lunedì 21 ottobre 2013

Il lavoro dell'attore su se stesso

Il metodo Stanislavskij: tutti coloro che si sono avvicinati al teatro anche solo a livello amatoriale ne hanno sentito parlare. Moltissimi attori e registi si vantano di utilizzarlo, ma gran parte delle volte si tratta di un fraintendimento di ciò che chiede tale metodo. Non si tratta, infatti, della semplice, totale immedesimazione nel personaggio, come molti credono. Il metodo è composto da molte fasi, gran parte delle quali razionali e costruite a tavolino, che si uniscono a una ricerca dell’immedesimazione nella parte. E’ un percorso difficile e anche rischioso per la psiche dell’attore, che deve esercitare un grande controllo su se stesso.
Konstantin Stanislavskij nacque 150 anni fa in Russia e fin dall’infanzia fu educato al mondo teatrale e musicale. Attore e regista, non soddisfatto del manierismo che imperava nel teatro del suo tempo, si applicò per creare un metodo di lavoro alternativo, che portasse a una recitazione più “naturale”. Non disinvolta, ma volta a ricreare la realtà, senza artifici o esagerazioni innaturali. Scrisse due tomi in cui riassunse il suo pensiero sul teatro tramite lezioni: “Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”. I suoi insegnamenti confluirono nel metodo Strasberg dell’Actor Studio, che però travisò non poco il pensiero di Stanislavskij. A oggi, sono ben pochi coloro che possono affermare di usare davvero questo metodo.
Lo scopo dei due tomi è offrire uno scorcio su quello che dovrebbe essere il training di un attore secondo Stanislavskij, un percorso fatto di compiti ben precisi, recupero e utilizzo delle emozioni, totale consapevolezza di quanto avviene una volta sul palco.
“Il lavoro dell’attore su se stesso” è una sequenza di lezioni viste attraverso il punto di vista di un allievo, nuovo iscritto alla scuola. Il regista Arkadij Nikolaevic Torcov (che poi è Stanislavskij stesso) cercherà attraverso esercizi ben mirati ed esperienze a volte complesse di mostrare alla classe cosa si richiede ad un attore e quali sono le trappole a cui prestare attenzione.
La prima cosa che Stanislavskij ricerca, infatti, è la verità dell’interpretazione. Vero sentimento, vera intenzione. Niente manierismi né cliché, che trasudano finzione e costituiscono solo un codice artefatto che con la recitazione c’entra poco o nulla. Un conto è acquisire il mestiere ed essere in grado di replicare la medesima performance più e più volte con la stessa partecipazione; un altro è recitare in maniera meccanica e vuota, pensando solo a portare a casa il risultato.
Nella prima sequenza di lezioni, il lavoro di Stanislavskij si basa soprattutto su questo: verità d’azione e di sentimento. I temi trattati sono molteplici e cercano di dare voce a tutti i campi di lavoro dell’attore su se stesso che secondo Stanislavskij sono fondamentali.
Viene mostrata, ad esempio, la differenza tra una recitazione inutilmente enfatica e senza scopo e la stessa scena recitata con un obiettivo ben preciso. Si dà grande importanza alla stimolazione dell’immaginazione. Per un attore è fondamentale andare oltre ciò che è scritto sul copione. Occorre essere in grado di immaginare un prima e un dopo, un contesto, saper visualizzare quanto circonda il proprio personaggio.
Parla poi di due temi estremamente importante: il compito e “il magico se”. L’attore, in scena, non deve aggirarsi senza scopo. Esistono compiti psicologici e compiti fisici che vanno definiti fin dall’inizio. Questo non solo rende molto più efficace la recitazione in scena, ma costituisce anche un aiuto non indifferente per la memoria. Utilizzando il “…e se…” come stimolo alla creazione e visualizzando con precisioni i propri compiti in scena, l’attore stimola al contempo creatività e un piano d’azione che gli consenta di mantenere sempre la concentrazione oltre una certa soglia.
Viene stimolata la memoria emotiva. Un attore deve essere in grado di riportare alla mente sensazioni, emozioni e sentimenti che possono essergli utili nella costruzione del personaggio. Non è necessario aver vissuto le stesse esperienze di colui che si interpreta: basta trovare una chiave personale che metta l’attore sulla sua stessa lunghezza d’onda. L’emozione rievocata può diventare un danno per l’attore, se lasciata libera di esprimersi senza razionalità. L’attore deve sempre avere il controllo sulle proprie emozioni, per impedire che queste si manifestino in modo tale da rovinare la sua performance. L’attore è veicolo dell’emozione, non serve a nessuno che ne sia sopraffatto. Questo è il più grande fraintendimento a cui il concetto di immedesimazione può portare.
Il secondo volume è una raccolta di appunti più o meno codificati lasciati da Stanislavskij in forma non definitiva e segnano un’ulteriore evoluzione del suo pensiero, che conferisce maggiore importanza ai compiti fisici quali catalizzatori dell’immedesimazione psicologica. Vengono prese in esame alcune messe in scena, a volte sotto forma di lezione ed altre come flusso libero di pensieri.
Due letture essenziali per chi si occupa di teatro.

