giovedì 31 gennaio 2013

Lettere a Theo

Quasi sempre, comprendere quali pensieri, ambizioni o sentimenti si celino dietro alla produzione di un artista si riduce, per forza di cose, a un mero esercizio di speculazione. Di norma, infatti, ciò che l’artista lascia al lavoro dei critici e all’attenzione del pubblico è la sua opera così com’è, veicolo a sé stante di tutto il lavoro fisico e mentale che l’ha preceduta.
Questo ingenera una certa dose di cautela nel formulare ipotesi (tranne nel caso di quei critici che sentono di aver colto il “vero significato” dell’opera, spacciando la propria visione soggettiva per un’analisi oggettiva e creando confusione nel fruitore medio). Comprendere l’opera di un artista diventa difficile come interpretare un sogno altrui.
Uno dei più famosi e quotati artisti che ci ha condotti all’arte delle avanguardie, Vincent Van Gogh, ci ha risparmiato la fatica di perderci in elucubrazioni lasciandoci un copioso corpus di lettere spedite al fratello minore Theo, una ponderosa mole di pagine scritte fino all’ultimo istante a quello che considerava il parente più simile a lui per temperamento, il migliore amico, nonché il commerciante ufficiale delle sue opere (che, però, non riuscì a renderlo né famoso né vendibile mentre era in vita).
Queste lettere vengono qui pubblicate dalla Ugo Guanda Editore in una selezione che spazia dagli anni del fervore religioso di Van Gogh, alla sua scoperta del talento artistico, alla faticosa vita di pittore disturbata e quindi distrutta dalla malattia mentale.
Le prime lettere sono quasi paternali, verbose, dense di citazioni bibliche ed evangeliche, ma di quando in quando spuntano descrizioni di luoghi visitati o persone conosciute che sono veri e propri quadri verbali, tanto sono descritti vividamente. Il colore, più che la forma, è il mezzo attraverso cui Van Gogh percepisce e descrive il mondo che lo circonda.
Questo si accentua ancora di più nelle lettere successive all’inizio della sua carriera di pittore, diventando il filtro preferenziale attraverso cui scoprire la realtà. Si viene catapultati in una iper-percezione, un sentire vibrante e potente fatto di luce, una sensazione continua di epifania verso il creato che forse era indice di una fragilità psicologica già in atto ma che si traduceva in esperimenti sorprendenti sulla tela.
