giovedì 26 dicembre 2013

L'oscurità degli angeli

Bianca Garavelli, stimata esperta dell’opera di Dante Alighieri, è anche scrittrice di romanzi e racconti. La sua passione per la letteratura non le concede di essere semplice spettatrice e critica della produzione altrui, ma la spinge a cimentarsi nella narrazione, offrendo al lettore un sorprendente spaccato su un universo immaginifico multiforme, a volte anche selvaggio e brutale, figlio di molteplici influenze e di una sensibilità particolare.
La prima cosa che salta agli occhi è il debole della Garavelli per il fantastico, per la deviazione dalla norma. Con un gusto forse più maschile che femminile, l’autrice immerge i suoi personaggi in realtà che convivono con il mistero – quando va bene – se non con il puro orrore, il paranormale. Nelle sue opere, il confine tra la realtà materiale e piani d’esistenza più elusivi, incorporei, di rado manca. Il contatto a volte è delicato, pieno di una speranza quasi fanciullesca, innocente come il prodotto della fantasia di un bambino. La commistione provoca gioia, la capacità di guardare al futuro sotto una nuova luce.
Più spesso, l’inserirsi di questo mondo “altro” è violento e porta sofferenza, esperienze traumatiche, a volte anche la morte. Le forze che si aggirano ai limiti della nostra capacità di percezione possono essere troppo dirompenti e selvagge per essere controllate e spingono alla follia.
Se questa è la parte “maschile” della prosa di Bianca Garavelli, elementi di Terra e di Fuoco che si manifestano nella sua scrittura, non meno evidente e dotata di una sua peculiarità è la sua parte “femminile”, come a voler chiudere il cerchio degli Elementi.
Pur nei temi a volte forti, l’autrice conserva una dolcezza di donna che trova espressione nel trattare dei rapporti interpersonali, in temi più vicini al mondo dei bambini. Il suo approccio alle esperienze infantili, ai sentimenti di lutto o di malinconia da rielaborare (come in “Le rose di dicembre” o “La bambina che amava i rondoni”), viene messo in atto con rispetto e profondità di sentimenti, una partecipazione emozionale che commuove senza scadere nel melenso, perché sincero e non ricercato ad arte. Si evince, poi, una sorta di timidezza della Garavelli quando si parla dei rapporti uomo/donna, come se l’autrice trovasse in questo difficoltà di espressione non presenti in altri casi. Si avverte un leggero ritrarsi, come un non volersi scoprire. In questi momenti, evidenti soprattutto nel lungo racconto “L’amico di Arianna”, la prosa diventa più ermetica, meno spontanea, come se l’amore fosse qualcosa di troppo elusivo e complesso per essere adeguatamente espresso a parole.
La raccolta di racconti che vi vado a presentare, “L’oscurità degli angeli” edito da Giuliano Ladolfi Editore”, si muove lungo il fil rouge del mistero che si insinua nella vita di tutti i giorni.
“L’amico di Arianna” è una storia d’amore tormentata, un viaggio nella follia che si spinge al di là del possibile, creando un ponte straordinario tra essere umano e animale. Tutto ruota attorno alla figura del lupo e ai suoi istinti di feroce cacciatore, che trovano una risonanza nell’anima di una ragazza appena affacciatasi alle gioie della vita. “Qui tollis peccata mundi” è un racconto più breve, decisamente arcano, che ruota attorno a un’altra figura animale: il gatto. Una piccola storia disturbante, sfaccettata.
“Le rose di Dicembre” narra di un miracolo natalizio per un bambino che ha in cuore un desiderio impossibile. “Amnesia” è una bravissima parentesi di tempo dilatato, distorto, privo di connotazione. Un momento di totale scomparsa di ogni ricordo, che si scioglie in dolore al tornare della memoria. “L’olivo della strega” riunisce elementi magici con il tema del ritorno alle proprie radici, alle tradizioni di famiglia. La ricerca del sé del passato, dei momenti in cui ancora il futuro non aveva preso una precisa direzione, accomuna i successivi due racconti: “Treni”, la visione di un bivio fondamentale; “Gli anni”, la ricerca di un ricordo, lacerati tra la paura e la speranza di trovare tutto come un tempo.
Chiudono la raccolta “La bambina che amava i rondoni”, una vera e propria fiaba sul finire dell’estate, ambientata nella sua Vigevano, e “E sua nazion sarà tra feltro e feltro”, omaggio a Dante e alla sua Commedia.