lunedì 14 ottobre 2013

Joyland

Il primo, vero amore ha in sé un potere straordinario. Può riempirci di una gioia incontenibile, di sogni meravigliosi. E’ in grado di dare la forza di sopportare molti sacrifici pur di ottenere la felicità con la persona amata, ogni ostacolo può essere superato con la semplice tenacia. Allo stesso tempo, il primo amore può trasformarsi nel nostro peggior nemico. Se questo sentimento puro e potente viene improvvisamente svilito e il suo filo rosso viene tranciato dall’altra metà, ci si ritrova sperduti, feriti a morte, in balia di pensieri autodistruttivi.
Certe emozioni sono in grado di scuotere profondamente un adulto, figuriamoci un ragazzo alla sua prima, vera esperienza amorosa. Devin ha messo tutto se stesso in questo amore, solo per vedersi lasciare quasi con indifferenza. Ora, svuotato e sconvolto, privato di tutti i suoi progetti per il futuro, il ragazzo ha un gran bisogno di ritrovare la voglia di vivere e di sanare le proprie ferite. Cosa può esserci di meglio che andare a lavorare in un parco di divertimenti, dove il prodotto più venduto è proprio la felicità?
King ha una passione per i luna park. A parte la maschera di clown di It, incubo tra i più vividi creati dall’autore americano, ricordiamo emblematica anche la piccola giostra che fa da sfondo nel prologo de “Il talismano” o l’appuntamento del protagonista di “La zona morta” con la fidanzata, appena prima dell’incidente che cambierà la sua esistenza. Il parco di divertimenti è un luogo liminare, dove l’allegria e il gioco vivono in una dimensione a metà tra il sentimento spontaneo e il business. Chi vi lavora è al servizio della gente e al contempo si approfitta della credulità e delle mani bucate del visitatore.
Fidarsi o non fidarsi del magico mondo colorato che promette tanto divertimento? Questo ambiguo sentimento, già evidenziato da scrittori come Ray Bradbury (non a caso, a sua volta legato ai temi dell’infanzia e all’ambivalenza del mercato legato al divertimento e al gioco), conferisce all’ambientazione di questo romanzo un’aria decadente e di incerto equilibrio che ben si adatta con lo stato d’animo del giovane protagonista.
Devin viene a conoscere entrambi i volti di un luna park: sia la sua versione estiva, piena di gente, musica e di frenetico lavoro allo scopo di divertire, sia il volto invernale, fatto di silenzio spettrale, duro lavoro di manutenzione e attesa. Questo coincide con i due aspetti del suo sentimento, a ben guardare. Dapprima tutto sembra luminoso e gaio, benché pervaso da una sottile sensazione di forzatura; quando la maschera gioiosa cade, rimangono solo solitudine e desolazione.
Per quanto sia fondamentalmente una storia basata sull’amore adolescenziale e sulla crescita, King non si fa mancare quella nota paranormale che l’ha caratterizzato durante la sua produzione letteraria. Nel caso di Joyland, esso si manifesta nel mondo tangibile tramite tre canali.
Il primo è una chiromante di dubbia capacità, lavorante a Joyland, che però sarà in grado di mettere in guarda Devin da alcuni incontri e situazioni che condizioneranno il suo futuro. Il secondo è incarnato in un bambino, malato, residente con la giovane madre in una casa sulla spiaggia, lungo la via per Joyland. Il bambino è molto più adulto della sua età, consapevole della propria morte imminente e dotato della capacità di vedere nei pensieri altrui e di scorgere ciò che esiste su livelli diversi da quello terreno. Il suo coraggio e la sua amicizia saranno fondamentali per Devin.
Il terzo canale è quello che ha fatto sperare ai più che il racconto vertesse sull’horror: a Joyland c’è un fantasma. Non si tratta di una leggenda, c’è davvero! Una giovane donna, uccisa da un misterioso killer all’interno del Trenino dei Fantasmi, ancora intrappolata dopo la morte all’interno della giostra.
Queste incursioni nel paranormale, però, sono molto delicate, quasi un corollario alla storia di Devin. King dà molta più importanza ai suoi sentimenti, al legame con Joyland, con il bambino e alla presa di coscienza che è necessario andare avanti anche quando si crede di non avere più voglia di vivere. Un finale forse un po’ affrettato porta a svelare anche l’oscuro mistero che si cela dietro al parco di divertimenti che per un anno gli ha fatto da casa.
Un King ispirato, anche se il binario non è quello dell’horror. Un bel romanzo, dolce e avvolgente come un abbraccio.

