’offerta vantaggiosa si nasconde sempre una fregatura. “Cuori solitari” avvicina via lettera una venusiana e un terrestre. “I diseredati” è una favola distorta che nasconde un piano diabolico. “L’astronave della morte” ci fa sprofondare nell’angoscia di un disastro preannunciato. “Il cerchio si chiude” tratta delle discriminazioni razziali attraverso il rapporto con i marziani. “Lazzaro II” vede un uomo risorgere dentro un corpo di metallo costruito dal padre. In “Bambina smarrita” due genitori scoprono nel peggiore dei modi l’esistenza della quarta dimensione. “L’ultimo giorno” è uno scorcio delle ultime ore del mondo, che sta per essere ingoiato da una stella di fuoco. In “Gravidanza indesiderata” si assiste al travaglio di una coppia scelta suo malgrado per un esperimento alieno.
Non mancano racconti che si inoltrano nel campo dell’horror. “Nato d’uomo e di donna” ci racconta di un bambino-mostro rinchiuso in cantina. “Figlio di sangue” e “Il vestito di seta bianca” si immergono nel tema gotico del vampirismo. In “L’abito fa il monaco”, un uomo viene letteralmente assorbito e sostituito dal suo vestiario. “Dai canali” è un interrogatorio seguito a un massacro senza spiegazione logica. “La giusta punizione” è un viaggio all’inferno per un vecchio poeta malvagio. Un uomo vede il proprio mondo scomparire pezzo per pezzo in “Eliminazione lenta”. Un’anziana signora è tormentata da una misteriosa telefonata in “Una chiamata da lontano”. Il tema della casa senziente viene trattato in “La casa impazzita”, in cui la dimora si vendica del proprietario violento, e “Casa Slaughter”, una sorta di omaggio a Poe e Lovecraft. “L’uomo che creò il mondo” è una straniante visita psichiatrica. In “Il matrimonio” si assiste al trionfo della superstizione. “Paglia umida”, infine, ci proietta dentro la terrificante vendetta di una moglie defunta.
Non manca qualche racconto fuori dagli schemi, come “La legione dei cospiratori”, finestra sulla paranoia; “Occhi di sceriffo”, un western; “Una stanza per morire”, racconto ambiguo tra il misterioso e l’indagine pura.
Questo ricchissimo scrigno è contenuto nel solo volume iniziale. Non vedo l’ora di affrontare il prossimo! Buona lettura!

martedì 20 agosto 2013

Il ritorno degli Dei

“Il ritorno degli Dei” di Massimiliano Venturini, edito da Il Ponte Vecchio, è un connubio non comune di giallo all’italiana e fantascienza, condito con un pizzico di cospirazione internazionale e un palese amore per l’arte.
L’ispettore Raul, appassionato di archeologia, viene chiamato d’urgenza a causa di alcuni misteriosi omicidi avvenuti nelle valli di Comacchio. Le vittime sono state ritrovate sepolte o affogate, con la testa avvolta in una rete da pesca e un reperto di matrice greco antica ficcato in bocca. Gli indizi sono pochissimi, la collaborazione della gente del posto verso un ispettore che proviene dalla riviera romagnola molto scarsa e Raul si trova a dover utilizzare spesso metodi poco ortodossi per cercare di districarsi in questa complicata faccenda.
Quando, finalmente, qualche informazione riesce a trapelare, Raul scopre di essere finito dentro una catena di eventi molto più grandi di lui. Tra società segrete greche, antiche aspirazioni naziste e reperti sorprendenti, Raul si troverà a fronteggiare il più grande segreto della Storia umana.
Dare un giudizio univoco su questo romanzo è difficile, in quanto il prodotto letterario riunisce in sé parecchi pregi e altrettanti difetti, rendendo complesso trovare un sistema di valutazione che riesca a tenere conto di entrambi.
Partiamo dai pregi. Venturini costruisce un giallo all’interno di un contesto prettamente italiano. Per quasi tutto il romanzo non si ravvisa alcun intento di scimmiottare romanzi e telefilm americani, che possiedono uno stile peculiare per ciò che concerne indagini di polizia, omicidi e mistero. Se ne sono letti e visti troppi per poter sopportare una brutta copia di matrice italiana. Venturini non cade nel tranello e ci presenta il territorio della riviera con tutta la sua quotidiana normalità. I personaggi sono italiani al cento per cento, rustici e un po’ maneggioni, sempre pronti a vivere in un limbo fra la legalità e i propri interessi.
Gli sforzi per creare un giallo tutto italiano sono evidenti e apprezzabili per un genere che sta ritagliandosi la sua buona fetta di mercato editoriale.
Il protagonista è non convenzionale. Venturini non fa nulla per mitigarne l’arroganza e la tendenza ad aggirare la legge per i propri comodi, creando un uomo plausibile e antipatico le cui vicissitudini si seguono volentieri, forse proprio perché non viene richiesto al lettore di partecipare emotivamente alle sue vicende.
Il fantastico fa il suo ingresso con un tema non nuovo ma inaspettato vista l’ambientazione “casalinga”: il decimo pianeta e la stirpe di divinità – forse aliena – che fece dell’Uomo un essere in grado di evolversi in civiltà progredite. Inoltre Venturini incentra gran parte della storia sul mondo dell’archeologia, parlandone con perizia e offrendo maggiore spessore intellettuale alla trama.
I tasti dolenti, purtroppo, inficiano la possibilità di una lettura scorrevole e godibile fino alla fine. In primis, l’autore e l’editore non hanno controllato a dovere le bozze prima della stampa. L’uso della punteggiatura è spesso errato; sono presenti parecchie ripetizioni e refusi che danno la sensazione di doversi impegnare in una corsa a ostacoli. Questo è un peccato, perché il lessico di Venturini è, al contrario, non scontato e molto gradevole.
I rapporti uomo-donna sono stereotipati, poco credibili, nonostante la giustificazione del carattere poco espansivo del protagonista. Di quando in quando, inoltre, le informazioni storiche elargite dall’autore diventano vere e proprie parentesi esplicative che sanno di saggio e risultano eccessivamente slegate dalla narrazione.
Il vero problema del romanzo, a parte gli errori, è il finale, accelerato fino allo spasimo e strappato alla radice italiana per cercare di tirare le fila della troppa carne messa sul fuoco, una sorta di trasformazione in film d’azione con conclusione pre-apocalittica. La filippica finale del protagonista esprime troppo palesemente i pensieri dell’autore in merito ai temi trattati e risulta fuori luogo.
“Il ritorno degli Dei” sarebbe molto più godibile dopo una decisa correzione delle bozze. Venturini, comunque, ha il talento di creare trame interessanti, che stanno scomparendo dal mercato. Un autore a cui dare un’altra possibilità.