Il denaro e i problemi di salute sono argomento di discussione fisso, due dei disagi che rosicchiavano di anno in anno la sua stabilità e la fiducia nel futuro. Lo stile, negli ultimi anni, si fa più sconnesso, reciso, ambiguo. Non che vi siano divagazioni prive di senso o segnali di follia, ma alla prosa ampia e narrativa si sostituiscono frasi più brevi, a volte ermetiche, di norma segno di depressione. Il tono si fa più brusco, come se ogni momento dedicato alla scrittura fosse da considerare perduto per la pittura.
Vincent Van Gogh nasce in Olanda nel 1853, da una famiglia molto religiosa. Il padre, infatti, è un pastore di anime, cosa che lo influenzerà tanto da fargli prendere la decisione di diventare predicatore. L’esperimento, durato anni, non ha grande successo. Vincent non è portato per la capacità di parlare a un pubblico, soffre gli insegnamenti accademici e li trova inutili o incompatibili con il semplice spirito cristiano che dovrebbe stare alla base dell’opera del predicatore.
Si avvicina agli umili, ai lavoratori che fanno vita più dura. A volte disegna, ma quasi per gioco. Viaggia, anche in Inghilterra, ma i fallimenti si accumulano e pesano sul suo spirito, che si fa sempre più malinconico e depresso. Anche il lavoro di mercante d’arte presso la Goupil finisce con un licenziamento.
Nel 1880, finalmente, decide di dedicarsi anima e corpo al talento artistico. Si butta nel disegno, imparando da vari maestri ma senza riuscire – anche in questo caso- ad adattarsi al pensiero accademico. Nonostante ciò, per molto tempo non si accosta alla pittura, conscio dei propri limiti e deciso a farsi prima una solida preparazione grafica, soprattutto sulla figura, il suo tallone d’Achille. E’ il colore, però, il suo vero regno. Una volta provato, non riesce più a farne a meno e si butta in una produzione frenetica.
Brutte delusioni sentimentali, le ristrettezze economiche, la consapevolezza di dipendere dall’aiuto del fratello e la totale mancanza di vendite acuiscono le turbe di un animo già di per sé ipersensibile, iniziando a minare la sua sanità mentale. Nel 1888 si trasferisce ad Arles, deciso a migliorare se stesso e la propria pittura con il clima del sud. Accarezza l’idea di creare un’associazione di pittori, convive per qualche tempo con Gauguin, ma sopravviene la crisi. Preda di raptus violenti (si taglia anche un orecchio), viene internato più volte, con suo sgomento e rassegnazione. Torna a dipingere con fatica ma nel 1890 si spara un colpo e muore nel giro di poco. Il fratello Theo morirà di malattia pochi mesi dopo.
Fino all’ultimo, il suo legame con il fratello si mantiene forte con questo scambio epistolare, documento di inestimabile valore per comprendere il lavoro di un artista che ha fatto epoca e commovente testimonianza del tormento di un uomo.