venerdì 20 dicembre 2013

Storia della Bellezza

In un volume che è al contempo libro d’arte, compendio di citazioni letterarie, poetiche e filosofiche e saggio d’analisi di un concetto che definire sfuggente è poco, Umberto Eco tenta l’opera ardita di offrire al lettore, artista o meno che sia, una Storia della Bellezza.
Il concetto di “cosa è Bello” ha attraversato le epoche in una continua mutazione, seguendo i cambiamenti sociali e di pensiero. Il concetto di Bello, perciò, è lungi dall’essere immutabile e riassumibile in una sequenza di norme oggettivamente stabili. Bellezza è soggettività, per quanto molte correnti abbiano cercato di renderla asservita alle leggi della razionalità.
Ad aggiungere complicazione alla faccenda, il concetto del Bello in una determinata epoca è sempre stato lontano da una caratterizzazione univoca, come spesso ci viene insegnato a scuola. Le diverse arti e il pensiero filosofico hanno di sovente seguito strade e standard differenti pur nello stesso contesto sociale e storico, creando un mosaico non regolare di concetti e gusto tra cui è difficile districarsi.
Il volume “Storia della Bellezza”, edito da Bompiani, parte con il curare proprio l’estetica del prodotto editoriale. Un bel formato quadrato per un mattone di oltre quattrocento pagine in carta lucida, con immagini di alta qualità a colori per un prezzo accessibile. Un’ottima scelta, vista la considerevole mole di foto di opere d’arte che costella il saggio di Eco.
Il testo è diviso in capitoli che riassumono un periodo storico o una specifica corrente di pensiero, dall’antichità dell’epoca classica alla società dei mass-media del giorno d’oggi. Il linguaggio non è semplice, né i temi trattati sono alla portata di tutti, ma una lettura paziente e le numerosissime citazioni dalle fonti sono sufficienti a superare l’apparente ostacolo.
Quasi ogni autore o testo citato da Eco, infatti, trova il suo spazio in uno specchietto a fondo pagina, quando non cattura completamente la scena occupando più pagine di seguito. Questo consente di seguire con maggiore consapevolezza l’evolversi del discorso e offre spunti di approfondimento di grande interesse. Sono citati testi storici, scritti di importanti filosofi, ma anche brani di poeti e romanzieri che hanno affrontato i temi cardini dell’estetica del proprio tempo.
La cosa che salta all’occhio è che il genere umano si è quasi sempre barcamenato attraverso tre estremi, nel proprio gusto verso il Bello: la proporzione (razionalità pura), il movimento (l’imperfezione che crea attenzione e stimola la mente dell’osservatore), la decadenza (il fascino dell’orrido, della trasgressione, della morte).
Attraverso il lungo viaggio di Umberto Eco, queste tre facce si ripresentano più volte, non sempre pure e incontaminate, ma ciclicamente tese a imporsi sulla “visione” degli artisti e dei committenti. Un picco estremo in una di queste direzioni tende, dopo un certo periodo di tempo, a far vertere l’ago della bilancia su un altro estremo, come se avvenisse una sorta di “rivolta silenziosa” nei confronti di ciò che si sta imponendo come dogma.
Le cose si complicano con l’approssimarsi degli ultimi due capitoli, dedicati alla contemporaneità. Entrare nel XX secolo, e quindi nella società del consumismo e dei mass-media, disintegra ogni certezza su cosa sia Bello, in un mosaico apparentemente insensato di stili, idee, concetti e apparenze. La modernità ha sdoganato ogni possibile versione della Bellezza, facendo coesistere concetti anche diametralmente opposti, in una totale libertà di scelta e adesione a canoni dalla durata incerta (brevissima come illimitata).
Il “finale” del saggio vuole essere comunque costruttivo, ma alla sottoscritta lascia un po’ l’amaro in bocca. Quando tutto è Bello, niente è Bello. Quale sarà la nostra prossima strada?

