venerdì 28 novembre 2014

Il passo della Dea

Federico possiede una capacità intuitiva fuori dal comune. Proprio per questo, Gianni - suo migliore amico e investigatore di polizia – ha l’abitudine di coinvolgerlo nei casi più intricati. L’ultimo omicidio è fonte di dolore per Federico: la vittima, infatti, è una giovanissima e promettente ballerina del Teatro alla Scala, uccisa brutalmente nel proprio appartamento. Oltre al mistero sulle modalità dell’omicidio, anche i ricordi prendono ad assillare l’uomo, il quale non può fare a meno di legare la tragedia all’incidente che anni prima gli ha portato via la sorella, a sua volta promessa del balletto classico.
Le indagini portano presto i due amici a rendersi conto che dietro alla morte della ballerina si nasconde molto più di quanto credessero. Gli omicidi non si fermano, flagellando il corpo di ballo che sta preparando lo spettacolo che precederà la chiusura per restauri dello storico Teatro. Una Milano quotidiana e familiare diventa sede di forze oscure provenienti da oltreoceano, i cui scopi vanno ben oltre l’omicidio fine a se stesso. Federico e Gianni, pur con il supporto della medium Maria e del non comune gatto Ninja, si troveranno loro malgrado invischiati in una vera e propria battaglia tra forze cosmiche.
La danza classica, un mondo elitario di regole ferree, fisici perfetti e sacrifici che si traducono in spettacoli di alta classe racchiusi entro lo spazio delimitato del palco di un teatro, assume in questo romanzo una valenza antica e trascendente. Esercizio e tecnica si donano completamente a un ritorno all’origine, alla valenza sciamanica dell’abbandono del corpo alla musica, la quale altro non è che la traduzione in suono di vibrazioni e messaggi dal mondo delle energie.
Non stupisce, quindi, che la salvezza dell’Universo, il compimento di un ciclo cosmico che va rinnovato continuamente da anime “evolute” spiritualmente – una sorta di “giorno di Brahama” che si chiude per poter rinascere – poggi sulle spalle di chi, con l’abbandono del corpo e la costruzione di un’armonia crea un ponte tra il mondo materiale e le forze creatrici, contenendo il Caos. Più ancora che il Male in senso lato, in effetti, la presenza oscura che è giunta a Milano fin dalle antiche foreste dell’America centrale e da una civiltà dominata dalla violenta lotta pro o contro forze sanguinarie, rappresenta la Distruzione del mondo come lo conosciamo, quindi il potere disgregante che va a contrapporsi al risultato del Verbo del Demiurgo.
La Luce, incarnata in giovani donne con un segno corporeo caratteristico che aiuta a riconoscerle come prescelte, dovrà manifestarsi di nuovo per contrastare una Tenebra incipiente, latrice delle forze anticreative dell’Universo. Il legame con le antiche leggende Maya, all’epoca della prima pubblicazione (avvenuta nel 2005 per Passigli Editore) si poteva spiegare con il crescente interesse riguardo alle profezie sul termine di un’era, diventate poi di dominio pubblico e sicuramente stimolanti per la fantasia di uno scrittore ed oggi godibili nuovamente senza snobismi, essendoci disintossicati dalla Maya-mania di qualche anno fa.
Un posto di potere rilevante all’interno della storia è riservato al Gatto. Il felino, con le sue capacità fisiche e istintuali al limite del soprannaturale, con la sua intelligenza e indipendenza, si presta ad incarnare il ruolo di guardiano di forze magiche che l’Uomo, con i suoi sensi appannati, percepisce appena. Per questo motivo, Ninja fin dall’inizio si affranca dallo stereotipo dell’animale da compagnia e si presenta come un compagno e una guida con un proprio intelletto e degli scopi precisi. Pur rimanendo fedele alla sua natura felina, dimostra un’intelligenza del tutto pari, se non superiore, a quella umana. La sua metamorfosi al momento del rito, più possente, ne è la dimostrazione e svela una sua forma spirituale più vicina al vero.
Un encomio particolare, inoltre, all’ambientazione milanese, che la Garavelli riesce a rendere viva e vibrante, assolutamente familiare per chiunque abbia frequentato la città di Milano e perciò sincera verso i lettori che non vi hanno mai messo piede. L’autrice rimanda l’immagine di una città complessa, a volte in balia del proprio ménage frenetico ma capace di conservare una sua eleganza, luoghi di cultura e tradizione affiancati ai più moderni ritrovi di divertimento (e perdizione). Una città attraversata da forze in contrasto, forse ingigantite proprio da quelle acque onnipresenti che la attraversano, in superficie nella sua rete di Navigli e nei fiumi che la lambiscono, ma soprattutto nelle falde sotterranee che giacciono sotto il grigio ordinato degli edifici, immensa energia in nuce che può essere salvezza o distruzione.
Un romanzo appassionante che consiglio di leggere, vista la sua ripubblicazione in e-book per la casa editrice Emma Books.

domenica 13 luglio 2014

Dolce per sè

Con una citazione leopardiana, si apre questo romanzo di Dacia Maraini, un epistolare che vede la matura scrittrice Vera confidarsi e cercare una compagna con cui dipanare i nodi della propria vita presente e passata in una bambina: Flavia, la briosa nipotina del suo giovane amore, il violinista Edoardo.
Attraverso lunghe lettere, il cui stile non tiene affatto conto della grande differenza d’età ma anzi possiede una cifra espressiva che desidera mettere Flavia alla pari con la sua adulta interlocutrice, Vera mette in prosa i propri sentimenti per lo zio della bambina, la passione per il proprio lavoro, le avventure passate, i dolori, le malinconie. Come uno specchio in cui la donna matura rivede una sé bambina non ancora del tutto perduta, Flavia diventa la confidente di una sconosciuta che presto uscirà dalla sua vita. Nemmeno riceverà gran parte di queste lettere, nate in fondo come una chiacchierata con se stessi e con l’icona di un tempo felice passato troppo presto.
C’è molto della vita di Dacia Maraini nel personaggio di Vera: la sua infanzia giapponese, il divorzio dei genitori, la scrittura come lavoro e passione inesauribile, l’amore per un uomo tanto più giovane di lei. Ciononostante, l’autrice crea una donna “altra”, che possa contenere in sé solo quanto basta della realtà, condita da dettagli e caratteristiche fittizie ma non per questo meno forti e credibili.
La musica pervade tutto il romanzo, non solo perché il compagno di Vera è un violinista ma per una vera, profonda passione della protagonista per il potere della musica, per la creatività e lo sforzo intellettuale e fisico che stanno dietro all’utilizzo dello strumento, alla conversione della musica scritta su spartito in qualcosa che coinvolge i sensi.
La variegata famiglia di Edoardo permette a Vera di mettere in luce differenti atteggiamenti riguardo a quest’arte sublime e tanto ardua. Il fratello di lui, padre della piccola Flavia, è un violoncellista metodico, razionale, che tratta la sua professione con estremo realismo e non lavora mai in situazioni al di sotto della sua fama e del suo talento. Questa sua freddezza si riversa anche sulla famiglia; dai pochi accenni di Vera si capisce come il suo matrimonio sia più una situazione di comodo che una relazione d’amore. Egli non riserva mai uno sguardo ai presenti in sala finché l’esecuzione non è finita. Nemmeno la piccola Flavia, che attende un cenno qualunque del padre per tutto il concerto, viene dispensata da questa delusione.
La madre della bambina è una “musicista fallita”, che ha deciso di mettere da parte i proprio talenti per dedicarsi al solo ruolo di moglie/madre, portando avanti la finzione matrimoniale.
Edoardo è molto diverso e anche il suo atteggiamento artistico fa parte del fascino che ha condotto Vera a cedere ad un corteggiatore tanto più giovane di lei. Musicista generoso, coinvolgente per il pubblico come per i suoi compagni d’orchestra, capace di farsi chilometri per ingaggi al di sotto delle aspettative, spinto dal puro piacere di suonare. Un uomo fatto di passione e piccole manie, che inizialmente suggellano l’amore ma che sul lungo percorso porteranno inevitabilmente a separare la sua strada da quella di Vera.
Toccanti le pagine in cui la donna confida alla piccola Flavia, ormai tredicenne, il calvario della malattia e della morte della sorella maggiore Akiko. Una più profonda malinconia, una decadenza nella qualità del tempo e nella fiducia verso il futuro permea le parole di Vera, che sempre più si avvicina al tramonto mentre una Flavia che ormai è costruita solo con immagini passate sta già per abbandonare l’infanzia per entrare nell’adolescenza, e farsi donna a sua volta.
Un ricambio generazionale che è speranza ma anche, per Vera, consapevolezza che i tempi d’oro stanno finendo; delusioni e sofferenza hanno coperto di una patina scura e amara i bei ricordi. Vera ama e odia le fotografie, frammenti di un tempo congelato per sempre, quasi a deridere chi le guarda e l’incapacità di richiamare a sé i momenti migliori.
Un romanzo femminile ma mai lezioso, a tratti anzi crudo e diretto come uno schiaffo, pagine in cui la vita reale si mescola al letterario in un commovente dialogo a distanza tra due generazioni solo in apparenza troppo lontane. 