lunedì 12 agosto 2013

Manoscritti segreti

Coloro che si interessano di misteri ed esoterismo, saranno sicuramente tentati dal saggio che vi vado a presentare oggi. Si tratta di “Manoscritti segreti” di Paolo Cortesi, edito da Newton Compton. L’autore si propone di presentare alcuni tra i testi dall’origine più controversa che la Storia umana ricordi, comparando le teorie sorte intorno alla loro nascita e al loro significato per poi fornire una propria opinione in merito.
La prefazione si sofferma sui libri che per antonomasia hanno fama di essere degli enigmi discernibili solo agli iniziati: i testi alchemici. In essi, infatti, niente è ciò che sembra. Ogni concetto assume un doppio significato da interpretare.
Il primo capitolo porta in luce le numerose scoperte di nozioni troppo avanzate negli antichi testi, squarci di invenzioni o concetti scientifici che noi associamo all’epoca moderna ma che con tutta evidenza sono stati riscoperti dopo secoli di oblio. Il secondo ci porta a Qumran e alla scoperta delle pergamene che hanno fatto tremare dalle fondamenta parecchi teologi. L’autore fornisce una breve storia dei ritrovamenti e delle analisi operate sui testi e pone l’accento su comportamenti sospetti dei professori coinvolti nell’indagine.
Per non dimenticare l’Egitto e i suoi enigmi, Cortesi ci parla del papiro Tulli, che gli ufologi hanno eletto a prova della presenza di ufo ed extraterrestri ma di cui manca l’originale e che potrebbe benissimo avere spiegazioni più comuni e quotidiane. Segue una piccola digressione storica e un’analisi del Sator, l’enigmatico schema di lettere dal significato ancora oscuro.
Si passa poi a un romanzo che risale alla fine del XV secolo e che rappresenta un mistero non solo per quanto concerne l’identità dell’autore (le ipotesi si sprecano), ma anche per le allusioni a rituali estranei alla religione cattolica e all’amore carnale come scelta del protagonista (tema pericoloso in un simile periodo storico). L’Hypnerotomachia Poliphili, che racconta la storia di Polifilo alla ricerca della sua Polia, fu edito dal grande Aldo Manuzio. Cortesi sposa la tesi secondo cui esso celi tracce degli antichi culti isiaci.
Un testo altrettanto antico ma ancora più misterioso è il manoscritto Voynich, un trattato recuperato in una biblioteca gesuita, ricco di disegni grossolani ma affascinanti e interamente scritto con caratteri incomprensibili, in una lingua sconosciuta. In molti si sono impegnati a trovare un codice di decifrazione, ma al momento si propende per pensare che esso sia un falso d’epoca, creato per spillare soldi all’imperatore alchimista di Praga.
Cortesi si occupa poi delle profezie di Nostradamus, mettendo in luce non solo quanto poco conoscesse quest’ultimo di astrologia, ma anche che le sue visioni si adattavano – guardacaso – solo alle porzioni di mondo e ai sistemi sociali a lui conosciuti. Per concludere si parla delle stranezze racchiuse nell’identità del grande William Shakespeare e delle intuizioni futuristiche di Tiplaigne de la Roche, che paiono anticipare di circa un secolo invenzioni quali la fotografia e la televisione.
Il principale difetto dell’opera, che di per sé ha il pregio di trattare argomenti di nicchia con un linguaggio colloquiale alla portata di qualunque lettore-tipo, è l’eccessiva enfasi data a talune affermazioni o a domande poste con il preciso scopo di sottolineare le perplessità dell’autore. Mi spiego: quando Cortesi è convinto di essere in presenza di dati “eclatanti” oppure vuole sottolineare i difetti di una teoria, utilizza in modo selvaggio il corsivo, come un oratore che avesse il vizio di sporgersi verso il pubblico nei momenti topici del discorso per accattivarsi partecipazione e consenso.
Le teorie di Cortesi sono, per l’appunto, teorie. Come tali andrebbero presentate. Invece, spunta fin troppo spesso questo tono da imbonitore che, lungi dal convincere della bontà di certe affermazioni, fa solo venire voglia di ottenere maggiori informazioni oggettive grazie a cui poter giudicare le singole teorie in maniera più obiettiva.
Se si tralascia questo particolare, comunque, una lettura godibile e ricca di spunti di riflessione. I misteri ci sono, questo è innegabile.