lunedì 7 ottobre 2013

Asakusa Kid

Takeshi Kitano, nato nel 1947, è un personaggio caratterizzato da un eclettismo estremo. Attore, regista, pittore, poeta, nella sua vita non ha mai esitato a gettarsi in qualsiasi tipo di avventura che potesse arricchirlo artisticamente. Comico di successo, stupisce i propri fan diventando un attore cinematografico drammatico, per poi dedicarsi alla regia di numerosi film in grado di ottenere anche successo internazionale (vedi titoli come Zatoichi, L’estate di Kikujiro, Hana-Bi).
Un grave incidente in moto gli procura gravi problemi di salute (è costretto anche a ricorrere alla chirurgia plastica per il viso) ma la pausa forzata lo avvicina all’esperienza della pittura, che metterà a frutto.
Nel libro di cui stiamo per parlare, “Beat Takeshi” rievoca i primi tempi della sua carriera – o meglio, del suo apprendistato – raccontando come sia nata in lui la smania di diventare un attore e quali personaggi l’abbiano aiutato a diventare ciò che è oggi.
Il titolo di questo spaccato autobiografico è “Asakusa Kid” e in Italia è edito da Mondadori. La decisione di abbandonare tutto e di trovare un modo per salire sul palco attraversa la mente di Kitano durante gli anni dell’università. Anni buttati via, secondo la sua valutazione; anni passati a frequentare circoli di universitari che a parole promettono rivoluzioni culturali, genialità letterarie, e che invece non fanno che perdere tempo in divertimenti aspettando di terminare gli studi e prendere in mano le redini dell’attività di famiglia. Stanco dall’ambiente inconcludente e dalla sensazione di stare perdendo tempo, Kitano molla tutto e decide di dedicarsi al suo sogno, costi quel che costi.
Torna così ad Asakusa, un quartiere popolare che, durante la sua infanzia, era sinonimo di vestiti all’ultima moda, spettacoli, vitalità. Quando vi ritorna, Asakusa ormai è un quartiere provinciale e decadente, ancora pieno di locali per spettacoli ma ormai in forte declino. La sua prima missione è cercare un maestro, ma riceve solo rifiuti.
Per un colpo di fortuna, trova da lavorare al François, un locale di spogliarelli alternati a numeri comici diretti dal famoso Senzaburo Fukami. Pian piano, un po’ grazie all’insistenza e un po’ grazie a qualche colpo di fortuna, Kitano entra nelle grazie del Maestro, riesce a farsi insegnare i primi rudimenti e a fare il suo debutto sul palco, passando anche da mansioni di accoglienza e pulizia del teatro a quelle di direttore di sala. L’esperienza si rivela, oltre a una scuola di formazione artistica, un’occasione di scoperta di sfaccettati tipi umani.
Conosce il rutilante e decadente mondo delle spogliarelliste del locale, un gruppo di ragazze e donne non più giovanissime che in qualche modo lo adottano e si curano del fatto che riesca a mangiare a sufficienza. Conosce i loro compagni – papponi, per meglio dire – che fanno da agenti delle ballerine oppure vivono alle loro spalle come parassiti.
Impara a vivere di espedienti, a raggirare a sua volta il prossimo per racimolare un po’ di denaro con cui permettersi qualche vizio. L’ingenuo collega Inoue diventa suo amico e al contempo bersaglio dei suoi piani geniali e vittima delle sue frustrazioni quando le cose non girano per il verso giusto. Fa conoscenza con gli eccentrici personaggi che pullulano per Asakusa, compreso il barbone Kiyoshi, così chiamato in onore di un famoso comico che lo tratta sempre benevolmente.
L’attività frenetica, la fame e la mancanza di denaro non allontanano Kitano dal suo sogno. Anzi, accarezza l’idea di lasciare il François e mettere in piedi un duo comico. Finirà per farsi convincere dalla proposta di un suo collega, creando un duo manzai e iniziando una difficile gavetta che decollerà solo quando l’anticonformismo un po’ matto di Kitano diventerà la chiave di volta degli sketch del duo.
L’artista giapponese si svela in questo racconto/diario della sua giovinezza senza abbellimenti, senza dare di sé un’immagine patinata, bensì molto concreta e realistica. Offre al lettore uno spaccato della vita in Giappone negli anni ’70, le difficoltà di un ambiente ambiguo e sempre legato al malaffare, nonché un commovente omaggio al suo maestro e ai suoi insegnamenti, che rimangono vivi nel cuore di Kitano anche a tanti anni di distanza.