lunedì 30 giugno 2014

La liberazione dell'ambiente

 Da www.qlibri.it

Si sentano liberi di leggere questo saggio anche coloro che con le scienze ambientali non hanno mai avuto molto a che fare. Il fatto che faccia parte di una collana scientifica e che tocchi un argomento tanto spinoso potrebbe far temere di trovarsi tra le mani un trattato tecnico incomprensibile per i profani, oppure un testo con deliranti profezie apocalittiche sul futuro della nostra Terra e poco realistiche proposte di cambiamento nelle nostre abitudini quotidiane.
Niente di tutto questo. “La liberazione dell’ambiente”, edito da Di Renzo Editore, è stato scritto da Jesse H. Ausubel con un linguaggio quotidiano, narrativo, direi confidenziale. Una lunga chiacchierata con il lettore, senza mai tentare di impressionarlo con le proprie conoscenze scientifiche ma cercando – piuttosto – di stimolare curiosità verso i campi di ricerca su cui ha speso un’intera vita.
Il percorso scientifico di Ausubel, infatti, abbraccia fondamentali ricerche riguardanti la situazione ambientale, lo sfruttamento delle riserve energetiche e la biodiversità.
L’autore inizia la sua informale chiacchierata rievocando l’infanzia e le proprie origini familiari, di cui ha potuto confermare con certezza la provenienza anche grazie alle più moderne tecniche di analisi del DNA. Nato e cresciuto in America, ha scoperto di avere origini italiane e turche, sempre di famiglia ebraica; ha potuto così affiancare i dati scientifici ai racconti dei nonni, fuggiti dall’Europa prima delle persecuzioni della Seconda Guerra Mondiale e ambientatisi negli Stati Uniti, terra delle opportunità.
Opportunità che l’autore ha cercato di utilizzare al meglio fin dal periodo scolastico, vissuto in maniera creativa per realizzare progetti e condurre esperimenti, pur in un ambiente che prediligeva le materie letterarie a quelle scientifiche. All’università, piuttosto che concentrarsi su un percorso di studi univoco (come è d’obbligo qui da noi), ha preferito tentare un po’ di tutto e seguire ogni corso che stimolasse la sua curiosità, ampliando la propria “visuale” e aggiungendo agli studi perfino la pratica del teatro, scritto e messo in scena. A concludere questo periodo pre-lavoro, un viaggio in Europa che gli dà la possibilità di destreggiarsi con parecchie lingue straniere.
Il primo incarico importante per Ausubel si consuma alla Conferenza Mondiale sul Clima delle Nazioni Unite, dove il giovane scienziato può applicare anche le sue conoscenze di organizzatore di eventi, oltre che avvicinarsi per la prima volta alle neonate scienze ambientali.
L’esperienza lo porta di nuovo oltreoceano. Viene inserito nel gruppo di ricerca dell’Istituto Internazionale per i Sistemi Applicati, con sede in Austria. Qui ha l’opportunità di lavorare accanto a scienziati provenienti da tutto il mondo, perfino da oltre il blocco sovietico, in un ambiente di scambio e collaborazione che lo convincerà del ruolo della scienza come distruttrice di barriere politiche ed economiche. Là incontra il suo mentore, il fisico italiano Marchetti, e indirizza definitivamente i propri interessi verso il settore ambientale ed energetico.
Nei primi anni ’80, infatti, è un fiorire di ricerche che mutano radicalmente l’atteggiamento globale verso l’ambiente. Studi sull’emissione di gas serra e sul riscaldamento globale, un’analisi sistematica dei problemi ambientali e proposte razionali per un’efficienza dell’utilizzo delle risorse, in maniera da restituire al pianeta ampie zone vergini.
Ausubel racconta un’avventura emozionante quando tratta del progetto di censimento della vita marina, iniziato alla fine degli anni ’90, che lo ha portato a solcare gli oceani per anni alla ricerca di tutte le specie marine conosciute e a stimare una cifra esorbitante di creature ancora da scoprire. La missione è stata condivisa dal regista francese Jaques Perrin, che ne ha tratto il film ambientale “Océans”.
Ancora, lo scienziato si è imbarcato in una catalogazione del DNA delle specie viventi (il DNA barcoding) e nella stesura di una vera e propria Enciclopedia della Vita, un lavoro in progress disponibile on-line, oltre a una ricerca sul Carbonio Profondo che potrebbe rivoluzionare le teorie sull’origine della vita sulla Terra.
Un testo spigliato, intrigante e permeato di simpatia, adatto a qualunque tipo di lettore.

