mercoledì 27 febbraio 2013

La tomba (e altri racconti dell'Incubo)

Se c’è un autore del fantastico su cui è probabile far nascere una discussione tra appassionati e detrattori, questi è senza dubbio Howard Phillips Lovecraft, scrittore americano vissuto a cavallo tra la fine del diciannovesimo secolo e i burrascosi decenni iniziali del ventesimo (1890-1937).
Gran parte delle caratteristiche che lo rendono inconfondibile e unico sono le stesse che vengono citate per criticarlo. Per prima cosa, Lovecraft non è facilmente catalogabile in una “casella” editoriale. Se ciò non era molto importante per coloro che vennero prima di lui, nel ventesimo secolo questa abitudine si andava radicando e ha causato fraintendimenti sull’opera di molti autori. Ricordiamo, ad esempio, Ray Bradbury: incasellato come autore di fantascienza, fu in realtà un poliedrico esploratore di ogni genere di sogno e incubo.
Lovecraft spaziava a sua volta in ogni campo della fantasia, mettendo in parola ciò che la sua mente creava senza curarsi che si trattasse di horror, mistery, fantascienza, mito…Scriveva spesso per altri, rimaneggiando storie che poi nemmeno firmava, lasciandone i diritti a chi aveva avuto l’idea ma non la capacità di renderla interessante. I suoi racconti sono molto vari, pur con talune caratteristiche che li uniscono come perle di una singola, lunghissima collana, e costituiscono la sua cifra stilistica.
L’infanzia dell’autore influì moltissimo sulle tematiche che affrontò da adulto. Il giovane Lovecraft, privato del padre rinchiuso in un manicomio, crebbe in un ambiente familiare opprimente, psicologicamente plagiato dalla madre, circondato solo da nonni e zii. I suoi migliori amici furono i libri, che lo portarono ad appassionarsi alla cultura classica e poi alla scienza, entrambi argomenti di primaria importanza nella sua produzione letteraria.
Lovecraft imparò ad imitare il linguaggio antiquato dei libri che leggeva e la caratteristica gli rimase impressa. I suoi scritti, infatti, sono composti con uno stile a volte verboso, prolisso, che ai contemporanei non piaceva e che anche oggi induce il lettore a pensare di trovarsi di fronte un racconto più antico del ventesimo secolo. I termini utilizzati (ovviamente in lingua inglese, la traduzione ci fa perdere la possibilità di accorgerci di questa particolarità) venivano spesso ricercati tra quelli derivati dal latino piuttosto che dal patrimonio anglosassone.
Lovecraft creò veri e propri pantheon di mostruose divinità, dimoranti in piani dimensionali solo a un passo di distanza dalla quotidianità, pronti a farci sprofondare nell’orrore. I suoi protagonisti quasi sempre non sono in grado di comunicarci chiaramente le mostruosità a cui assistono o di cui sono fatti oggetto; l’autore si rifugia spesso nell’escamotage dello svenimento del protagonista proprio sul più bello oppure sulla fuga disperata che annichilisce i sensi finché non si è in salvo. C’è una volontà precisa di scansare la descrizione grafica della paura per rifugiarsi nel caos emozionale, nel terrore puro.
Lovecraft scrisse un numero non indifferente di racconti, che la Newton Compton ha raccolto in tre volumi, cercando di separare le storie in filoni fondamentali.
Quello che vi vado a presentare è “La Tomba”, che raccoglie i cosiddetti “racconti dell’incubo”. Ogni racconto è accompagnato da una nota iniziale che fornisce aneddoti sulla sua stesura oppure appunti dello stesso autore al riguardo, iniziativa interessante per comprendere meglio il modo di lavorare di Lovecraft.
Fin dalla prima pagina, si viene trascinati in visioni a volte distorte e confuse, ma sempre capaci di toccare la corda dell’orrore che si nasconde dentro di noi. Senza descrivere l’apparenza visiva del terrore, Lovecraft fa leva su ciò che non viene detto, sull’immaginazione, che sa essere molto più micidiale di un mostro tangibile e circoscritto dalla percezione sensoriale comune.
Le ambientazioni cambiano molto da un racconto all’altro. Si passa dai laboratori delle accademie mediche, infettate da esperimenti malati, alle miniere del West sotto cui si celano antichissimi orrori; dalle modernissime città, trappole nei cui meandri il Male si insedia ancora più comodamente del solito, a psicologie malate che conducono ad amare la Morte di una passione morbosa.
Il mondo si distorce, si sfalda ai bordi e lascia che i vapori di luoghi “al di là” penetrino e ci diano una visione delle miriadi di possibilità che si celano oltre il visibile, tutte desiderose di attentare alle nostre vite…e probabilmente non solo a quelle.
Gustatevi queste pillole di oscurità e, se incontrano il vostro gusto, affrettatevi a comprare anche gli altri due volumi!