Faccio presente che questo volume ha un gemello, “Storia della Bruttezza”. Da mettere subito in lista acquisti!

giovedì 12 dicembre 2013

La cattedrale del mare

Eccoci di nuovo a parlare di un romanzo a sfondo storico, anche se nel caso specifico manca il connotato misterico o cospiratorio che tanto va di moda di questi tempi e su cui ho già detto la mia in altri casi. Attenendosi alla Storia come unica protagonista, sulla scorta di romanzi ormai datati ma sempre eccezionali e sinceri come “I pilastri della terra” di Ken Follett, e portando avanti l’obiettivo (non dichiarato ma palese) di raccontare il passato della propria terra attraverso le voce dei suoi personaggi, Ildefonso Falcones scrive il suo primo successo, “La cattedrale del mare”, edito in Italia da Longanesi.
Il romanzo gravita attorno al protagonista, Arnau Estanyol, la cui vita è legata a doppio filo alla costruzione della chiesa di Santa Maria del Mar e attraverso le cui vicende si viene a conoscere la situazione di Barcellona in particolare, ma in fondo della Catalogna tutta, nel XIV secolo.
Arnau è figlio di un servo della gleba, la cui moglie è stata stuprata e usata come serva dal signorotto locale. Il padre salva il neonato da morte certa e fugge con lui a Barcellona. Se riusciranno a vivere in città un anno e un giorno senza farsi catturare, saranno dichiarati cittadini e uomini liberi. Grazie ai tanti sacrifici del padre, che si mette a lavorare per il parente Grau Puig, Arnau riesce a crescere e a diventare un bambino sano e volenteroso, anche se la vita è aspra e dura, piena di umiliazioni.
Presto Arnau dovrà affrontare il crudele mondo degli adulti, adotterà come fratello minore un bambino sfortunato quanto lui e vedrà morire il padre in uno dei tumulti cittadini. Comincerà allora la sua faticosa strada da uomo, prima come bastaix (scaricatore di porto e portatore di pietre per la chiesa), poi come soldato e quindi come ricco e influente uomo cittadino. Conoscerà le donne fondamentali della sua vita, alcune per la gioia, altre per ostacolare il suo cammino. La rovina, però, è sempre dietro l’angolo e Arnau è destinato ad affrontare più prove di quante possa immaginare.
Ne “La cattedrale del mare” viene dipinta una Barcellona d’altri tempi, che si può respirare sotto la superficie della città odierna e il cui carattere orgoglioso e conscio dei propri privilegi si evidenzia nelle battaglie combattute con il governo centrale per ottenere di nuovo una sorta di indipendenza. La città prende vita nelle pagine del romanzo, contendendo il ruolo di protagonista ad Arnau Estanyol da una parte, e al tempio in costruzione, quella Santa Maria del Mar che si erge pian piano negli anni della narrazione, tempio alla Madonna e chiesa del popolo semplice, di quei lavoratori legati al mare per la loro sopravvivenza.
La straordinaria accoglienza data a questo scrittore deriva probabilmente dalla schiettezza con cui lascia trasparire da ogni riga il suo intento didattico, più che narrativo, sempre con uno stile semplice, di dialogo con il lettore più che accademico e pedante. Le informazioni vengono elargite ad ampie mani ma non risultano mai noiose, né ridondanti.
Questo è al contempo il suo pregio e il suo difetto. Per quanto Falcones crei dei personaggi dotati di una vita propria e li renda capaci di suscitare affezione ed emozioni nel lettore, non si può fare a meno di notare come in parecchi punti la psicologia e le azioni degli stessi prendano una piega più o meno forzata, quando l’autore decide di introdurre un argomento specifico nella narrazione. Tornano, così, personaggi magari perduti molto tempo prima, che prendono a comportarsi in maniera differente da come li si era conosciuti, ora al servizio di una svolta narrativa pensata a tavolino.
Questo rende un po’ meccanico il progredire della vicenda, lasciando la sensazione che l’autore ogni tanto giochi al massacro col povero Arnau; nei momenti in cui le disgrazie al protagonista si affastellano senza requie, solo per poter indagare fino in fondo le conseguenze di una norma dell’epoca o per introdurre un evento che ha segnato la storia di Barcellona, in quanto lettrice ho provato una certa irritazione e il contatto con il romanzo si è sfilacciato.
In generale, comunque, un romanzo piacevole e molto più godibile di tanti dello stesso genere. Falcones è un autore da indagare più a fondo, che potrebbe arrivare a scrivere storie di grande peso letterario. Ho a disposizione anche i successivi “La mano di Fatima” e “La regina scalza”. Spero di potervi aggiornare rilevando quel miglioramento puramente narrativo che mi farebbe amare la sua scrittura.