martedì 24 giugno 2014

Manuale pratico dell'energia psichica

Non chiedetemi cosa mi è passato per la testa quando ho deciso di comprare “Manuale pratico dell’energia psichica” di R. Michael Miller e Josephine M. Harper, edito dalla Hermes Edizioni…Sicuramente cercavo un testo che mi aprisse al concetto del prana, o del ki.
Questo manuale, invece, ha scopi prettamente pratici. Non è stato scritto con l’intenzione di dissertare sul tema, di spiegare al lettore da dove arrivino i concetti e le teorie fisiche e spirituali alla base dell’utilizzo dell’energia psichica. Non vi sono accenni storici o religiosi di sorta. Il testo è un eserciziario, rivolto a coloro che credono già fermamente nell’esistenza dell’energia psichica e nella possibilità di farne un buon utilizzo nella vita quotidiana.
Si tratta, in breve, di un training non dissimile ad una serie di esercizi per rafforzare la muscolatura oppure al percorso a tappe per chi si avvicina alle posizioni dello yoga. E’ un sistema molto logico, razionale, basato sulla costanza e sull’analisi attenta delle proprie sensazioni e dell’evoluzione della forza mentale a seguito degli esercizi.
Questi ultimi sono individuali, di coppia oppure di gruppo (scelta, questa, che viene saggiamente posta alla fine del libro, in quanto richiede una capacità percettiva già allenata). La descrizione di ogni esercizio è ampia ed esaustiva, spesso corredata da fotografie che illustrino graficamente come concentrare la propria energia psichica e che forma cercare di darle.
Si parte con la base, vale a dire la concentrazione e la visualizzazione della propria energia psichica. Si consiglia come e dove concentrarla all’interno del corpo, per poi convogliarla verso il palmo delle mani o la punta delle dita. I primi esercizi servono quindi a prendere coscienza della propria energia per poi tentare di farla avvertire al compagno. Si consiglia di confrontarsi sulle sensazioni che si provano e di tenere un diario dei risultati, in maniera da essere coscienti di eventuali miglioramenti.
Il capitolo successivo tratta di un argomento essenziale per la buona riuscita degli esperimenti ma anche per evitare disturbi collaterali all’utilizzo dell’energia psichica e alla ricezione incontrollata di quella altrui. Si tratta della purificazione di se stessi, del partner di lavoro e anche di oggetti che possono trattenere su di sé residui psichici (il manuale indica come più “infetti” i gioielli in oro o argento). La purificazione del proprio corpo dalle energie residue o negative, come quella della stanza ove si mettono in atto gli esercizi, andrebbe eseguita quotidianamente.
Preso atto degli esercizi fondamentali, occorre imparare a trasmettere le proprie emozioni attraverso uno scambio di energia psichica. Si tratta quindi di esercizi da fare in coppia o in gruppo. Con l’imposizione della mano oppure con lo scambio di un gioiello “impregnato” dell’energia psichica prescelta, si tenta di trasmettere al partner le proprie emozioni. Sono esercizi di trasmissione e ricezione, che stimolano entrambe le facoltà.
La trasmissione di energia prevede che questa possa essere assorbita senza danni dal ricevente. Perciò, in un capitolo seguente si insegna come armonizzare la propria energia con le vibrazioni di colui che riceve, in maniera da non fargli danno e, anzi, essere persino in grado di “ricaricarlo” e portargli beneficio. La cosa, ovviamente, può anche avvenire con lo scopo contrario, vale a dire nuocere coscientemente. Gli autori non danno alcuna indicazione in merito, ovviamente, limitandosi a far presente che questo rischio esiste, a volte anche in modo del tutto involontario. Per questo motivo è necessario essere anche in grado di schermarsi da attacchi psichici o “vampirismo” psichico, che sottrae forze ed energia.
Un intero capitolo è dedicato alla visualizzazione e creazione di scudi energetici, dai più elementari ai più completi, capaci di difendere l’intero corpo e di sopportare sollecitazioni e spostamenti per lungo tempo.
Il manuale termina con esercizi di gruppo e un glossario che spiega più dettagliatamente termini e regole per eseguirli nella condizione più idonea.
Consigliato a coloro che stanno già seguendo da tempo un percorso spirituale di stampo orientale.

giovedì 19 giugno 2014

Clarimonde, o La morte amorosa

Romualdo ha sempre avvertito, nel proprio cuore, di essere destinato a servire Dio. Cresciuto nel seminario, ha colpito i suoi superiori per la devozione e l’umiltà, arrivando ancora molto giovane al passo più importante: il momento di prendere i Voti.
Tutte le certezze di una vita, però, crollano quando il giovane, durante la cerimonia, incontra lo sguardo di una bellissima fanciulla, che sembra pregarlo con gli occhi di ripensarci, di vivere come un uomo invece di costringersi alla prigionia. Romualdo prende i Voti, ma il suo animo è turbato da una passione per quella giovane. Ella è Clarimonde, cortigiana dalla pessima fama, che muore di dolore tra le sue braccia, dopo averlo chiamato per avere da lui l’estrema unzione.
La notte dopo, però, la donna misteriosa sorge dalla tomba e rapisce il consenziente Romualdo, legandolo a una magica doppia vita che lo vede suo consorte ogni notte, in quel di Venezia, compagno di feste e divertimenti, e tormentato sacerdote durante il giorno.
Nemmeno scoprire che Clarimonde allunga la propria vita artificiale tramite piccoli sorsi del suo sangue riesce a liberare Romualdo da questo amore malato. Sarà l’abate Serapione a condurlo alla tomba della vampira, svelandogli la sua natura immonda e ponendo fine alla vita del mostro. Romualdo è libero…ma lo attende una vita infelice.
Théophile Gautier dà vita, a metà del XIX secolo, a un lungo incubo con risvolti psicologici molto moderni. E’ arduo dire – per noi come per Romualdo – se l’orrore si celi nella vita di privazioni all’ombra della Croce oppure nelle gozzoviglie amorose della barocca Venezia, accanto a Clarimonde.
La vampira di questo racconto è un personaggio che non è possibile definire semplice incarnazione del Male. In qualche modo presuppone ai vampiri di stampo più contemporaneo, afflitti da una dicotomia in cui la componente umana e sentimentale va a ledere l’oscurità del mostro, la sua non-appartenenza alle leggi di natura.
D’altra parte, Clarimonde è un nome con spiccata valenza benefica, luminosa. Una promessa di purezza e vita che stride con la sua fama di oscena cortigiana, conosciuta per le sue orge immonde e per il mistero delle sue tante vite. Anche il suo aspetto è angelico, da gran signora. I sentimenti che esprime nei confronti del protagonista sono intensi e riescono a restare quasi completamente incorrotti dalla fame insaziabile del vampiro. Clarimonde si contenta di strappare il suo amato alla devozione religiosa e di immergerlo nel vortice di passioni della vita, suggendo poche gocce del suo sangue approfittando del sonno, senza mai fargli danno fisico, senza mai preferirgli altre vittime e centellinando le proprie forze per non nuocergli. Un grosso sacrificio per lei, parrebbe, in quanto rischia perfino di spegnersi per consunzione pur di non approfittare troppo del sangue di Romualdo.
L’abate, al contrario, pur essendo paladino del Bene e della Luce lascia di sé una memoria ambigua, sgradevole, quasi violenta e distruttiva nella pervicacia con cui segue le tracce della possessione di Clarimonde e poi mette Romualdo alle strette, forzandolo ad una spedizione che porrà fine all’amore malato con la vampira, uccisa nella sua tomba dallo stesso abate con una foga e un trionfo morbosi, tali da far dubitare della purezza delle sue intenzioni.
Romualdo è un fantoccio, un uomo pavido che ha bisogno di qualcuno che gli indichi la via, quale essa sia. Il suo amore per Dio viene cancellato dalla passione per Clarimonde con un solo sguardo (magico o meno che sia), e quest’ultimo amore – capace perfino di non temere la sete mostruosa che affligge la sua compagna – non riesce comunque a dargli la forza di diventare in qualche modo protagonista dell’azione quando si trova costretto ad assistere alla distruzione di Clarimonde. Succube della volontà dell’abate, si limita ad assistere con orrore, senza muovere un dito né pro né contro di lei.
Una storia d’amore e orrore pervasa da una strana malinconia, da rileggere più volte per coglierne le tante sfumature.