mercoledì 20 febbraio 2013

1000 idee per creare

Oggi vi parlo di un manuale di arti decorative adatte a chiunque vi si voglia cimentare, una panoramica divertente e stimolante sulla creatività “casalinga”, da portare avanti nel tempo libero secondo il proprio gusto e le possibilità economiche.
Avrete notato tutti come negli ultimi anni abbia preso piede l’hobby del “decoupage”, vale a dire la decorazione di oggetti in vetro o materiali vari con disegni su carta e vernici particolari. I mercatini ormai abbondano di bancarelle che vendono questi oggetti fatti in casa, che da passatempo si possono trasformare in una piccola occasione di commercio. Un'altra branca creativa che ha molto successo è la creazione di gioielli originali, o con perline di varie fogge e dimensioni oppure con paste modellabili e colorate che poi vanno cotte in forno.
Questi sono solo due esempi di ciò che viene illustrato e proposto nel coloratissimo tomo “1000 idee per creare”, edito dalla Giunti e scritto da vari specialisti di decorazione.
Il manuale è diviso in capitoli che illustrano di volta in volta tecniche differenti, presentando poi numerosi progetti come esempio e occasione d’esercizio. Ogni progetto è ampiamente documentato con fotografie a colori, spiegato passo passo in ogni fase della realizzazione e corredato da un preciso elenco dei materiali utilizzati, proprio come in una ricetta da cucina.
Si comincia con il “decoupage” classico, che si mette in atto con la carta apposita oppure con i veli stampati dei normalissimi tovaglioli di carta. Viene spiegato come rendere tridimensionali i disegni grazie alla pasta modellabile o con l’ausilio di lamine metalliche e colla a caldo. Si passa poi a illustrare gli effetti che si possono ottenere con determinate vernici: screpolatura, doratura e un interessante effetto metallico realizzato con pigmenti chiamati porporine.
Dopo una parentesi sulla decorazione con l’utilizzo di malte (con progetti molto carenti in quanto ad appeal) o di pannelli pre-stampati chiamati “tiling”, inizia il lungo capitolo sui gioielli, ricchissimo di graziosi esempi da copiare.
Un capitolo interessante è quello sulla lavorazione del feltro, non molto ricco di esempi ma più chiaro di altri per quanto concerne l’utilizzo delle materie prime e il procedimento di realizzazione del tessuto colorato. Idee simpatiche e spiccatamente femminili sono presenti nei capitoli dedicati alle bomboniere, alla realizzazione di album di foto e notes (scrapbooking), e in quello dedicato ai pupazzetti.
Si passa alla decorazione artistica vera e propria con i capitoli dedicati alla pittura a pennello su materiali vari, al rinnovo e decorazione di vecchi mobili e alla tecnica con vernici semitrasparenti su vetro, tra le idee più azzeccate proposte nel manuale.
Si chiude, infine, con alcuni progetti pensati per divertire i bambini, non tutti oggettivamente gradevoli.
Il difetto principale del manuale è l’assenza di una presentazione ragionata dei materiali. Per quanto essi siano elencati con precisione all’inizio di ogni progetto (tanto da inserire perfino il numero di serie dei colori utilizzati) e venga spiegato come usarli durante la messa in atto, molte cose possono rimanere poco chiare a chi non conosce i prodotti in commercio, a chi vuole capire come orientarsi tra le marche produttrici e non sa a quali rivenditori rivolgersi. Sarebbe stata auspicabile la presenza di un elenco chiaro ed esaustivo, con fotografie dei prodotti così come si presentano in commercio, corredato da un sunto delle tecniche di utilizzo.
Inoltre, pur se specificato all’inizio del manuale, è piuttosto irritante il fatto che vengano presentati solo prodotti di determinate marche, cosa che limita il campo d’acquisto a chi non conosce alternative e non ci dà alcuna certezza né sulla qualità dei prodotti né sul loro valore economico rispetto a materiali simili ma di altre case produttrici.
Consiglio quindi, se si desidera iniziare a mettere in cantiere qualche progetto, di chiedere prima lumi nel proprio colorificio di fiducia o di fare una ricerca su internet per farsi un’idea più chiara sulle possibilità di risparmio e sui prodotti in commercio.
Il testo rimane comunque una fonte di idee divertenti e di sicura soddisfazione pratica, buon compagno di chi vuole allenare la propria creatività.