lunedì 2 dicembre 2013

Grammatica della fantasia

Scrivere favole e filastrocche per bambini non è un lavoro semplice. Si tende a dimenticare che i bambini sono il pubblico in assoluto più esigente, che non si può accontentare con un prodotto poco efficace o nato da un impulso meccanico e svogliato. Uno dei grandi della letteratura per l’infanzia del nostro Paese è senza dubbio Gianni Rodari, maestro di scuola e scrittore che negli anni ’70 ha raccolto le sue esperienze e le sue riflessioni sull’argomento nel piccolo saggio “Grammatica della fantasia” (Edizioni Einaudi), sottotitolo “Introduzione all’arte di inventare storie”.
Rodari, in queste pagine, spazia attraverso diversi argomenti, non tutti strettamente collegati alla scrittura. Da una parte cerca di analizzare i meccanismi di creazione della fiaba, sia dal punto di vista strutturale (citando filologi di grande levatura come Vladimir Propp) che attraverso giochi di associazione e concatenazione di parole. Dall’altra prende in analisi le metodologie di interazione tra l’adulto e il bambino, sia nella figura del genitore che dal punto di vista dell’educatore. Essendo maestro, Rodari lascia ampio spazio alle sue proposte di modifica della routine scolastica.
Offre spunti per numerosi giochi con le parole che possono aiutare il bambino a crearsi una fiaba da sé oppure in gruppo, in classe. Svela qualche utile meccanismo per creare associazioni di parole in rima, in modo da comporre filastrocche, e spiega la magia degli indovinelli, come questi stimolino la capacità logica e l’inventiva del bambino e come formularne di nuovi.
Molto interessanti sono i meccanismi di partenza che danno origine alla fiaba. Si parte dal binomio fantastico di parole apparentemente non collegate tra loro, che messe a confronto possono dare origine a situazioni o personaggi originali. Viene poi consigliata la tecnica dell’estraniamento, che permette la rivalutazione di un oggetto o una situazione con un’ottica completamente nuova (Rodari fa l’esempio delle fiabe di Andersen, spesso incentrate su oggetti di uso comune resi senzienti). Un altro stratagemma sta nel sovra o sotto dimensionare cose e persone.
Un ulteriore sistema di creare storie per bambini può essere quello di “sbagliare” consapevolmente le favole già esistenti oppure creare dei seguiti o dei cross-over. La frase “cosa succederebbe se…” può aprire porte su migliaia di mondi nuovi.
Rodari consiglia anche di utilizzare le cose di casa in modo creativo e diverso, facendole diventare protagoniste o strumenti di avventure da costruire insieme ai propri figli. Si parla inoltre del delicato tema del tabù. Le “parole degli adulti”, le funzioni corporali, le situazioni imbarazzanti, sono evitate dal bambino a causa dell’educazione ricevuta e diventano terreni minati che possono creare disagio. Rodari invita a lasciare che i bambini esplorino i territori proibiti, mettendoli appunto in favola, in maniera da superare gli imbarazzi e le reticenze e dare a queste “zone oscure” un nuovo significato, estrapolandole da un contesto totalmente negativo.
Lasciano un po’ d’amaro in bocca alcune di queste considerazioni, sebbene debbano essere lette e valutate nell’ottica del periodo storico in cui Rodari è vissuto e nella visione liberale e sperimentale degli anni ’70. Lo scrittore politicizza in maniera decisa le sue idee, dichiarandosi apertamente di sinistra in più di un’occasione. Inoltre, propugna una libertà del bambino contro ogni regola preconcetta, incentiva l’uso di tutti gli oggetti di casa (compresi quelli fragili, fa niente se si rompono), delle parolacce in libertà (per potersene appropriare e quindi disfarsene una volta superato l’effetto tabù) e un superamento di interrogazioni, pagelle, valutazioni a scuola, sognando una libera forma d’apprendimento creativo.
Al lettore di oggi, che ha sotto gli occhi le nuove generazioni cresciute proprio con eccessiva libertà e pochissimo rispetto, questo genere di utopie possono far storcere un po’ il naso. La libertà senza spirito critico porta solo al caos.
Nonostante queste divergenze di vedute, un libro consigliatissimo a chi lavora con l’infanzia, ma anche al genitore creativo che desidera ravvivare in casa i momenti della fiaba e del gioco.