venerdì 31 maggio 2013

La Bibbia del Diavolo

La sete di conoscenza è uno dei tratti distintivi della mente umana. Per ottenere la Conoscenza e il potere che ne deriva, gli uomini hanno sorpassato i propri limiti, hanno scatenato guerre e messo in discussione religioni. Adamo ed Eva, nella tradizione veterotestamentaria, sono stati cacciati dal Paradiso Terrestre per aver assaggiato indebitamente dall’Albero della Conoscenza.
Esiste (nella realtà, non solo nella finzione letteraria) un testo misterioso e affascinante chiamato Codex Gigas. Esso è un manoscritto illustrato di immani dimensioni, redatto nelle vicinanze di Praga da un monaco penitente (probabilmente attraverso venti e più anni di lavoro), entrato nella multiforme collezione dell’imperatore alchimista di Praga, Rodolfo II d’Asburgo, e passato successivamente nella mani degli svedesi durante la Guerra dei Trent’Anni.
Il testo si poneva l’ambizioso, quasi eretico proposito di racchiudere in un singolo testo l’intero scibile della conoscenza umana ed è famoso per una peculiare illustrazione del demonio, accompagnata da alcune pagine scurite in maniera misteriosa, cosa che ha dato origine al nomignolo “Bibbia del Diavolo”.
E’ da questa curiosità storico-artistica e dal desiderio di narrare un periodo ben definito dell’Impero Asburgico che nasce “La Bibbia del Diavolo” di Richard Dübell, edito in Italia da Piemme, a metà tra il romanzo storico e il mistery esoterico. L’autore confessa che, in origine, il suo scopo era narrare del controverso sovrano che fece di Praga la capitale della magia, dell’alchimia e dell’astrologia, passando alla Storia come un collezionista maniacale (celeberrima la sua Wunderkammer, le cui meraviglie sono ormai sparse un po’ in tutta Europa) e un pessimo governante. Si è trovato, alla fine, a contare maggiormente sui personaggi nati dalla sua fantasia, i quali però si muovono in un mondo realmente esistito, a fianco di personaggi di indubbia valenza storica, politica e religiosa.
La Bibbia del Diavolo, scritta da un monaco penitente che ha stipulato un patto col demonio, è un terribile concentrato di conoscenza volta al Male. Esiste un Ordine di monaci il cui compito è custodirla e nasconderla a chiunque, anche in seno alla Chiesa stessa. I giovani Agnes, Cyprian e Andrej, ognuno per propri motivi, vengono coinvolti nella lotta sanguinosa per il possesso di questo codice, trovandosi infine a combattere insieme per la propria vita e affinché esso non cada nelle mani delle anime traviate che lo stanno cercando per utilizzarne l’infinito potere.
La prosa di Richard Dübell è estremamente piacevole, immediata, senza né fronzoli né tentativi di educare il lettore offrendogli dettagli storici a mucchi, bensì inserendo una panoramica della situazione sociale e territoriale legata al progredire della trama, che rimane centrale e mai messa da parte a favore di lunghe descrizioni. Questo porta a conoscere l’Impero e il clima della Controriforma in modo progressivo, mai invadente, come se si narrasse di un qualunque mondo fantastico da scoprire poco a poco e non di un periodo storico da insegnare come se si fosse a scuola.
I dialoghi sono molto spontanei, vivaci, decisamente moderni, senza alcun tentativo di renderli più ricercati o arzigogolati nell’illusione di offrire in tal modo la sensazione di trovarsi in un passato lontano. Questo permette un’affezione immediata ai personaggi, senza alcuna barriera dovuta alla lontananza temporale e culturale.
Una particolarità di Dübell è nel suo suggerire più volte gli avvenimenti, invece di raccontarci ogni singolo istante. Spesso la vicenda si dipana per episodi, con parentesi di silenzio su ciò che è accaduto nel frattempo; di questi avvenimenti non narrati si ha notizia tramite accenni successivi. Questo modo di raccontare può non essere gradito a chi è abituato a seguire una narrazione lineare e dettagliata, ma possiede un suo fascino (pare di seguire un testo teatrale, che ovviamente pone l’attenzione solo sui fatti salienti della vicenda, o i frammenti di un sogno). Anche l’ormai abusato tema delle oscure trame di alcuni rami della Chiesa Cattolica non risulta troppo fastidioso né eccessivamente stereotipato.
Un bel connubio di Storia e Mistero, una boccata d’ossigeno tra i tanti romanzi dello stesso genere che hanno fatto “flop”.