martedì 1 ottobre 2013

Giorgio Strehler o La passione teatrale

Il libro che vi vado a presentare oggi (chiedo scusa ma non ho trovato l’immagine di copertina) è un testo multiforme nato dalla trascrizione di un evento del 1990, la premiazione di Giorgio Strehler al Taormina Arte – Europa per il Teatro. Un po’ intervista, un po’ raccolta di saggi sul teatro, un po’ conversazione aperta su ciò che è stata l’esperienza del teatro di Strehler, questo magnifico testo edito con Ubulibri ci restituisce un evento storico e artistico di grande levatura.
Dopo una prima parte di presentazione dell’evento e delle motivazioni alla base sia della manifestazione che della premiazione, viene proposta una conversazione con Anatolij Aleksandrovic Vasil’ev, regista russo nato nel 1942 che in questa specifica occasione ricevette a sua volta un premio per le proprie esperienze teatrali.
Appassionato di Pirandello, Vasil’ev lavora con i propri attori utilizzando con generosità l’improvvisazione sul testo, poi codificata per la messa in scena ma sfruttata per dare nuovo respiro, una nuova vita ai testi presi in esame. Spesso le sue rappresentazioni non sono nemmeno andate in scena, osteggiate dal regime comunista, e ne rimane solo l’esperienza del lavoro. L’intervista lo porta a parlare della sua idea del teatro, delle sue esperienze e del difficile clima nel suo Paese natale, cosa che all’epoca lo faceva tentennare tra le offerte provenienti dal resto d’Europa e il desiderio, nonostante tutto, di ottenere un proprio spazio in Russia e offrire il lavoro di scena al pubblico del suo Paese.
A questo omaggio al nuovo che avanza, segue una sezione costituita da brevi saggi che hanno lo scopo di indagare le tematiche e i modi del teatro di Strehler. Si analizza la scelta dei testi da parte di questo regista iperproduttivo, le sue preferenze in fatto di autori (è un dato di fatto che spesso si instaura una sorta di ponte emotivo e artistico tra un regista e determinati autori teatrali), il suo quasi totale abbandono dei testi contemporanei per dedicarsi al repertorio “storico”. Viene rievocata la sua esperienza volta a creare un teatro europeo, con i lavori portati in scena in Germania e, soprattutto, in Francia. Si analizza la componente sociale /politica di una parte del suo lavoro, la sua idea di quello che è regia e le scuole di pensiero che hanno contribuito alla sua visione del Teatro.
Cominciano quindi le interviste, che riescono a dare – molto più dei saggi – uno spaccato artistico e profondamente umano dell’esperienza strehleriana e di ciò che lavorare con questo regista ha lasciato ad attori e addetti ai lavori.
In un dialogo aperto tra Strehler e i suoi collaboratori, si delinea il profilo di un professionista esigente fino a sfiancare chi gli sta attorno, istrionico, incapace di dirigere dalla sala senza fare su e giù dal palco innumerevoli volte. Un regista che affronta ogni testo come un viaggio che abbraccia letteratura, storia, arte, costume e che costringe tutti a seguirlo nella magia, appassionando e mettendo alla prova le forze di chi lavora al suo fianco. Un artista che conosce alla perfezione la parte di ognuno, le partiture musicali, i progetti di scena. Un genio che insieme a Paolo Grassi e a Nina Vinchi è riuscito a creare un polo teatrale di livello internazionale al Piccolo di Milano.
Si alternano nella rievocazione di episodi lavorativi e personali grandi nomi come Giulia Lazzarini, Ezio Frigerio, la stessa Nina Vinchi, Turi Ferro…Un dialogo aperto con Strehler, che li incoraggia, li contraddice, a volte persino si commuove nello scoprire quanto ha segnato l’evoluzione come artista di alcuni suoi collaboratori.
Segue un dialogo tra Giulia Lazzarini e Giorgio Strehler che parlano del lavoro svolto su “Elvira, o la passione teatrale” di Jouvet. A metà tra l’analisi critica della messa in scena e la lettura drammatizzata del testo, i due analizzano le tematiche di questa “lezione” di teatro ambientata a cavallo degli anni della Seconda Guerra Mondiale, portando in luce le difficoltà dell’interpretazione scenica e offrendo un bellissimo scambio tra regista e attrice, in parte “scenico” e in parte verità.
Con un discorso conclusivo, termina questo bellissimo documento. Per chi, come me, fa teatro o quantomeno lo ama, una lettura che fa desiderare ardentemente di aver potuto assistere in prima persona all’evento e che restituisce un’immagine sfaccettata di uno dei più grandi registi del secolo scorso.