giovedì 21 novembre 2013

La mia Istanbul


I diari di viaggio sono un genere poco gettonato, in questo periodo, ma personalmente li ho sempre amati. Non solo ti portano in luoghi lontani; ti avvicinano all’anima di individui che non conosci. Ti permettono di accostarti alla loro esperienza personale, alle loro avventure come alle domande e ai pensieri che nascono durante esperienze vissute tanto lontano da casa. Da essi si può imparare qualcosa, o trovare spunti di riflessione anche importanti.
Il viaggio fatto da soli non funziona come fuga dal nostro quotidiano, dai problemi che ci assillano, ma offre la possibilità di valutarli e ragionarci sopra da un punto di vista più calmo, oggettivo. Un viaggio può aiutare a trovare soluzioni, a conoscersi meglio attraverso il nuovo che ci circonda, a dipanare quei nodi che le abitudini hanno intrecciato dentro di noi.
In “La mia Istanbul” di Francesca Pacini, edito con Edizioni Ponte Sisto, ho trovato il connubio desiderato di bella prosa ed esperienza di viaggio, verità dei fatti e cammino spirituale. La scrittrice non solo dipinge a tinte vivide una città che è diventata la sua meta d’elezione, una seconda casa che non cessa mai di affascinarla e arricchirla, ma ci permette di accostarci a temi che oggi sono di estrema attualità e che ci vengono proposti senza il filtro dei pregiudizi occidentali: la società moderata musulmana, il ruolo e le abitudini delle donne, la cultura islamica in generale.
Una prosa a tratti onirica, ogni capitolo è un dipinto realizzato usando le parole come colori. L’amore di Francesca Pacini per ciò che descrive e per il suo viaggio – dell’anima e del pensiero, oltre che del corpo - è palpabile in ogni frase e le restituisce quell’afflato di sincerità che il lettore non può che apprezzare, godendosi la proprietà di linguaggio e la sua musicalità non solo nel piacere della bella scrittura ma godendo dello sforzo – non artificioso – di rendere con le parole più adatte, gli accenti migliori, ciò che è stato veramente visto, respirato, gustato. Soprattutto, amato.
Istanbul, per sua natura, è un ponte tra Occidente e Oriente, un luogo liminare ove si uniscono due continenti, da una parte e dall’altra di un braccio di mare che ha visto accadere innumerevoli gesta degli uomini. Come tale, conserva in sé numerose contraddizioni e mostra al visitatore sia la sua parte musulmana tradizionale che quella più spregiudicata e godereccia dei quartieri del divertimento. Occorre capirne entrambi i volti per entrare nell’atmosfera di questa città magica, ricchissima di Storia e segnata da sanguinose battaglie.
Ogni parentesi di questa esperienza crea un momento di meditazione, dà forma a una domanda su cui sarebbe il caso di fermarsi a riflettere per il tempo necessario ad aprire la mente a diverse forme di pensiero, a culture differenti. L’odio e l’incapacità di accettare le altrui abitudini derivano soprattutto da una cecità radicata dalla convinzione che il proprio modo di vivere sia il solo a poter essere etichettato come “giusto”. La Pacini si avvicina alla realtà musulmana con la mente aperta, senza rinnegare le proprie tradizioni ma disponibile a cercare di comprendere quelle altrui.
Riveste per lei grande significato la possibilità di approcciare un nuovo modo di concepire e vivere la femminilità, senza intenti polemici ma in un’analisi personale di ciò che è diventato il corpo della donna nella cultura occidentale e la valenza che riveste invece nella cultura musulmana. Come sempre, ciò che non si ha possiede un fascino tentatore. Per le musulmane, il desiderio di una maggiore libertà di costume. Per la donna occidentale senza pregiudizi, un ritorno a quel minimo di pudicizia, di consapevolezza delle differenze oggettive tra uomo e donna e quel rispetto reciproco senza ostentazione del corpo che le lotte femministe hanno travisato e cancellato, andando oltre gli intenti iniziali e appiattendo, in qualche modo, la figura della donna.
La mistica sufi riveste un ruolo essenziale nell’attrarre costantemente la Pacini a Istanbul. Il fuoco interiore dei dervisci, la loro danza che unisce al trascendente e supera le leggi della materia, conserva per lei un’importanza fondamentale, conducendola – insieme ai riti dell’hammam – a percepire una dimensione spirituale più ampia, lontana dal tran-tran frenetico del mondo materiale.
Il contatto con le povere ma dignitose famiglie curde, con modi di vivere tradizionali e con donne tentate dall’Occidente, le interminabili camminate lungo le strade sempre imprevedibili di Istanbul, conducono Francesca Pacini – e noi con lei – in un viaggio di sogno, un’esperienza che disgrega e rinnova, in un tentativo riuscito di mettere in parole un’affinità elettiva.