venerdì 24 maggio 2013

Il mistero dell'ermellino

Oggi vi parlo del romanzo di una mia concittadina, Giuse Iannello, una storia che unisce il mistero storico a quello – forse più prosaico, ma sempre attuale – del funzionamento del cuore femminile. “Il mistero dell’Ermellino”, edito da Albatros, narra la storia di Marisa, una donna arrivata alla soglia dei cinquant’anni e invitata ad una cena di coscritti, organizzata all’interno della Cavallerizza del castello di Vigevano. Qui, tra volti noti che non vedeva da tempo, slideshow di vecchie fotografie e pettegolezzi altrui, il suo passato la riassale, portandola agli eventi che hanno segnato la sua giovinezza e, a conti fatti, tutta la sua vita.
Marisa ricorda il primo, vero amore per Marco, un giovane musicista da cui viene lasciata in favore di un’altra donna, una relazione in cui lei aveva posto tutte le sue speranze e che l’ha marchiata per sempre con un senso indefinito di insoddisfazione. Anche la sua passione per la scrittura viene incanalata solo in parte nella direzione desiderata, quando accetta di lavorare per il signor Bardogli, appassionato di Storia, nell’antico edificio conventuale in Corso Milano.
Proprio in quel luogo, la sua vita cambia…o, quantomeno, si trova a un punto di svolta. E’ lì che conosce Mauro, un uomo che farà di tutto per trovare un posto nel cuore di lei. E’ lì che comincia a farsi domande su se stessa, su coloro che la circondano e sui limiti che lei stessa si pone nel rapportarsi agli altri. Proprio nel convento, infine, verranno ritrovate alcune pergamene risalenti al Rinascimento, vergate da un frate domenicano che narra della propria missione volta a recuperare il corpo del defunto Ludovico il Moro, la cui sepoltura rimane ancora oggi sconosciuta. Questo ritrovamento la coinvolgerà in un’indagine densa di mistero, che chiederà una scelta a suo modo coraggiosa.
Grazie a questo percorso della memoria, la Marisa del presente riesce finalmente a giungere alla risposta che tanto ha cercato. Ma non sarà troppo tardi?
La prosa di Giuse Iannello è fresca, molto scorrevole, caratterizzata dalla capacità di descrivere in maniera “pittorica”, consentendo cioè al lettore di visualizzare con vivida nitidezza quanto descritto senza trovarsi oberati di dettagli. La storia si dipana attraverso le portate di una cena; ogni episodio, quindi, è preceduto dall’arrivo di una pietanza, descritta in modo tale da esaltarne sia l’aspetto estetico che quello papillare, palesando l’intenzione di sottolineare l’importanza del cibo a livello sia sensoriale che sociale, come momento di aggregazione. Grazie a entrambe le sollecitazioni, infatti, Marisa affonda nei propri ricordi e ne pesca le risposte giuste.
Il romanzo è molto sensoriale, con un’insistenza non spiacevole su sapori, suoni, odori e colori. D’altra parte, l’autrice si dedica anche alla produzione artistica, e questo probabilmente ha contagiato il suo stile letterario.
La pecca sta nei dialoghi, che di quando in quando tendono a diventare forzati, didascalici. La necessità di fornire molti dettagli storici al lettore ha generato frasi eccessivamente prolisse e formali, con un uso del linguaggio adatto più al testo scritto che alla conversazione.
L’ambientazione, come già detto, è Vigevano, città un tempo di fervente attività e ora chiusa nella propria sonnolenza, caratterizzata però da un passato storico rilevante. Essa è stata dimora di pregio dei Visconti e degli Sforza, che vi hanno tenuto corte in quello che è ancora oggi uno dei più grandi castelli d’Europa. Giuse Iannello fa omaggio alla propria città e al suo coinvolgimento nei grandi fatti della storia, parlando di situazioni e luoghi cari a ogni vigevanese; crea un’atmosfera di “casa” che ammorbidisce il romanzo e gli dona un che di caldo, di accogliente, anche per chi non conosce i luoghi della narrazione.
Altro tema portante è la valenza del ricordo, che si trasforma facilmente in trappola se vi rimaniamo morbosamente attaccati. Il passare del tempo distorce le cose e porta all’idealizzazione di ciò che si è perso, impedendoci di vivere un’esistenza completa. Marisa dovrà fare i conti proprio con questo fossilizzarsi dell’anima e trovare il coraggio di guardare avanti, portando con sé le proprie esperienze senza rimanere a fissarle, impietriti e nostalgici, per il resto della vita.
Una gradevole variazione sul tema del mistero storico. Rimaniamo in attesa di una seconda opera.