sabato 7 giugno 2014

La metamorfosi e altri racconti

Franz Kafka (1883-1924) ci ha regalato uno dei personaggi più angosciosi e illuminanti sulla condizione dell’uomo all’ingresso del ventesimo secolo. Il suo Gregor, trasformato da un giorno all’altro in un grosso, scomodo e ottuso scarafaggio, è uno dei personaggi più emblematici della letteratura di inizio secolo scorso. Questa raccolta offre una panoramica più ampia sul mondo immaginario di Kafka, sulle sue inquietudini.
Si inizia con “La condanna”, in cui si assiste al duello verbale e mentale di un figlio col padre, in un alternarsi di stoccate che pian piano spostano i piani di forza dal figlio, che ha preso le redini dell’attività di famiglia e sta per convolare a nozze, al padre, che sembra un vecchio ormai alla fine ma rivela invece di possedere ancora tutta l’autorità necessaria ad avvilire e condannare le pretese del figlio.
Ne “La metamorfosi”, come si accennava poco fa, il commesso viaggiatore Gregor si risveglia scarafaggio, senza sapere come né perché. Non si rende mai pienamente conto dell’assurdità della sua nuova situazione, ma non può fare a meno di notare il disagio e il disgusto della famiglia, che se inizialmente soffre di questa maledizione, presto inizia a vedere Gregor non più come il figlio cui il fato ha riservato un brutto tiro, ma come l’incarnazione di tutti i loro problemi.
“Un medico di campagna” è una raccolta di brevissimi racconti allegorici, dal significato spesso intricato, pregni di una simbologia autoreferenziale e costruiti spesso con la struttura della fiaba. Il racconto successivo, “Nella colonia penale”, racconta di un esploratore messo a conoscenza di una orribile forma di tortura sui condannati, una pratica barbara che un fanatico militare difende strenuamente da ogni ventata di cambiamento e modernità.
“La tana” è il claustrofobico racconto di un non precisato animale la cui paranoia si è sviluppata fino a dominare la sua esistenza. Si chiude con “Un digiunatore”, fachiro dimenticato la cui capacità di fare a meno del cibo sarà portata ai suoi estremi.
Calarsi all’interno delle simbologie di Kafka non è cosa facile e chi desidera cercare di comprendere il significato di molti dei suoi racconti dovrà rassegnarsi a cercare dei testi di critica che li vivisezionino, oppure accontentarsi delle suggestioni personali che hanno preso vita durante la lettura.
Alcuni temi balzano agli occhi anche senza bisogno di conoscere la vita di questo tormentato autore oppure il lavoro di analisi dei critici. La percezione dell’autorità come una prigione che soffoca l’uomo, ne inaridisce lo spirito e lo trasforma in un essere abietto o infimo, ad esempio, spicca non solo ne “La metamorfosi” ma anche in altri racconti. I superiori sul posto di lavoro, così come figure importanti dell’esercito o del governo sembrano nate solo per vessare i piccoli, l’uomo “medio”, colui che si trova a dover abbandonare ogni sogno o velleità personale per adeguarsi a ciò che è socialmente utile o accettato. Anche le figure parentali appaiono di norma sotto il loro profilo negativo di prevaricazione e incomprensione verso i figli, simbolo di un’autorità più quotidiana ma non per questo meno restrittiva e castrante.
Quasi sempre, i racconti sembrano parlare un linguaggio comprensibile solo allo scrittore, come se fossero stati scritti ad uso e consumo del creatore. Si presentano al lettore come scrigni ermetici difficili da schiudere. Utilizzando spesso il linguaggio atavico della fiaba unito a una modernità disarmante, Kafka crea atmosfere di fortissima inquietudine.
L’identificazione con un animale compare più volte. Gli esempi più palesi di tale tendenza sono, come già detto, “La metamorfosi” e “La tana”. In entrambi i casi, l’animale prescelto ha abitudini schive, fa parte degli “ultimi” oppure desidera solo nascondersi al mondo. Incapaci entrambi di comunicare, il primo perché ha perso la parola e il secondo per la paranoia con cui guarda al mondo e a ciò che circonda la sicurezza della sua tana, vivono entrambi in una bolla di pensieri senza espressione, incapaci di farsi capire e al contempo sempre meno in grado di comprendere quanto sta loro attorno.
Un disagio crescente, profondo, che disumanizza e fa presagire il disastro come unica soluzione possibile. Una lettura impegnativa, dalle forti suggestioni.

mercoledì 28 maggio 2014

Erboristeria tutor

Ho un sogno. Un sogno modesto, in fondo, dettato dalla passione crescente per il potere curativo delle piante, forse acceso nel mio sangue dal bisnonno giardiniere che di queste cose se ne intendeva, e parecchio. Il piccolo sogno è quello di riuscire a mettere mano su un libro che mi spieghi davvero da dove cominciare per imparare a conoscere le piante, le loro potenzialità e a utilizzarle almeno a livello casalingo come rimedi per i mali più comuni.
E’ stato con questo spirito che ho acquistato il manuale che vi vado a presentare oggi: “Erboristeria tutor” di Anne McIntyre, edito da URRA Edizioni. La copertina promette: “Dalla conoscenza di base all’esperienza del professionista”. Andiamo a vedere se è vero.
Va detto subito che l’autrice è una vera professionista, il cui mestiere è proprio quello di curare i suoi pazienti con l’uso delle erbe. Le sue conoscenze non si limitano alla tradizione occidentale, ma sono state arricchite dallo studio approfondito delle filosofie e delle millenarie culture orientali. Si tratta, perciò, di una persona competente e ferrata sull’argomento.
Proprio per consentire a chi si avvicina alla materia di comprendere quanto sia vasto il tema e quante scuole di pensiero si siano affidate alle piante per riportare equilibrio al corpo e alla mente umana, il manuale prende il via con un ampio capitolo in cui queste tradizioni vengono illustrate in maniera semplice e interessante, offrendo uno strumento di conoscenza e comparazione che stimola all’approfondimento.
La fruizione del manuale cessa di essere alla portata di tutti sin dal capitolo successivo. L’autrice passa a illustrare i costituenti delle medicine erboristiche, utilizzando un linguaggio scientifico di livello troppo avanzato per i profani e senza un glossario che aiuti a districarsi con maggiore facilità. Il lettore alle prime armi non può leggere questo capitolo senza aver prima cercato altrove una spiegazione più “terra-terra”.
Successivamente viene illustrato, anche con gallerie fotografiche, quali sono i procedimenti standard di preparazione dei più semplici estratti: decotti, infusi, oli, unguenti, etc. La spiegazione ha valore generale e non specifico. Non si trovano ricette, ma solo indicazioni sulle proporzioni medie degli ingredienti e sui metodi di conservazione.
Si passa quindi al corpus principale del manuale, vale a dire un ampio schedario di piante officinali. Esso è preceduto da parecchie pagine con foto a colori delle piante, affiancate dal nome scientifico e da quello comune, per meglio osservare le particolarità della pianta ed essere poi in grado di riconoscerla dalle altre. A seguito della galleria fotografica, c’è il vero e proprio elenco di caratteristiche e proprietà, stampato su fogli verdi per permettere di riconoscere il capitolo anche a libro chiuso.
La scelta di separare le fotografie dalla spiegazione non è molto saggia e costringe il lettore ad andare a cercare la foto in un secondo momento, man mano che legge le caratteristiche della pianta. Un sistema decisamente scomodo, senza contare che molte piante non sono fotografate nella loro interezza, ma è presente solo il particolare della radice, o dei semi, cosa che lascia nell’ignoranza sull’aspetto della pianta all’origine. Vengono segnalati tutti gli usi possibili ma non c’è nemmeno una semplice ricetta d’esempio, cosicché tutto rimane su un piano teorico.
Molto interessante la sezione che prende in esame gli apparati del corpo umano, le patologie che possono affliggerli e le piante che possono essere utilizzate per alleviare o far scomparire le malattie. Purtroppo, anche in questo caso, non viene specificato come. Il manuale si chiude con un breve capitolo in cui viene spiegato a grandi linee come crearsi un orto ad uso personale e curare la coltivazione in base alle necessità delle piante prescelte.
Un testo di cui non si riesce bene a capire il target, con una grafica accattivante e un testo corredato da molte foto su carta lucida, come ad attirare il lettore medio, quando invece i temi trattati e il linguaggio sono assolutamente di nicchia e rivolti a professionisti del settore. Una certa confusione di intenti che rende inadatto questo manuale a chi si vuole avvicinare all’erboristeria. Consigliato solo a chi conosce la chimica e possiede altri testi da potergli affiancare per uno studio più pratico e meno empirico.