lunedì 5 agosto 2013

Esopo - Favole

Una delle più antiche raccolte di favole occidentali è il corpus di testi ascrivibili a Esopo, personaggio dai tratti mitici al pari di Omero, probabilmente proveniente dalla Frigia. Fabulatori successivi, come Fedro e i novellatori medievali, si sono ampiamente ispirati a lui e alla struttura semplice e diretta delle sue favole.
Non è facile districarsi attraverso le fiabe che gli sono attribuite. Gli specialisti hanno cercato di epurare la raccolta da testi di palese provenienza medievale (aggiunte durante le trascrizioni degli amanuensi) ma per alcune favole l’attribuzione è controversa. Di quando in quando, la morale finale sembra pretestuosa oppure non del tutto coerente con il reale significato della favola. Probabilmente ci si trova di fronte ad aggiunte successive.
Si tratta sicuramente di una tradizione orale sedimentata nella cultura locale che ha trovato, per mano di Esopo, uno sbocco nella scrittura (ricordiamo che per molto tempo è esistita un’accesa diatriba intellettuale tra il mondo della cultura orale e quello della parola scritta).
Le favole di Esopo sono caratterizzate dalla brevità e dalla morale finale che riassume il concetto o l’insegnamento precedentemente enunciato attraverso la narrazione. Molto spesso i protagonisti sono animali, personificazioni di vizi e virtù dell’uomo. Capita spesso di assistere anche al confronto tra uomo e animale, con alterne fortune. Più di rado, si narra di vicende prettamente umane o di dispute con le divinità.
Non posso giudicare la qualità della traduzione che vi sto presentando – a cura di Mario Giammarco per la Newton Compton Editori – in quanto non capisco mezza parola di greco! Posso però assicurarvi che la lettura della versione italiana è piacevole, moderna, spigliata. Il linguaggio è quasi sempre quotidiano, senza arcaismi volti a rendere l’antichità del testo a scapito della comprensione. Le favole sono numerate e accompagnate dal testo originale, in modo da poter essere oggetto di studio e lettura per chi compie studi classici o ha interesse in merito.
Non si tratta di favole per bambini, nonostante di norma si associ questo genere all’infanzia. Le tematiche trattate riguardano in prevalenza dinamiche sociali che assumono valore o possono essere comprese solo quando si entra nell’età adulta. Non tutte le favole intendono fornire un insegnamento, ma quasi tutte danno una lezione morale o di comportamento tra individui, oppure tra il singolo e la comunità.
Ci sono anche spunti riguardanti l’atteggiamento umano nei confronti del divino e della religione in sé, in un sottolineare difetti e abitudini scorrette che vanno al di là del periodo storico e culturale e si trascinano da sempre lungo l’esperienza umana.
Durante la lettura si incontrano con piacere le forme originali di fiabe che hanno accompagnato la nostra infanzia, come “Il topo di campagna e il topo di città”, nata per comunicare come le piccole, pacifiche cose siano migliori di ricchezze ottenute solo a prezzo di continui pericoli; “La lepre e la tartaruga”, gara di velocità in cui la costanza è premiata sulla prestazione invidiabile ma di breve durata; “La volpe e l’uva”, che insegna a non denigrare i nostri passati obiettivi solo perché non siamo riusciti a raggiungerli. Come già accennato in precedenza, la forma originale è molto cruda e diretta, ben diversa dai toni più dolci e narrativi delle versioni per bambini.
Non è una lettura da mandar giù in un sol boccone. Un po’ come per la poesia, va centellinata. Bisogna fermarsi a visualizzare e a riflettere, cercando da sé l’insegnamento in quanto letto, a volte ben al di là delle poche righe di morale presenti nel testo.