mercoledì 13 febbraio 2013

Venuto al mondo


Il romanzo di Margaret Mazzantini, che fa mostra di sé in tutte le librerie ed è edito da Mondadori, in questo momento è alla ribalta per la trasposizione cinematografica attuata da Sergio Castellitto. La copertina stessa ne è un rimando immediato, in quanto vi sono raffigurati i due attori protagonisti.
La storia si avvolge attorno a due tematiche principali: il miracolo della maternità, che può rivelarsi facilmente una dannazione, e la facilità con cui l’esistenza sa scivolare nel caos, esemplificata dal sanguinoso episodio della guerra in Bosnia, scoppiata all’inizio degli anni ’90.
L’autrice ci fa vedere il mondo attraverso gli occhi della protagonista, Gemma, una donna di cinquant’anni sposata con un ufficiale dei Carabinieri e con un figlio di sedici anni, Pietro, ultima traccia di un amore che le ha segnato l’esistenza. La vita, in qualche modo placida e monotona, disturbata solo dalle prime ribellioni adolescenziali del ragazzo, viene sconvolta alla radice da una telefonata che arriva da Sarajevo.
All’altro capo del telefono c’è Gojko, il vecchio amico, il poeta matto e amaro, ma in realtà c’è il suo passato. Ci sono dolori mai sopiti, un amore che le ha scavato ferite nella carne e nell’anima, ricordi di un eccidio senza senso e di morti che sanno corrodere la capacità di provare emozioni fino a non lasciarne traccia.
Gemma ha paura, ma non può resistere al richiamo. Parte per Sarajevo, la città del suo destino, trascinandosi dietro un recalcitrante Pietro. Lo scopo apparente è vedere una mostra di fotografie di Diego, padre di Pietro, morto in terra straniera durante il suo lavoro di corrispondente di guerra. Quello vero è rivivere la propria tragedia e tentare di far entrare nel cuore di quel ragazzo una qualche immagine del padre mai conosciuto.
Sarajevo le restituirà il suo passato, offrendole alla fine anche alcune risposte che non avrebbe mai immaginato la attendessero.
Il linguaggio della Mazzantini è materico, ha sapore e odore nonostante utilizzi la prima persona e sia quindi naturale trovare ampi paragrafi di pensieri, riflessioni. Si comprende subito che le scelte linguistiche sono state fatte con coscienza, in una ricerca quasi parossistica del termine giusta, delle associazioni tra immagine e parola. Un linguaggio che ha una sua poesia e come tale spesso colpisce prima il sentire più nascosto, palesando il proprio significato alla mente solo in seguito.
Nonostante questo lavoro cerebrale, che se mal diretto e utilizzato avrebbe avuto lo sgradevole sapore dell’esercizio di stile fine a se stesso, nel romanzo è presente anche molto cuore. Cuore e sangue. Ce n’è tanto da farci il bagno, ci si compenetra completamente nella condizione perduta, viscerale, disperata in cui crollano via via i personaggi, nel lungo riandare della memoria.
La capacità di mettere al mondo dei figli assume un’importanza capitale nell’esistenza di una donna, ossessione che è follia lucida, ragionata, quasi scientifica. Quando la maternità viene negata dalle menomazioni del proprio corpo, la mente si riempie d’odio, le relazioni d’amore si tingono di egoismo, ripicche. Un gesto d’amore diventa opaca determinazione di ottenere ciò che non si ha, ciò che si invidia con anima nera della felicità altrui.
Gemma arriverà a fare qualunque cosa, a perdere ogni rispetto per se stessa, ogni pudore o freno pur di ottenere quel bambino che agogna, anche se sa che non sarà l’immagine dell’amore tra lei e Diego, anche se significherà rubare e mercanteggiare sulla vita come se fosse una merce.
Il suo delirio finisce per essere preso a schiaffi dall’orrore che le capita attorno, da quella Sarajevo violata in cui la gente muore sotto il tiro dei cecchini, in cui la città esplode perdendo il proprio volto, il pane si imbeve di sangue. Violenza insensata sotto gli occhi di un’Europa che fatica a intervenire, a forze di pace che non hanno grande potere di intervento e sono costrette a lasciare il Paese alla devastazione sistematica di un odio che mette tutti contro tutti.
Pietro, figlio di quella guerra, figlio di un amore che si è preso a morsi, vaga per Sarajevo senza immaginare che tutto ciò su cui posa distrattamente gli occhi racconta la sua storia, quella di sua madre e quella di quel fotografo dal cuore bambino che non è più tornato a casa.
Una lettura intensa, che a tratti sa far male.