sabato 17 maggio 2014

Pantera

da www.qlibri.it

L’ultimo libro di Benni, appena uscito nelle librerie, è un dittico: una coppia di racconti con due fanciulle per protagoniste. La prima è “Pantera”, imbattibile fenomeno del biliardo, presentataci attraverso gli occhi adoranti di un adolescente in fase ribelle che si è fatto assumere come cameriere nell’inquietante e magica sala da biliardo dei Tre Principi, ove la misteriosa giocatrice regna incontrastata. La seconda è Aixi, una ragazzina che vive sulla costa, sensibile e selvaggia, il cui padre sta morendo di un male incurabile e il cui destino sembra essere quello di adeguarsi alle abitudini delle sue coetanee, per cui lei non prova alcun interesse.
Non è facile cercare di classificare la scrittura di Benni. I temi trattati sono adulti, a volte persino rudi, grezzi, quasi volgari. La forma narrativa, invece, si avvale della struttura della fiaba, con le sue figure archetipiche e le atmosfere oniriche, ove tutto diventa possibile. Ne risulta una favola destinata agli adulti, che parla il linguaggio della narrativa d’infanzia affrontando tematiche profonde che solo una psiche formata può arrivare a comprendere.
“Pantera” potrebbe tranquillamente trasformarsi in monologo teatrale e d’altronde Benni è altrettanto famoso come fecondo scrittore di teatro. L’autore titilla l’emozione, stimola la capacità di vedere personaggi e ambientazioni come se prendessero forma tangibile davanti agli occhi del lettore. Non è possibile rimanere indifferenti quando vengono pizzicate corde tanto profonde e con tale maestria. La tensione emotiva delle sfide al biliardo, la complessità del cuore di una donna, gli affetti perduti e il coraggio di ribellarsi al destino…Una commistione di età e di atmosfere che costruisce un mondo al contempo brillante e immerso in un fango torbido, oscuro.
La sensazione si avverte con estrema chiarezza in “Pantera”, costruito volutamente in un luogo liminare ove la vita di tutti giorni viene lasciata da parte per immergersi in una sorta di grotta oscura dove vincere è tutto, come succede al ragazzo che adora Pantera, il quale cerca in ogni modo di sporcarsi, di affondare, diventando membro di un mondo sotterraneo che però sa creare i suoi eroi. Nell’apparente leggerezza del secondo racconto, questa oscurità di manifesta in maniera più subdola, sottile, nelle consuetudini banali e consumistiche che tolgono spontaneità all’infanzia, come un veleno che corrode la magia dell’essere bambini.
Le protagoniste di entrambi i racconti sono giovani donne che la vita non ha graziato di particolare fortuna. Pantera è reduce da un’infanzia di soprusi da parte del padre, giorni di sofferenza che sono diventati leggenda e di cui nessuno conosce davvero i particolari. E’ stato allora che la piccola ha imparato a giocare a biliardo con il suo tocco micidiale, trovando da sé un territorio in cui essere padrona, imbattibile e intoccabile signora. Il suo personaggio inarrivabile è stato costruito ad arte e il nero di cui si veste serve a caratterizzarla quanto a nascondere il vero sé agli occhi di coloro che la sfidano.
Non è un caso se l’unico momento di cedimento le verrà dal suo opposto e complementare, quel magnifico giocatore vestito di bianco (un David Bowie campione di biliardo) che per la prima e forse unica volta le farà apparire una vita a due qualcosa di desiderabile invece che una condanna da evitare.
Aixi vive sola con il padre ormai malato terminale. La madre li ha lasciati, stanca della dura vita del pescatore, delle privazioni. Aixi vive ancora in un mondo in cui sogno e realtà convivono, una spiaggia di personaggi segnati dalla vita, che sanno vivere di espedienti e conoscono i segreti del mare e delle sue creature. Quali sogni può conservare ancora questa ragazzina che tra poco perderà tutto ciò che ha sempre amato e in cui ha creduto? Un atto di coraggio e incoscienza sarà la sua sfida all’ineluttabilità delle cose, un’affermazione di se stessa contro il destino e le trame di chi dovrà occuparsi di lei.
Una parola sulle illustrazioni di Luca Ralli, bellissime immagini in bianco e nero con un tratto dal sapore vintage, che si sposano alla perfezione con l’atmosfera dei racconti. Per quanto sia evidente l’intento fumettistico e quasi caricaturale delle illustrazioni, questo non toglie alcuna dignità all’opera di Ralli, che anzi interpreta in chiave grafica proprio quella ironia e quell’atmosfera da sogno che fanno da fondamenta ai racconti.