mercoledì 23 gennaio 2013

Medioevo superstizioso

Cosa divide il concetto di fede da quello di superstizione? Entrambi prevedono lo sforzo di credere che un evento si verificherà o verrà scongiurato, che si avrà un beneficio o un danno a seconda che il rituale venga compiuto in maniera corretta o meno. Dunque cosa separa in modo tanto netto i due concetti, almeno per ciò che riguarda la filosofia occidentale?
Jean-Claude Schmitt si prendere l’onere di dare una risposta a questa domanda nel suo saggio “Medioevo superstizioso”, in cui analizza la nascita e il radicarsi della definizione di ciò che è superstizione dall’avvento dell’era cristiana e poi durante tutto il Medioevo, fino a culminare nelle persecuzioni di eretici e streghe, tristemente famose.
La superstizione si basa su un principio molto chiaro di causa/effetto. Compiendo una determinata azione, otterrò un certo risultato. Oppure ancora, se mi si presenterà un certo segno, esso varrà come una precisa predizione degli eventi futuri. A volte, il rituale e il segno possiedono una relazione apparentemente logica o simbolica con l’effetto che si vuole ottenere o l’evento futuro predestinato, ma molto più spesso le due cose non paiono collegate in alcun modo e c’è da lambiccarsi il cervello per riuscire a capire come una superstizione simile sia nata e si sia radicata.
Per la Chiesa, la differenza tra fede e superstizione era netta. La prima prevedeva l’affidarsi completamente a Dio. Tutto è deciso da Lui, perciò è inutile e vano sia cercare di predire il futuro che trovare significati reconditi in ogni cosa che accade. Il vaticinio, come ogni genere di pratiche volte a scacciare malocchi o ingraziarsi le forze della natura, furono condannate fin dal principio, dapprima tacciando chi se ne macchiava di idolatria e stupidità, ma più avanti ritenendole vere e proprie azioni fuorvianti del Demonio.
Gran parte di ciò che veniva chiamato “superstitio” derivava dalle antiche religioni non ancora defunte, che riuscivano a sopravvivere attraverso riti e credenze che la Chiesa non riusciva a sradicare in alcun modo. L’autore ci porta l’esempio di molti santi la cui principale occupazione era girare per i territori in caccia di luoghi di culto pagani da radere al suolo, gente da riconvertire facendo loro aprire gli occhi sulla stupidità dei riti idolatri. Per concludere, un nuovo centro di culto (stavolta cristiano) veniva edificato sulle ceneri di quello vecchio.
Spesso questo non bastava a sradicare credenze troppo sentite, perciò la Chiesa trovò il sistema di sovrapporre a talune figure pagane, o festività troppo amate, dei corrispondenti che derivassero dalle ricorrenze religiose oppure dalle figure di santi, beati e personaggi evangelici le cui caratteristiche fossero simili alla divinità pagana da far dimenticare.
Questo atteggiamento di forte condanna e di lotta aggressiva al substrato delle superstizioni non fu una costante del Medioevo. Vi furono anche momenti di studio quasi antropologico di questo miscuglio di credenze pagane e non, una volontà di catalogarle e cercare di capirne le origini, la diffusione, il significato.
L’inurbamento creò a sua volta le proprie superstizioni, nate a causa della convivenza sociale di comunità sempre più grandi che avevano bisogno di sfogare in qualche modo le proprie paure, le frustrazioni. Furono i centri urbani, per esempio, a creare quei momenti di festa incontrollata (come il nostro Carnevale) in cui ogni ordine veniva sovvertito, con l’obiettivo non solo di sfogarsi ma anche di esorcizzare, in tal modo, le forze destabilizzanti del vivere sociale per tutto il resto dell’anno.
Nell’ambiente clericale, poi, ai detrattori si affiancavano prelati meno schizzinosi che non esitavano a praticare a loro volta particolari riti per fare scongiuri o divinazioni, usufruendo tra l’altro di un’autorità non da poco grazie alla veste ecclesiastica. Questi personaggi vennero sempre osteggiati e combattuti, rei di avvicinarsi fin troppo alle scienze occulte come l’alchimia. Con il tempo, il concetto di peccato come patto volontario col demonio portò a vedere ogni rito superstizioso come atto di stregoneria, con i risultati che ben conosciamo.
Un saggio conciso ma molto interessante su un aspetto fondamentale del pensiero cristiano medievale.