lunedì 29 luglio 2013

La moda - Storia della moda del XX secolo

Quest’oggi vi presento un testo artistico della casa editrice Taschen che è anche catalogo del Kyoto Costume Institute, un compendio sulla moda del XX secolo basato sui prodotti della haute couture raccolti nella collezione dell’istituto. La magnifica sequenza fotografica, nitidamente stampata a colori su carta lucida, è corredata da didascalie informative, descrizioni e da due brevi saggi.
Il primo, scritto dalla professoressa universitaria Reiko Koga, illustra brevemente la concezione della figura femminile e dello stile a cavallo tra XIX e XX secolo. In pochi anni, la moda conobbe un cambiamento radicale e sempre più veloce, cambiando completamente, di volta in volta, la linea del corpo femminile, i materiali, gli accessori.
Partendo da gonne ancora ampie e lunghe fino ai piedi, corsetti a vita stretta e una linea a s che era l’epitome della perfetta figura, si passò ad abiti con gonna alla caviglia, senza panieri o imbottiture. Il corsetto divenne meno costrittivo, si cercò di rendere almeno gli abiti da giorno più comodi da portare. La rivoluzione avvenne con gli anni ’20 e con la passione per il ballo (charleston), con le prime avvisaglie di un desiderio di emancipazione della donna.
I vestiti si accorciarono fin sopra al ginocchio. La linea dell’abito divenne dritta, senza aderenze, con la cinta abbassata fino ai fianchi. Veli, frange, colori più azzardati e accessori estrosi (cuffiette, cappelli piumati, boa) contribuirono a dare un primo assaggio di moda innovativa. A questo stile si affiancò la moda garçonne, che faceva indossare i pantaloni anche alle donne.
Negli anni ’30, ’40 e ’50 si ritorna a una ricerca della femminilità, dapprima con abiti aderenti e lunghi, fluttuanti, nati per esaltare le curve del corpo; poi con giacche, camicette e gonne sotto al ginocchio, in un mix di eleganza e pudicizia data anche dalla povertà degli anni di guerra, che non consentivano grande estro. Infine, negli anni ’50, si torna a sottolineare la vita stretta con abiti a gonna ampia, colorati e femminili.
Il secondo saggio, di Rie Nii, curatore dell’Istituto, offre una panoramica della moda contemporanea. Si parte dalla rivoluzione degli anni ’60, con le sperimentazioni artistiche e di materiali unite a una tendenza a scoprire il corpo (nascono le minigonne e i costumi da bagno ridotti). Negli anni ’70 nasce la moda unisex e da quel momento in poi tutto è concesso, portando a collezioni di moda che spesso nascono e muoiono sulla passerella, frutto più di concezioni astratte sulla valenza del corpo, del colore, dei tessuti che del reale desiderio di “vestire”.
La galleria di immagini è magnifica, ci si perde nei dettagli, nella perfezione della realizzazione dell’abito. Non per niente, la haute couture è sempre stata caratterizzata, oltre che da un’inventiva fuori dal comune, da una competenza tecnica di taglio e di decorazione che è impossibile trovare in un normale capo di sartoria.
Ogni immagine è preceduta da un piccolo specchietto esplicativo che fornisce maggiori dettagli sullo stilista, sulla moda del periodo oppure sui materiali utilizzati negli abiti presi in esame. Ogni fotografia, poi, è corredata da una didascalia che fornisce i dati essenziali (stilista, tipo di abito, etichetta, anno di fabbricazione) e una descrizione più accurata.
Il volume offre una panoramica della moda del XX secolo molto ampia, se non completa. Sfogliandolo si unisce il piacere estetico dato dalla bellezza indiscutibile dei prodotti di sartoria alla comprensione dell’evoluzione della moda nell’ultimo secolo, in un perfetto raggiungimento dello scopo fondante di un volume come questo.
Come sempre, la Taschen offre un ottimo prodotto editoriale e artistico, utile a tutti coloro che si interessano di  fashion design ma anche, più in generale, agli appassionati del “bello”.