giovedì 14 novembre 2013

Gli Impressionisti

La corrente artistica degli Impressionisti ha fatto da spartiacque, relegando all’antico il lungo percorso verso la “bella pittura” e la maniera accademica per inoltrarsi nel concetto di colore, percezione e interpretazione personale del concetto di rappresentazione, cosa che ha poi condotto alle avanguardie e all’arte contemporanea.
Questo nuovo modo di concepire la pittura fu figlio non solo del genio di un gruppo di artisti dall’animo ribelle e senza alcuna paura di sperimentare, ma anche dei tempi. La Francia della metà dell’Ottocento era pervasa dalla voglia di cambiamento, di lasciarsi alle spalle il passato, la burocrazia, le pastoie sociali. Era una Francia che voleva divertirsi, lasciarsi andare, inoltrarsi nella modernità e nelle nuove scoperte tecnologiche. L’Accademia, con i suoi esercizi di maniera privi di contenuti e di novità, divenne l'emblema di ciò che andava cambiato alla radice.
Questo, come ovvio, generò un netto rifiuto da parte delle istituzioni e costrinse gli artisti a imparare a “vendersi” da sé, organizzando in proprio le esposizioni, prendendo contatto con mercanti d’arte e collezionisti, allacciando relazioni con scrittori e giornalisti che potessero far loro una pubblicità positiva, avvicinandoli al grande pubblico, che – come ovvio – non capiva la loro pittura e la malgiudicava. Fu il primo passo verso un moderno mercato dell’arte, anche se gli sforzi degli Impressionisti non trovarono seguito se non dopo la loro morte, quando il panorama artistico aveva ormai imboccato una svolta epocale e i loro lavori vennero valutati per cifre altissime.
Il bel libro della Giunti che vi sto presentando offre, oltre ad un pregevole prodotto editoriale in carta lucida e moltissime immagini a colori, un riassunto ben congegnato di ciò che è stata questa corrente, di chi fossero gli artisti che ne facevano parte e quali fossero non solo le loro tecniche ma anche i loro obiettivi, raccolti poi dai successivi adepti della loro scuola. Le pagine a sinistra contengono il testo, ricco di dettagli, e piccole immagini di riferimento. Le pagine a destra sono dedicate alle stampe di grande formato e alle schede di approfondimento.
Si parte con una parentesi sui predecessori degli Impressionisti, coloro che hanno aperto la via per il cambiamento. Oltre ad un’analisi della Parigi di metà secolo, si parla quindi del Realismo, prima pietra di scandalo nell’ambiente artistico francese. La scuola di Barbizon da una parte, con la predicazione della pittura di paesaggio en plain air contrapposta al lavoro in studio insegnato in Accademia, e artisti come Courbet e Corot tanto attenti a rappresentare la realtà quotidiana senza filtri di buon gusto e maniera, influenzarono profondamente temi e modi dell’Impressionismo.
Vengono quindi raccontate le vicissitudini riguardanti le mostre impressioniste: come sono nate, chi vi ha partecipato, quali sono state le reazioni del pubblico e della critica. Vengono anche sviscerati i contrasti interni al movimento, che hanno modificato più volte l’organico di coloro che esposero sotto il nome di “impressionista”. Un capitolo a parte è dedicato ai luoghi di ritrovo di questi artisti, principalmente locali cittadini e studi privati, ove si faceva salotto e si accendevano discussioni sull’evoluzione dell’arte che coinvolgevano anche letterati e giornalisti.
Si analizzano poi i soggetti preferiti (paesaggi ma anche scorci della movimentata vita di città e del mondo del lavoro), le tecniche pittoriche utilizzate e l’avvento del mezzo fotografico, i personaggi altrettanto famosi che hanno gravitato attorno all’ambiente impressionista (vedi il poeta Baudelaire o il romanziere Zola). Si chiude con le brevi biografie dei principali artisti del gruppo, corredate da una galleria fotografica aggiuntiva, e di coloro che porteranno altra innovazione partendo dalle loro orme: i “puntinisti” Seurat e Signac, quel Gaugain che cercherà fuori dalla Francia la sua ispirazione, e Vincent Van Gogh, rivoluzionario e sfortunato artista.
Un bellissimo regalo per tutti gli amanti dell’arte.