sabato 18 maggio 2013

Il fantasma di Canterville

Oscar Wilde è un autore che difficilmente può risultare ignoto, anche a chi non legge o non frequenta il teatro. La sua fama, il suo passato di dandy e fine esteta con il dono di giocare con le parole, ha superato i secoli e le barriere fra chi fruisce dell’arte (qualunque essa sia) e chi no. Il suo nome, nonostante l’infamia della galera che la Gran Bretagna gli riservò, è giunto fino a noi avvolto da quell’aura di frizzante irriverenza che ne fa un personaggio intramontabile.
Parlando di letteratura, di Wilde sono molto conosciute le sue commedie teatrali (“L’importanza di chiamarsi Ernesto”, o Onesto in talune traduzioni) create grazie ad arguti dialoghi e personaggi nati per schernire il bel mondo nel quale lo stesso Wilde era tanto ben inserito, oppure il suo unico romanzo, quel capolavoro de “Il ritratto di Dorian Gray”, incentrato sulla figura di un giovane bellissimo che si tuffa nella depravazione dello spirito, certo di uscirne indenne grazie all’incantesimo che lo lega al proprio ritratto.
L’autore irlandese, però, fu anche poeta e narratore di fiabe, nonché scrittore di racconti, forse influenzato dalla produzione letteraria della madre, convinta sostenitrice del recupero delle tradizioni mitologiche e favolistiche d’Irlanda. La raccolta pubblicata in questa edizione di Giunti contiene quattro storie brevi. In Italia, essa prende il nome da “Il fantasma di Canterville”, forse una delle più conosciute storie di spettri del nostro secolo, mentre in patria porta il titolo del primo racconto della raccolta.
Si comincia con “Il delitto di Lord Arthur Savile”, pungente satira sul deviato senso di responsabilità dei giovanotti di buona società nella Londra del tempo. Arthur sta per sposare Sybil e vive senza tanti pensieri, baciato dalla fortuna. Tutto cambia quando, a un ricevimento, il cartomante della padrona di casa gli legge il futuro sulle linee della mano. Arthur, infatti, è destinato a commettere un omicidio. Disperato, il giovane prende una ferrea risoluzione: se al destino non si può sfuggire, meglio sbarazzarsi subito di questa seccatura e solo dopo, una volta liberatosi di questa Spada di Damocle, sposare la sua dolce promessa. Iniziano così assurdi e goffi tentativi per uccidere conoscenti e parenti vari, nel vano tentativo di affrettare il destino e coronare il proprio sogno d’amore.
Wilde ci lascia a bocca aperta per l’innocente fervore del giovane Arthur, del tutto estraneo ai sensi di colpa per l’omicidio e preoccupato solo all’idea di creare futuri fastidi alla fidanzata. Coronare il suo sogno d’amore con l’omicidio sembra un dovere da compiere – paradossalmente – per dimostrare di essere un uomo d’onore e di parola. L’ipotesi di sforzarsi di cambiare il destino non sfiora nemmeno la mente di Arthur, in un paradosso divertente e sconcertante allo stesso tempo.
Segue “La Sfinge senza segreti”, una storia d’amore basata su un mistero senza soluzione. L’incontro casuale di due vecchi amici sarà l’occasione per il racconto di un amore sfortunato verso una giovane donna dalle abitudini misteriose, che prima irretiscono e poi frustrano l’amante, fino ad una tragica conclusione.
Il terzo racconto è la colonna portante della raccolta, vale a dire “Il fantasma di Canterville”, satira bruciante sulla differenza di modi e pensiero tra americani e inglesi, dileggio irriverente delle storie di fantasmi tanto in voga all’epoca e al contempo profondo, commovente momento di riflessione sulla morte e su ciò che si cela oltre il momento tanto temuto da ogni essere umano. La storia narra della famiglia americana Otis che si trasferisce nel castello inglese dei Canterville, ove da secoli spadroneggia il fantasma di Sir Simon, un antenato macchiatosi dell’omicidio della moglie. Gli Otis, però, sono scettici fin nel midollo e mettono in totale crisi lo spettro, con tutto il suo repertorio di apparizioni spaventose. Sarà la giovane figlia degli Otis, Virginia, ad avvicinare il fantasma e a intuire il suo dramma, offrendogli il proprio aiuto.
Chiude la raccolta “Un milionario modello”, la storia di un povero giovane con aspirazioni di matrimonio che, impietosito dal mendicante cencioso trovato a far da modello all’amico pittore, si priva delle poche monete che possiede. Scoprirà di aver fatto la carità a qualcuno che può cambiargli la vita.
Quattro chicche, imperdibili per gli estimatori di Wilde e ottime per chi vuole avvicinarlo per la prima volta.