mercoledì 16 gennaio 2013

La leggenda del vento

Tra le opere immani di Stephen King, famoso anche per le dimensioni dei suoi romanzi, spicca senza ombra di dubbio la saga fantasy-western de La Torre Nera, scritta dall’autore americano nell’arco di una trentina d’anni e composta da ben sette romanzi.
La storia del pistolero Roland e della sua ricerca della Torre Nera, fulcro degli Universi, insieme al suo sgangherato gruppo di compagni raccolti nei punti di contatto tra i mondi, ha incantato e appassionato i lettori per molti anni, regalando grandi colpi di scena, avventura e molte lacrime. La saga ha avuto il suo corso e si è conclusa alcuni anni fa. Nessuno, a quanto pare nemmeno King, poteva immaginare che Roland non ci avesse ancora detto tutto.
In effetti, il viaggio del pistolero e del suo ka-tet è talmente lungo e vario che i buchi da riempire, volendo, sono tanti. King non sembra avere questo in mente nel mettersi a scrivere “La Leggenda del Vento”, ma il romanzo si colloca in un imprecisato momento di cammino tra il quarto e il quinto romanzo della saga. Si tratta di un piccolo imprevisto che costringerà i protagonisti a una sosta forzata, da riempire in qualche modo…magari con un racconto davanti al fuoco.
Comincia così, con l’arrivo di una micidiale tempesta di gelo chiamata starkblast, questa fiaba tripla, narrazioni contenute l’una nell’altra come matrioske.
Roland, infatti, racconta ai compagni di ventura un episodio della sua adolescenza, il quale racchiude a sua volta la narrazione di un’antica fiaba della sua terra, Gilead, che sua madre gli leggeva quand’era solo un bambino.
L’obiettivo dell’autore è quello di creare una storia che possieda una sua indipendenza dalle vicende della saga originale, in maniera da essere godibile anche da un lettore che non ne abbia mai letto una riga. Un traguardo nient’affatto facile da raggiungere, vista la complessità della storia di Roland e le molteplici caratteristiche fantastiche dei mondi che attraversa.
Per riuscirci, inizialmente King utilizza una prosa più scarna del suo solito, senza indulgere in spiegazioni, riassunti degli episodi precedenti, tratteggi psicologici dei personaggi. Ci catapulta in mezzo a Roland e ai suoi compagni offrendoceli a scatola chiusa, per quello che sono, con un occhio oggettivo che ricorda molto le pagine iniziali del primo romanzo. Non si cerca l’affezione, impossibile da ottenere con poche righe, ma solo di dipingere con poche pennellate il contesto da cui partirà la favola.
Proprio nell’iniziare il racconto di un Roland adolescente, il tono cambia e si fa più morbido, colloquiale, riportando alle reali atmosfere che caratterizzano la storia del pistolero. Il corpo centrale del romanzo, la fiaba che dà il titolo al tutto, è una chicca in cui King fa ciò che gli riesce meglio: confezionare un’avventura in cui speranze e paure dell’infanzia la fanno da padroni.
Roland racconta del suo viaggio a Debaria, nel tempo in cui era ancora un giovane pistolero, alla ricerca di un efferato assassino. Questi, purtroppo, non è un semplice uomo bensì uno skinman, un cambiaforma. Dopo l’ennesimo attacco sanguinoso, Roland prende in consegna il piccolo Bill, unico testimone rimasto in vita che potrebbe riconoscere la vera forma dell’assassino.
In attesa di veder sfilare i sospettati e per tenere Bill tranquillo, il giovane Roland gli racconta una favola che risale alla sua infanzia: la storia del piccolo Tim, un bambino coraggioso che vive ai margini della Foresta Infinita. Per salvare la propria madre dalla violenza del patrigno, Tim farà l’errore di fidarsi di un oscuro figuro venuto da Gilead e si inoltrerà nella Foresta a rischio della vita per incontrare il leggendario Maerlyn e ottenere da lui una cura per i danni alla vista subiti dalla madre. La fiaba è cruda, violenta, poco consolatoria, ma contiene quel grano di speranza di cui ogni bambino – e, di conseguenza, ogni adulto - ha bisogno. Sarà uno starkblast, una tempesta identica a quella che nel presente sta tenendo bloccati Roland e i suoi, ad offrire a Tim la possibilità di ottenere ciò di cui è in cerca. Il cerchio si chiude, le storie terminano una dietro l’altra e il cammino dei pistoleri riprende da dove si era interrotto.
Conoscendo bene la saga, non saprei affermare se King riesce nell’intento di offrire il romanzo anche a lettori ignari della Torre Nera. Per chi ha seguito con amore Roland e il suo ka-tet fino alla fine del viaggio, un dono gentile da leggere tutto d’un fiato.