venerdì 2 maggio 2014

LIFE

Parlare di sé non è mai facile. Ancora più difficile dev’essere tirare le fila di una vita intensa fino allo spasimo, condita di leggende mai dissipate (volontariamente o per fantasia cocciuta di chi ci crede), densa di nomi, storie, fatti anche di portata storica. Un mondo magico e micidiale come quello della musica rock.
Keith Richards, il celeberrimo chitarrista dei Rolling Stones, ci si prova con questa imponente autobiografia, scritta con semplicità e senza fronzoli, senza maschere ma permeata di tutto il primordiale carisma che lo caratterizza. Per una volta, niente biografie scritte da altri, che sanno travisare o arrangiare ad arte i fatti e le parole, tratteggiando un personaggio che spesso si allontana parecchio dall’uomo reale, matto artista sempre sull’orlo dell’autodistruzione ma anche uomo di profondi affetti familiari e convinto assertore del valore dell’amicizia.
Richards condisce la sua autobiografia con alcune foto, private e non, dalla sua infanzia ai giorni nostri, una chicca per i fans. Con un linguaggio scarno ma preciso, racconta la sua esistenza fin dai primi anni d’infanzia, quando viveva con i genitori a Dartford, cittadina un tempo covo di banditi e nel dopoguerra triste angolo di provincia senza pretese.
I giorni di monello del giovane Keith erano già solleticati dalla musica. Il nonno musicista lo portava spesso a veder riparare gli strumenti, constatando il desiderio crescente del nipote per la chitarra. A scuola, la sua bella voce gli aveva valso il ruolo di soprano nel coro, unico raggio di sole in una carriera educativa noiosa, frustrante e densa di soprusi da parte dei compagni, cosa che gli insegnò ben presto a imparare a difendersi (ancora oggi Richards non si separa mai da pistola e coltello, che sa usare con maestria).
Le delusioni e la comprensione che gli adulti erano tutt’altro che infallibili, la percezione dell’autorità delle istituzioni come una prevaricazione dei propri desideri, condurranno Richards a quel fare ribelle che lo farà espellere da scuola mettendolo così nelle condizioni di dedicarsi a ciò che sapeva essere il suo destino: la musica.
Il chitarrista racconta quindi la difficoltosa genesi del gruppo originario dei Rolling Stones, i mesi passati a studiare come eremiti tutti i dischi del blues di Chicago, la difficoltà di ottenere serate e una paga che consentisse almeno di mangiare. Eppure, nonostante la difficoltà, tutti sentivano di poter sfondare, cosa che accadrà con una velocità sconvolgente, portando il gruppo in cima alle classifiche.
Richards non nasconde granché dei guai combinati da lui e dagli altri una volta entrati nel giro della discografia (per quanto il chitarrista non abbia mai amato lo star-system). Donne come se piovesse, un problema sempre più grave con la droga, culminato con una traumatica disintossicazione solo molti anni più tardi. I guai con la legge, veri o ricercati ad arte da quelle forze dell’ordine che vedevano nei Rolling Stones l’epitome della gioventù bruciata da punire e sopprimere. I problemi di una collaborazione tanto lunga fra persone con un carattere dominante e aspirazioni differenti.
Alle vicende della band si allacciano quelle sul piano personale, la famiglia e i figli, cui Richards è profondamente legato. L’autobiografia è una lunga passerella di persone che hanno significato molto per il musicista, un uomo che crede profondamente nell’amicizia e che conserva come tesori coloro che sente vicini al suo mondo e alla sua sensibilità. Molti i lutti, dovuti principalmente al male serpeggiante dell’uso di droga. Si scopre un uomo acculturato, un vorace lettore che sa sorprendere con citazioni imprevedibili.
Stupende le dissertazioni sui trucchi alla chitarra, sui tentativi fatti per scoprire un certo suono, un riff sfuggente, anche se forse apprezzabili solo da chi conosce la musica e suona uno strumento. Bellissimi i momenti di collaborazione creativa con altri musicisti. La prosa conserva sempre un’autoironia che impedisce al testo di diventare stanco o ripetitivo, fornendo numerosi spunti per la risata e coinvolgendo il lettore senza alcuna captatio benevolentiae.
Imperdibile per coloro che amano i Rolling Stones e il panorama musicale degli anni ’60.

giovedì 24 aprile 2014

Doctor Sleep

Questa è la storia di Daniel Torrance, un uomo speciale che da bambino è scampato agli orrori di un hotel infestato di mostri ma che da adulto non è riuscito a sfuggire all’alcol e alla droga. Per ripulirsi e tornare a rispettare se stesso, Danny frequenta gli Alcolisti Anonimi e lavora in una casa di riposo per anziani, ove diventa famoso come Doctor Sleep per la sua capacità di accompagnare serenamente i pazienti al momento della morte.
A sconvolgere la vita ancora dissestata di Danny ci pensa Abra, una bambina col suo stesso dono, presa di mira da una tribù di vampiri della “luccicanza”, il potere psichico che li caratterizza. Il Nodo è sulle tracce della ragazzina e vuole ucciderla come ha già fatto in passato con tanti altri bambini. Inizia una lotta micidiale che riporterà Danny nei luoghi più orribili della sua infanzia.
Ovviamente, l’uomo che ha scritto “Shining” non è lo stesso che ha scritto “Doctor Sleep”. Sono passati molti anni, la scrittura di King si è modificata e i tempi sono cambiati. Questo si respira anche nel nuovo romanzo, che ha un modo di procedere e un carattere molto contemporaneo, in contrasto con le atmosfere anni ’70 che si respiravano all’Overlook Hotel.
Questo giusto per tenere buoni i puristi che avranno storto il naso al pensiero di un seguito di una pietra miliare nella storia dell’horror. King ha semplicemente risposto all’impulso di conoscere cosa è successo al piccolo Danny una volta cresciuto. “Doctor Sleep” è un romanzo a sé stante, leggibile anche senza aver gustato il capolavoro che l’ha preceduto.
Non mi soffermo sull’abilità di King nel tratteggiare personaggi e situazioni, non ce n’è bisogno. Voglio però sottolineare il coraggio dell’autore nel recuperare un “buono” per antonomasia e ficcarlo a testa in giù dentro una delle vite più schifose che ci si possa sognare per un bambino speciale e coraggioso. L’alcol che ha irretito e tradito suo padre ha chiesto di pagare dazio anche a Danny, imprigionandolo nella stessa maledizione e quasi cancellando tutti i suoi doni, ivi compresi l’intelligenza fuori dal comune e il buon cuore.
Danny è diventato un perdente, un rifiuto della società che avrebbe deluso sia la madre, ormai morta, che l’amico Halloran, perso di vista da un pezzo. Nessun lavoro che duri più di qualche giorno, la bottiglia sempre accanto, droga quando capita e ogni tanto una rissa scatenata da quella stessa nebbia rossa che ha fatto di suo padre uno dei mostri dell’Overlook. Un fallimento su tutta la linea. Chiunque sarebbe stato più clemente con un proprio, affezionato personaggio. Non King. La realtà fa quasi sempre schifo, e Daniel Torrance non si sottrae al calcolo delle probabilità.
Tirarsi fuori dalla palude e cercare di non morire prima dei quarant’anni prevede un cambio di domicilio, di frequentazioni, un impegno costante e senza sconti. Un vero e proprio riaddestramento presso la Alcolisti Anonimi, un lungo percorso di accettazione di se stessi e dei propri errori. E’ in questo che brilla il vero coraggio di Dan. Affrontare i mostri, salvare bambine in difficoltà, è certamente straordinario. Eppure, di solito il vero coraggio si dimostra nei piccoli gesti della vita di tutti i giorni. Nelle rinunce. Nel tener duro quando si vorrebbe solo annegare. Nell’offrire a chi sta peggio di noi la nostra presenza e il nostro aiuto, anche se fa soffrire. King è sempre un maestro nel tratteggiare persone vere e non stereotipi bidimensionali.
Abra è la versione del 2000 di questo bambino speciale ormai diventato grande. I suoi poteri sono immensi; la spaventano, ma le danno anche una sensazione di potenza che Danny non possedeva e che la rendono più arrogante e spericolata, meno capace di suscitare istinti protettivi. In alcuni momenti, anzi, perfino chi la aiuta è spaventato dalla forza che può mettere in campo e dall’aggressività senza freni con cui affronta chi la attacca. Un prodotto della società contemporanea, che rende i bambini molto meno innocenti di un tempo.
Come sempre, King si sbizzarrisce nel creare i “cattivi”, mostri che si nascondono tra noi travestiti da normali esseri umani. Peggio, un tempo lo erano davvero! Ora, cambiati dall’essersi nutriti dello “shining” come un vampiro del sangue, ne conservano le fattezze ma non la mentalità. Si spostano con camper superaccessoriati, sono ricchissimi e potenti, vivono in una tribù elitaria che gira gli Stati Uniti alla ricerca del cibo che li terrà sempre giovani. Un orrore subdolo perché celato sotto spoglie innocue, sadici torturatori di bambini speciali che non provano nulla verso le vittime ma sono ancora capaci di sentimenti l’uno per l’altro.
Una storia che forse si ammorbidisce troppo sul finire, ma che costringe a divorare una pagina dopo l’altra, come il Re ci ha abituati.