mercoledì 6 novembre 2013

L'esperimento del dottor Ox

Jules Verne (1828 – 1905) fu uno scrittore francese che coniugò la fantasia alla scienza, creando romanzi e novelle che cementarono le fondamenta della moderna fantascienza e fecero (ancora fanno) sognare bambini e adulti. Suoi titoli intramontabili come “20.000 leghe sotto i mari”, “Dalla Terra alla Luna” e “Il giro del mondo in 80 giorni”. Il racconto che vi vado a presentare oggi mette in luce, oltre agli interessi per cui Verne è famoso, un’ironia tagliente ed esilarante che lo rende ancora più vicino alla cultura contemporanea.
“L’esperimento del Dottor Ox” racconta le vicissitudini di una cittadina delle Fiandre, Quiquendone, così tranquilla fin dai primordi della sua fondazione che spesso la gente si dimentica della sua esistenza, tanto che essa non compare nemmeno sulle carte geografiche.
La vita a Quiquendone è la quintessenza della vita fiamminga nelle esagerazioni caricaturali del resto del mondo: pacata, lenta, ponderata. Qualunque decisione viene procrastinata per anni, decenni, nel timore di affrettare troppo i tempi e prendere la decisione errata. I fidanzamenti durano anni e anni, senza quasi alcun rapporto tra gli innamorati, che così avranno tutto il tempo di abituarsi all’idea del matrimonio. Le chiacchierate si dipanano in lunghe ore fatte soprattutto di pause di riflessione. Ogni casa è esempio d’ordine, calma e silenzio.
In un tale contesto, è appena stata presa una decisione che porterà un po’ di modernità – ma solo un po’- in un luogo quasi fuori dal tempo. Il borgomastro Van Trikas e il consigliere Niklaus, infatti, hanno finalmente concordato che Quiquendone avrà l’illuminazione a gas per adeguarsi ai tempi.
Il lavoro di allacciamento di tutti gli edifici cittadini, impresa non da poco, è stato affidato a uno scienziato straniero, il dottor Ox, giunto da poco in città insieme al suo assistente. A quanto pare, il dotto scienziato conosce un sistema alternativo di illuminazione a gas che consentirà alla brava gente di Quiquendone di avere una splendida luce risparmiando in moneta sonante.
Ciò che gli sventurati cittadini non sanno, è che Ox non ha alcun interesse a fornire semplicemente la luce alla città dietro compenso. Il suo vero scopo è usare l’intera, flemmatica cittadinanza di Quiquendone come cavia per un importante esperimento scientifico. I collegamenti per il gas posizionati in tutti gli edifici, infatti, serviranno a saturare l’aria di ossigeno per valutarne gli effetti sulla flora e sulla fauna, ma soprattutto sulla psiche degli esseri umani.
Le prime avvisaglie che qualcosa di arcano si sia messo in movimento viene dalla crescita rigogliosa, perfino mostruosa di piante e frutti, che raggiungono dimensioni pazzesche per poi morire velocemente. Di seguito si riscontra un’irritabilità mai vista negli animali. Poi, finalmente, sono le persone a dare segni di squilibrio.
I calmi e letargici cittadini cominciano a discutere animatamente, ad accelerare i tempi, a dar vita a feste mai viste, a litigare. Ad un certo punto, infiammati gli animi, perfino a dar luogo a risse e a cercare un pretesto per dichiarare guerra alle città vicine! Quali saranno le conseguenze del pericoloso esperimento del dottor Ox?
Verne basa il racconto sul doppio volto della scienza, che non esita a diventare dannosa pur di raggiungere i propri scopi di conoscenza, trasformandosi in una piaga quando il suo scopo dovrebbe essere quello di servire l’umanità. Ox è lo scienziato disposto a sacrificare tutto e tutti pur di sperimentare le proprie teorie. I cittadini sono semplici cavie da laboratorio, ignare di quanto sta avvenendo.
Al contempo, lo scrittore dileggia queste placide vittime senza pietà, in una parodia del popolo bue che si fa guidare qua e là dal burattinaio senza nemmeno un sentore che qualcosa non vada, che gli eventi siano manipolati dall’alto. L’ironia francese verso i vicini fiamminghi qui viene portata all’eccesso, con una dichiarata intenzione grottesca. Al contempo vi si può leggere dell’ironia anche verso i concittadini di Verne, in quanto i fiamminghi dopati con l’ossigeno somigliano moltissimo ai francesi infiammati ad ogni buona occasione di protesta.
Un racconto divertente e dissacrante, godibilissimo nonostante l’abbondante secolo che ci separa, ancora pericolosamente attuale nei riguardi di quella scienza che fa dell’umanità la sua cavia da laboratorio.