mercoledì 6 febbraio 2013

Tutti i lazzi della Commedia dell'Arte

Un genere che ha fatto Storia nel Teatro italiano è sicuramente la Commedia dell’Arte, il teatro di Maschera basato sull’improvvisazione a partire da un canovaccio – una trama priva di battute da imparare a memoria- e da alcune tipologie ben definite di personaggi, le Maschere.
Arlecchino, Pantalone, il Dottore, Colombina, Brighella…Questi nomi, che oggi associamo al Carnevale, hanno un’origine ben più complessa e sono personaggi teatrali con tutti i crismi, che per secoli hanno fatto ridere e appassionare gli spettatori di tutta Europa. Ogni Maschera incarnava un carattere, un difetto, e apparteneva a una ben definita classe sociale.
Pantalone, ad esempio, era un uomo maturo o anziano, spesso lascivo, sicuramente avaro. Arlecchino era il servo per antonomasia, tutto istinto e astuzia da bambino un po’ crudele, incarnazione degli istinti bassi e delle passioni. Colombina a volte era la figlia di uno degli anziani, ma quasi sempre incarnava la servetta seducente e dispettosa. C’erano poi gli Innamorati, il Capitano, Pulcinella, e via discorrendo. Le Maschere potevano portare altri nomi (Arlecchino era anche Zanni, Truffaldino, Burattino, ecc.), ma il pubblico le riconosceva all’istante proprio grazie alla ben codificata rappresentazione dei “tipi”.
Quello che pochi sanno è che il lavoro di improvvisazione degli attori impegnati nella Commedia dell’Arte non era poi così affidato al caso e al talento del singolo (che rivestiva comunque una parte importantissima nella buona riuscita della commedia). Le trame dei canovacci venivano messe in scena sfruttando un repertorio ben conosciuto e continuamente arricchito di “lazzi”, vale a dire azioni sceniche codificate che creavano siparietti comici oppure aiutavano lo svolgersi della vicenda. Questo modo di fare teatro verrà poi codificato in copioni definiti battuta per battuta da Carlo Goldoni nel XVIII secolo, nel tentativo di far risorgere la Commedia dell’Arte dall’abisso in cui era sprofondata.
La parola “lazzo” pare derivi da “l’azio”, cioè “l’azione”. Difatti si tratta di azioni fisiche, di confronto tra attori. La conoscenza di questo patrimonio teatrale è caduta nell’oblio per molto tempo e il Teatro di Maschera è tornato allo splendore solo nel secolo scorso, grazie a grandi personalità come Giorgio Strehler e Dario Fo.
La Dino Audino Editore fa cosa gradita a tutti gli appassionati e a coloro che fanno teatro pubblicando l’esaustivo catalogo di lazzi redatto da Nicoletta Capozza, “Tutti i lazzi della Commedia dell’Arte”.
L’autrice, resasi conto della mancanza di materiale documentario completo sull’argomento, si è data pena di raccogliere tutte le testimonianze conosciute sui lazzi all’interno di questo volume, estrapolandole anche dagli appunti scritti di proprio pugno da alcuni attori storici della Commedia dell’Arte, tra cui quel Biancolelli che fu un grande Arlecchino nella Francia del XVII secolo.
I lazzi sono suddivisi per argomento, numerati in modo da poter essere facilmente ritrovati nel caso si decida di prendere appunti. Per ogni lazzo viene fornita sia la traduzione in un italiano corrente, sia la versione originale, in italiano antiquato oppure in francese. La lettura è istruttiva ma anche divertente. Molti lazzi sono tanto attuali da esistere ancora nel varietà e nelle commedie moderne, pur sotto altre forme. I meccanismi della risata rimangono più o meno gli stessi e ci si ritrova spesso a sorridere nel leggere la descrizione delle azioni in scena. E’ da notare quanto fosse importante il lato acrobatico in talune Maschere, che dovevano essere capaci di capriole, salti, cadute e contorsioni del corpo che richiedevano evidentemente anni e anni di lavoro e allenamento.
Il difetto principale del saggio è la quantità non indifferente di errori di traduzione, anche dall’italiano. Spesso, infatti, la traduttrice fa confusione e sbaglia i nomi delle Maschere, oppure interpreta in maniera errata l’azione scenica. E’ dunque necessario avere la pazienza di leggere anche il documento originale, se si vuole essere certi di aver capito bene lo svolgersi del lazzo.
Inoltre, spesso i lazzi vengono ripetuti più volte all’interno del saggio. La cosa deriva dal fatto che alcuni di essi possono a ragione essere catalogati sotto diverse voci (per esempio, un lazzo notturno che è anche un lazzo delle scale o amoroso), ma è piuttosto seccante trovarsi a rileggere le stesse cose, accorgendosene magari a metà del testo. Sarebbe stato forse meno scomodo segnalare direttamente la doppia o tripla appartenenza alla prima apparizione.
In generale, comunque, un fondamentale strumento di studio e fonte di preziose informazioni pratiche per chi si accosta al Teatro di Maschera.