mercoledì 16 aprile 2014

Come rilegare i libri

Tutti, prima o dopo, abbiamo avuto la necessità di far rilegare qualcosa. La maggior parte delle volte si tratta di dispense universitarie oppure di cartelle di appunti personali o lavorativi. Un appuntamento molto comune è quello della tesi di laurea.
Di quando in quando, per chi ha la passione della scrittura, nasce la necessità di rilegare le proprie opere stampate, per uso personale oppure per una tiratura in copie limitate per la distribuzione ad amici e parenti. Ancora, può capitare di scoprire che uno dei nostri libri preferiti ha deciso di abbandonarci, perdendo la copertina o – peggio- qualche pagina.
In tutti questi casi, l’unica cosa che ci viene in mente di fare è recarci in una tipografia specializzata (spendendo spesso fior di quattrini) oppure recarci in negozi che effettuino la rilegatura a spirale, economica ma ingombrante e di scarsa durata nel tempo.
Eppure, imparare a rilegare da sé i propri libri non è così difficile e non richiede nemmeno un’attrezzatura particolarmente dispendiosa o ingombrante. Può trattarsi non solo di un buon sistema per risparmiare, ma anche di un’attività che offre una certa soddisfazione e può diventare espressione artistica nella scelta dei materiali e nella creazione di tomi ex-novo per agende, album fotografici, etc.
Il breve manuale “Come rilegare i libri” di Gianluca Marchesi, Marsilio Parolini e Vincenzo Sucato, edito con De Vecchi Editore, vuole proprio essere una guida alla portata di tutti che possa dar modo di imparare le tecniche fondamentali per confezionare da sé i propri libri ed effettuare le riparazioni di fortuna di quelli rovinati.
Corredato da molte fotografie a colori che seguono le spiegazioni passo per passo, il testo è adatto soprattutto a chi si avvicina per la prima volta a questo genere di lavori manuali. Con coerenza rispetto al contenuto, il libro è gradevole anche esteticamente, con una copertina in cartonato lucido e stampato su carta spessa e patinata.
Il capitolo iniziale introduce all’argomento offrendo per prima cosa un glossario specifico del libro e delle sue parti, con schemi esplicativi. Si passa poi alla descrizione di un laboratorio fai-da-te ideale, con un elenco degli strumenti necessari e loro funzione. Saggiamente, gli autori offrono alcune alternative ai ferri del mestiere più specifici e ingombranti (ad esempio, suggeriscono enciclopedie o altri oggetti pesanti in sostituzione delle presse professionali, in mancanza di spazi adeguati). Particolare attenzione viene data alla preparazione e alla stesura della colla per rilegare e ai materiali che possono essere utilizzati per creare le copertine.
Si passa quindi alle tecniche di unione dei fogli. Vengono illustrati diversi sistemi di cucitura, con ampio materiale fotografico d’esempio, e si mostra in che modo preparare la risma per la stesura della colla oppure come preparare un libro la cui copertina si è staccata per consentire la posa di una nuova.
L’argomento successivo è, logicamente, l’aggiunta della copertina. Per prima viene affrontata quella in brossura, più semplice e immediata, quindi si passa a quella in cartonato, che prevede più fasi e un’attenzione maggiore, oltre alla scelta del materiale di rivestimento adatto. A questo proposito si trova più avanti un capitolo ad hoc che illustra le caratteristiche di ogni materiale, sottolineandone sia le qualità che i punti deboli.
Il manuale offre molti spunti per la realizzazione di oggetti belli, oltre che funzionali, tramite un’ampia galleria fotografica di esempi e suggerimenti su come utilizzare i materiali di scarto o abbellire le rilegature con inserti di materiali differenti o nastri segnalibro.
Per concludere, vengono mostrati gli strumenti di punzonatura e di doratura per stampare i caratteri del titolo o le decorazioni “all’antica” sulle copertine.
Un testo agile e simpatico per avvicinarsi ad un’attività artigianale non molto conosciuta ma che può dare grandi soddisfazioni a chi ama i libri.