venerdì 1 novembre 2013

Per interposta persona

Oggi parliamo di un autore che ho scoperto e recensito qualche tempo fa, sperando di avere l’opportunità di leggere ancora qualcosa di suo e notare i miglioramenti che le sue trovate narrative promettevano. Non sono stata delusa da questa seconda lettura di un’opera di Massimiliano Venturini, scrittore con la predisposizione al “giallo all’italiana”.
“Per interposta persona – Il ritorno del Passatore”, edito da Italic, narra le rocambolesche vicende di un giovane romagnolo che, a causa di una perfetta omonimia con il bandito ottocentesco Stefano Pelloni (citato anche da Pascoli in “Romagna”, che l’autore ha omaggiato all’inizio del libro), con il tempo finisce per credersi la sua reincarnazione e avvia una carriera di ladro scaltro e vendicativo, prendendosi con la forza quelle soddisfazioni che la vita gli ha negato.
A mettergli i bastoni fra le ruote, un uomo non meno intelligente di lui: l’ispettore Randello, convinto della colpevolezza di Pelloni fin dal principio della sua carriera di ladro, gli starà sempre addosso per approfittare della prima sbavatura nei suoi piani e sbatterlo in galera.
Questo nuovo Passatore, pur con le sue ingegnose parentesi criminali, conserva in realtà un’ingenuità che fa quasi tenerezza. Abituato a vivere in estrema povertà, cresciuto senza davvero conoscere gli affetti familiari, ha un rapporto sbagliato sia con il denaro che con il suo prossimo, gentil sesso in testa.
La maschera del Passatore gli offre inaspettatamente un modo per rapportarsi con il mondo da vincitore, invece che da vinto. Gli dà il coraggio di tentare bizzarre avventure amorose, lo spinge alla rivalsa verso coloro che ostentano il proprio denaro. Lo fa sentire potente, imprendibile, finalmente in grado di confrontarsi con il mondo da una posizione di superiorità. L’anonimato del lavoro al bar gli torna utile e si prende le sue soddisfazioni materiali con una certa parsimonia, tutto sommato.
La fame di sfide, però, lo porta a rischiare sempre di più e sempre più spesso, pur sapendo di avere un mastino alle calcagna (e in questo il ladro si eleva nel rispettare profondamente il proprio avversario “dalla parte della legge”). Forse c’è un inconscio desiderio di essere fermato, tanto da sbandierare il proprio soprannome agli ultimi rapinati, come lasciando un biglietto da visita ad uso e consumo dell’ispettore Randello. Una personalità vera e vivace, profondamente italiana.
Venturini trova nella scrittura in prima persona una forma narrativa che gli è congeniale e che valorizza la territorialità della parlata, pur senza volute insistenze sul gergo dialettale e con la premura di fornire spiegazioni dei termini locali quando utilizzati. Il tutto, però, inserito con eleganza nella narrazione stessa, senza note a piè di pagina.
Molti dei difetti presenti ne “Il ritorno degli Dei” qui scompaiono del tutto, palesando una maturazione dello scrittore e una pregevole attenzione dell’editore per il prodotto. A una trama valida e interessante, infatti, Venturini aggiunge una prosa senza difetti sintattici o refusi di stampa, permettendo finalmente una lettura scorrevole che consente al lettore di godersi senza ostacoli le trovate dell’autore e le vicissitudini di questo particolare protagonista.
Dalla prosa di Venturini emerge un amore tutto italiano per il cibo. Pur senza diventare parossistico, il piacere della buona tavola traspare dalle righe – mai mancanti – che descrivono i pasti dei personaggi, un soffermarsi che con poche parole sa risvegliare il senso del gusto e renderci partecipi di questa esaltazione per il gusto e la vista.
Altra trovata interessante, la sfilata di personaggi che frequentano il bar di Pelloni e che costituiscono uno sfaccettato spaccato di umanità nostrana. Dal professore di fisica al venditore di gioielli, dall’impiegato di banca al beghino affetto da cleptomania, dalla ragazza con mire di convivenza alla donna volgare e subdola che tenta ogni uomo che entra nel locale. Ognuno di loro ha qualcosa da dire, il proprio contributo da dare. Spesso il giovane criminale parla citando i propri clienti, che hanno sempre qualcosa da insegnarli, qualche perla di saggezza o sapienza con cui arricchire la propria cultura.
Una lettura davvero piacevole, una bella conferma del talento di Massimiliano Venturini.