sabato 11 maggio 2013

Non solo armi - Pasubio 1915 - 1918

Fino a qualche anno fa, qui a Vigevano, esisteva un Museo che ospitava una sezione dedicata a un’ampia collezione di oggettistica e divise della Prima Guerra Mondiale, soprattutto italiane e austro-ungariche. Era una stanza delle meraviglie e degli orrori; soprattutto, era una stanza che ricordava le imprese di uomini costretti a fare una vita tremenda su un fronte micidiale come quello alpino.
In quella singola camera, piena fino all’inverosimile, era conservata testimonianza di tante vite e tante morti, per insegnare qualcosa alle generazioni che la guerra non l’hanno mai vissuta.
Poi, come un vento di tempesta, l’Assessore di turno è passato con lo schiacciasassi e ha smantellato tutto quanto, asserendo che certi musei servono solo ad inneggiare alla guerra. Fortunatamente, non tutti rifiutano di capire lo scopo di una iniziativa simile e c’è chi si prodiga per fare in modo che la memoria non muoia e il sacrificio di tanti non diventi un fantasma scomodo.
Nei luoghi che hanno vissuto direttamente la Prima Guerra Mondiale, ad esempio, la questione del ricordo e della diffusione della conoscenza di quegli eventi fondamentali è molto sentita. Esistono molti musei, mostre temporanee, itinerari studiati appositamente per far visitare i luoghi delle battaglie (più una guerra di posizione, in realtà) e le opere di ingegneria che hanno consentito a tanti soldati di vivere e combattere in quota, in condizioni ambientali estreme.
Le battaglie e le opere dell’uomo, inoltre, hanno modificato il territorio e ancora oggi un occhio esperto può riconoscere gli scavi delle trincee, i crateri delle granate solo parzialmente nascosti dalla nuova vegetazione e dall’erosione degli agenti atmosferici, i fori nella montagna scavati dai soldati, confusi tra le grotte naturali.
La zona del Pasubio, soprattutto, tiene molto caro il suo passato bellico, raccontando la storia degli uomini che hanno combattuto tra le sue cime attraverso numerose iniziative. Il Museo Storico Italiano di Rovereto in collaborazione con il Tiroler Kaiserjägermuseum di Innsbruck, ad esempio, nel 2002 ha pubblicato con Nicolodi Editore una raccolta fotografica che vuole offrire testimonianza di diversi aspetti della vita del soldato in quota, riunendo nello stesso volume sia le testimonianze relative alle milizie italiane che a quelle austro-ungariche.
Il volume, infatti, è redatto sia in italiano che in tedesco, in maniera da essere fruibile da appassionati di entrambi i Paesi. In questo modo, gli antichi nemici possono confrontarsi in maniera neutrale, osservando come fossero simili i loro sforzi e le privazioni.
La pubblicazione è realizzata su carta lucida, le foto da archivio sono stampate con un’ottima risoluzione e ognuna di esse è corredata da una didascalia esaustiva. Le foto sono state suddivise per capitoli tematici, ognuno dei quali viene dapprima sviscerato tramite un breve testo, che fornisce al lettore le informazioni essenziali, e poi narrato attraverso le sole immagini.
La lunga introduzione offre la possibilità di leggere stralci di un vero diario dal fronte, quello di Francesco Laich, musicista arruolato dapprima con compiti non distanti dalla sua professione, poi prestato agli ingrati lavori del semplice soldato. Seguono mappe fotografiche dettagliate delle cime interessate dallo scontro tra i due eserciti, per passare quindi alla raccolta di foto vera e propria.
La galleria fotografica mostra diversi aspetti della guerra d’alta quota: dalla geografia dei due fronti
ai baraccamenti, dal triste spettacolo di ciò che restava dopo le battaglie ai momenti di riposo e svago dei soldati. Vi si trovano ritratti di generali come di soldati semplici, di inverni crudeli e di allegri bagni estivi nei torrenti. Paesi sventrati, montagne crivellate, manti bianchi che seppelliscono tutto e rendono il paesaggio irriconoscibile. Croci bianche dopo la conta dei morti.
La guerra tira fuori il peggio e il meglio degli uomini; una piccola porzione di ciò che si è consumato sulle nostre montagne può essere conosciuto e, forse, compreso attraverso queste testimonianze dell’epoca, senza più odi patriottici ma considerando tutti vittime in ugual modo di una guerra orribile che non dovrebbe mai essere dimenticata.