mercoledì 9 gennaio 2013

Il decimo dono

La vita di Jane sta andando a rotoli. Dopo sette anni, la sua relazione illecita con Michael, marito della sua migliore amica, ha avuto bruscamente fine. Lui le ha dato il benservito, distruggendo ogni sua illusione, regalandole come dono d’addio un antico volumetto sull’arte del ricamo, di cui lei è appassionata.
Ad aiutare Jane a piangere tutte le sue lacrime, nonché a trovare di nuovo la forza di rimettersi in piedi e dedicarsi a qualcosa che non sia commiserarsi, ci pensa proprio il famigerato volumetto. La donna, infatti, scopre che al testo originale è sovrapposto il diario giornaliero di una fanciulla della Cornovaglia, Catherine Anne Tregenna, una ricamatrice dalle grandi ambizioni vissuta nel 1625.
La storia della ragazza, le sue frustrazioni per l’impossibilità di diventare qualcosa in più di una serva in casa di nobili e l’obbligo di sposare il cugino Rob, il progetto ambizioso di ricamare un paliotto d’altare disegnato da sé, portano Jane in un mondo che la aiuta a distrarsi. D’improvviso, sia il presente che il passato la sconvolgono nuovamente. Il marito di sua cugina Alison si suicida, costringendola a raggiungerla nella loro casetta in Cornovaglia. Il diario, poi, cambia improvvisamente rotta per passare al dramma avventuroso: Catherine, infatti, viene rapita insieme a parecchi concittadini da un gruppo di pirati della Barberia, spintisi fino alle coste inglesi per fare bottino.
Come se non bastasse, Michael si mette sulle sue tracce, in apparenza per riallacciare la relazione ma in realtà per sottrarle il volumetto. Il dono è stato un errore, uno scambio di testi, in quanto Michael si era accorto dell’antico diario ed è intenzionato a venderlo e ricavarci del denaro.
Jane, sempre più coinvolta dalle vicende di Catherine, decide di partire per il Marocco, ricalcando il viaggio disperato della ragazza per trovarne traccia laggiù. Scoprirà così, come già la fiera fanciulla diventata proprietà del rais Al Andalusi, una civiltà diversa, piena di sfaccettature ignote, e un uomo che saprà tirare fuori il meglio dal suo cuore, trasformandola in qualcuno di cui poter essere finalmente orgogliosa.
Questa, in breve, la trama del romanzo “Il decimo dono” di Jane Johnson, un intreccio di passato e presente, tra curiosità storiche riguardo alla lotta tra i regni della cristianità e la pirateria musulmana del XVII secolo, nozioni sull’arte del ricamo, magici paesaggi della Cornovaglia e misteri del Marocco. Nel suo costante andare e venire nel tempo, la storia si dipana con una coerenza rassicurante e azzeccata, in un costante parallelismo tra le vicende sfortunate di Jane e le letture dal diario di Catherine prima e dalle lettere del cugino Rob partito alla sua ricerca poi.
Pur con il palesarsi della doppia storia d’amore in terra musulmana (tra Catherine e il suo rapitore, l’affascinante e colto Al Andalusi, come tra Jane e la sua guida locale Idris), la trama non scade quasi mai nella banalità, riuscendo a tenere teso il filo dell’attenzione per almeno tre quarti della lettura. La tensione perde un po’ di mordente, purtroppo, sul finire, come se l’autrice fosse stata costretta a comprimere quest’ultima parte per rimanere entro un certo numero di pagine. Dictat dell’editore o sindrome da “fretta di finire”? Nonostante ciò, il giudizio complessivo dell’opera rimane positivo.
Pur contenendo tematiche più care al mondo femminile che a quello maschile, il romanzo è comunque godibile da un pubblico eterogeneo grazie al clima avventuroso della vicenda, agli splendidi luoghi che fanno da sfondo alle due storie e, soprattutto, all’accuratezza con cui vengono illustrate vicende storiche per noi piuttosto oscure.
Mentre, infatti, non avrebbe suscitato alcuno sgomento un attacco di pirati turchi sulle coste del Mediterraneo, potrà risultare nuovo a molti sapere che i corsari di Salè si spingevano tanto a nord ed erano diventati così aggressivi e spregiudicati da attaccare non solo i navigli che avevano la sfortuna di incrociare la loro rotta, ma perfino i villaggi sulla costa.
Lo scontro tra le due grandi religioni monoteiste, infine, viene dipinto senza pregiudizi o campanilismi, pur se con un occhio di riguardo per la cultura musulmana che in questo caso rappresenta il cambiamento, il fascino di ciò che non si conosce.
Una lettura consigliata a chi apprezza il connubio tra avventura e storia d’amore.

giovedì 3 gennaio 2013

Storia Universale del Costume

La Storia del Costume, vale a dire l’evoluzione dei capi d’abbigliamento, gli accessori, l’acconciatura e il make-up dai primordi della società umana ai giorni nostri, è una materia ampia e complessa che sarebbe errato sottovalutare, reputandola d’interesse esclusivo per chi oggi si occupa di moda. Essa, infatti, non solo richiede una conoscenza storica e antropologica notevole, ma offre una miniera di informazioni anche per chi lavora nel teatro, in televisione o, più in generale, si occupa d’arte e di ricerca storica.
L’analisi dell’abbigliamento fornisce informazioni sul clima, sulle abitudini, sulle preferenze estetiche che via via si sono radicate nel gusto per poi svanire ed essere sostituite. Racconta anche la situazione economica e politica, la differenza più o meno marcata tra le classi sociali. Evidenzia, infine, tipo e qualità delle materie prime utilizzate per confezionarli, mettendo in luce i progressi tecnici, i rapporti commerciali, i trucchi del mestiere, abilità che spesso con il tempo e l’industrializzazione si sono perdute.
Questa storia “parallela” dell’umanità non ha grande seguito nel nostro Paese, limitandosi ad essere insegnata nei corsi complementari in talune facoltà universitarie. Ne consegue che trovare testi adeguati ed esaustivi nella nostra lingua è impresa ardua (per trovare manuali completi bisogna rivolgersi alle pubblicazioni in lingua inglese, con l’ovvio ostacolo della lingua straniera).
E’ presente in commercio, però, un gigantesco volume che merita non solo l’attenzione di chi è interessato alla materia, ma anche l’investimento dei non pochi euro richiesti per l’acquisto. Ringraziando le Muse, la qui presente ha potuto usufruire di uno sconto galattico grazie alla sovracoperta strappata, ma dopo una singola occhiata al contenuto ho compreso che avrei sganciato tutti i soldi sull’unghia anche se fossi stata costretta a comprarlo a prezzo pieno.
“Storia Universale del Costume ” di Patricia Rieff Anawalt, infatti, racchiude non tanto la Storia del Costume in sé, alla quale viene dato comunque un certo spazio, ma una panoramica straordinaria delle abitudini d’abbigliamento di tutto il mondo. Una pecca delle analisi storiche, infatti, è che esse di norma si concentrano prevalentemente sul Costume occidentale. Aprendo le pagine di questo volume, invece, si inizia un viaggio straordinario intorno al mondo.
L’autrice, un’antropologa con il dono di una scrittura scorrevole e di piacevole lettura, ha suddiviso il testo in capitoli “regionali”, in maniera da analizzare con cura ogni popolo e i suoi costumi. Partendo dal Medio Oriente e dall’Egitto, che sono stati culla delle prime civiltà, il viaggio prosegue attraverso tutti i continenti, andando a ricercare dapprima le nozioni storiche essenziali a comprendere come si è evoluta la regione, la sua organizzazione sociale e quali influenze hanno permeato il suo gusto, e quindi i capi d’abbigliamento tradizionali, fotografati pezzo per pezzo oppure mostrati indosso ai nativi.
Spesso, disegni atti a mostrare il corretto modo di indossare le vesti corredano il testo. Ogni foto è accompagnata da una didascalia esaustiva circa i materiali, le dimensioni e, quando possibile, l’anno di fabbricazione del capo d’abbigliamento.
Vengono così alla luce stili e materiali del tutto sconosciuti alla nostra cultura, curiosità tribali conservate con ammirevole dedizione da piccole realtà etniche che, nonostante il dilagare della società industriale e dello stile occidentale, cercano per quanto possibile di tramandare alle nuove generazioni le proprie tradizioni. A questo si affiancano nozioni sulle tecniche di tessitura, sia per ciò che riguarda le materie prime e le tecniche di filatura e ricamo, che per le procedure di tintura e i materiali, a volte curiosi o perfino disgustosi, che vengono utilizzati per colorare i tessuti.
Ogni grande capitolo è suddiviso in paragrafi dedicati alle singole etnie. Per ognuna di esse viene fornita una notevole quantità di informazioni altrimenti difficilmente reperibili. Cartine geografiche a complemento del testo circoscrivono con precisione i territori presi in esame. La stampa perfetta e nitida su carta lucida, il grosso formato e la rilegatura con copertina rigida lo rendono una pubblicazione di pregio.
Lungi dall’essere una carrellata di fotografie, il tomo (edito da Mondadori) contiene una miniera di informazioni da leggere con cura, creando un azzeccato connubio tra volume d’arte e saggio antropologico.