giovedì 10 aprile 2014

DNA

Il DNA è un acido nucleico contenuto, per l’appunto, nel nucleo delle cellule. Esso contiene la completa sequenza genetica di ogni essere vivente. Formato da due nucleotidi a doppia elica, si compone di gruppi fosforici, uno zucchero a cinque atomi di carbonio (il desossiribosio) e quattro diversi tipi di basi azotate, in grado di “incastrarsi” come chiave e serratura a coppie ben precise: adenina con timina, citosina con guanina. Dalla sequenza di incastri tra queste basi nascono le informazioni genetiche che danno all’individuo le caratteristiche basilari della sua specie e quelle personali che lo differenziano da chiunque altro.
Il DNA è un mistero potente e un’arma potenzialmente pericolosa, un miracolo che non cessa di stupire. Può servire a guarire malattie e a conservare specie in via d’estinzione come può costituire un mezzo di controllo sociale terrificante. Non stupisce che sia diventato motore di numerose fantasie letterarie. Il romanzo – o meglio, raccolta di racconti legati tra loro - che vado a presentarvi, fa della manipolazione del DNA il suo tema portante.
“DNA” di Rodolfo Viezzer, autore de “L’Uovo” che ho recensito qualche tempo fa, è edito in Italia con Aracne Editore. Racconti che inizialmente sembrano slegati l’uno dall’altro, tenendo la manipolazione del DNA come unica cifra d’unione, vanno pian piano assemblandosi in una narrazione univoca, in una storia completa vista attraverso molti occhi.
Nel primo racconto, si assiste all’efferato omicidio di un bambino. Solo le tracce di DNA scoperte sul giocattolo che portava con sé potrebbero dare indizi sull’identità dell’assassino. Le indagini della polizia vanno a intrecciarsi alla ricerca genetica di una scienziata cinese e porteranno a scoprire un triste segreto e ad un commovente atto d’amore.
Il secondo si immerge in un immaginario futuro in cui si è instaurato un nuovo regime autoritario con mire di conquista e controllo del mondo. L’arma definitiva, silenziosa e micidiale, consiste in un micro-ritrovato della tecnica installato nei corpi umani su scala mondiale e in grado di dare morte istantanea con la sola attivazione a base genetica. Le armi, però, sono sempre a doppio taglio…
La terza storia è una finestra su una piccola comunità gioiosa, che ha lasciato un mondo in guerra, grigio e diviso in caste ben precise, per trasferirsi su un altopiano lontano da tutto e tutti e vivere in pace, a contatto con la natura. Tutti sanno, però, che la magia potrebbe finire in qualsiasi momento. Se venissero scoperti, avrebbero solo due scelte: o rientrare nella schema sociale, o fuggire.
Nel quarto racconto, si scopre che i potenti della Terra hanno trovato modo di clonare se stessi per ottenere il potere, anche se i risultati non sono ancora ottimali e le grandi menti rischiano il cortocircuito. Nel successivo, una privilegiata che perde il suo status e viene esiliata in mezzo ai Verdi (la plebe condannata al lavoro), scopre che la vita vera è molto diversa dall’esistenza meccanica e liofilizzata che ha sempre vissuto e l’esperienza si trasforma in una corsa verso la libertà.
La sesta parentesi vede di nuovo protagonisti i cloni dei governanti, ormai attivi in più copie per volta, unire le forze per creare un super-dittatore. Nell’ultimo racconto, si assiste alla ricerca della città dei rifugiati, ormai diventata una specie di leggenda.
Purtroppo, contrariamente a “L’Uovo”, in questo caso Viezzer non riesce a centrare il bersaglio. Le sue idee sono ottime, molto vivide e interessanti. Non c’è banalità nei processi che lo portano a costruire le trame dei suoi racconti. I temi sono importanti, profondi, vanno a scavare nella psiche umana e nei meccanismi sociali, mischiando alla letteratura una denuncia della decadenza che caratterizza il consumismo e della tendenza mai sopita all’autoritarismo.
Proprio per questo motivo, però, la forma racconto diventa un’arma a doppio taglio. Le trame sono di troppo ampio respiro per essere contenute in così poche pagine. Ne risulta una trattazione affrettata, un rincorrersi di avvenimenti troppo celere che lascia disorientati e spesso insoddisfatti. Cose che avrebbero bisogno di quaranta pagine per essere espresse vengono concentrate in cinque. Questo taglia le gambe a una possibile affezione ai personaggi e non permette di soffermarsi a riflettere per un tempo congruo sugli argomenti sollevati.
Inoltre le pecche grammaticali e sintattiche sono molte, c’è un uso smodato del punto esclamativo e i dialoghi sono artificiali; queste caratteristiche vanno ulteriormente a rovinare l’effetto generale della raccolta.
Un vero peccato: i semi erano di ottima qualità, ma la pianta è cresciuta debole.

mercoledì 2 aprile 2014

La Mano di Gloria

In un futuro non troppo lontano, nello sfacelo sociale a cui hanno condotto le sconsiderate politiche occidentali, un gruppo di illuminati decide di portare il proprio attacco alla Cuspide, che nell’ombra governa le sorti del mondo. Chi per vendetta, chi per lucida scelta, chi per ideali di libertà, questi compagni si uniscono in una micidiale battaglia che possiede risvolti forse più profondi e antichi di una semplice rivoluzione del sistema: una lotta tra Luce e Tenebra, che affonda le sue radici nei sogni e in un passato ricco di poteri ormai dimenticati.
Questa immane saga italiana, scritta da Renato “Mercy” Carpaneto e suddivisa in tre volumi che non esito a definire mastodontici, è costruita con non comune intelligenza e coerenza. L’autore apre molteplici parentesi, inserisce nella narrazione moltissimi personaggi, eppure riesce a dipanare la storia riallacciandone tutti i fili anche dopo lunghe digressioni.
Non mancano, infatti, i momenti in cui ci si allontana – apparentemente – dalla trama principale. In un continuo passaggio tra il presente e il passato, l’autore ci svela fatti a volte molto lontani dal centro dell’azione. Inizialmente, il lettore può avere la tentazione di chiedersi se ce ne sia la necessità, magari guardando alla “pausa” con sospetto e un certo fastidio. A lungo andare, ci si rende conto che non uno di questi “fuori-pista” è inutile o corollario. Ogni vicenda narrata va a legarsi ai fatti principali, andando a formare un’importante frammento del mosaico finale.
La lotta senza quartiere de “La Mano di Gloria”  non nasce, come ovvio, da un giorno all’altro, né i personaggi si riscoprono paladini di una nuova giustizia senza esperienze pregresse che li abbiano condotti a tale decisione.
L’autore racconta le loro origini, dà ampio spazio alla storia delle famiglie che hanno dato i natali ai nostri eroi. Anche volendo fare i pignoli e i critici a tutti i costi, si rimane comunque affascinati e la lettura continua a scorrere senza problemi.
Il segreto, oltre a una buona prosa, risiede nella caratterizzazione dei personaggi. Ogni personalità de “La Mano di Gloria” è ben delineata, approfondita e peculiare. I protagonisti si fanno persone in carne e ossa, plausibili e perciò facili da amare o da odiare dal lettore. Uno spaccato di umanità varia, a volte portata perfino all’eccesso nelle imprese eroiche o malefiche di cui si fa promotore, eppure di rado sopra le righe o poco credibile. D’altronde, si sa che l’essere umano è capace di grandi cose quando i suoi intenti sono chiari e ha trovato la forza di tradurre le parole in azioni.
Il difetto dei romanzi, se vogliamo chiamarlo così, risiede nella stessa intelligenza con cui la storia è stata costruita. Si tratta di una lettura per pochi. Il gergo sfocia spesso nell’aulico e nel ricercato. Questo denuncia l’elevata cultura dell’autore (un soffio di speranza per la letteratura italiana) ma porta in superficie anche il calcolo con cui la prosa è stata ricontrollata e sistemata in fase di editing per ottenere una qualità lessicale di livello superiore, minandone in qualche punto la spontaneità. Abbondano i termini desueti, i sinonimi oggi quasi del tutto caduti nel disuso.
Per quanto la cosa possa ricordare con nostalgia la prosa dei primi del Novecento, e per quanto io apprezzi la cultura quando ne trovo, questa scelta opera una decisa discriminazione sul pubblico adatto a immergersi tra queste pagine. Il lettore medio, infatti, non è in grado di reggere la lettura di un simile romanzo. Le primissime pagine, una lunga descrizione, sono già in grado di fare da spartiacque tra chi avrebbe bisogno del costante supporto di un vocabolario e chi può permettersi di proseguire la lettura. Anche le molte digressioni richiedono un elevato livello di concentrazione nel lettore. Carpaneto sa passare facilmente a una scrittura più gergale, quotidiana, ma la si raggiunge dopo un buon numero di pagine, quando ormai il legame col romanzo si è instaurato o già interrotto.
Anche le ampie trattazioni sociali e politiche sono un’ulteriore sfida, che selezionano un gruppo ancora più ristretto di lettori appassionati, appartenenti a una cerchia fatta di interessi e ideali comuni.
Una saga che sceglie i suoi, scritta con magistrale abilità, e affiancata da un concept-album degli IANVA, il gruppo di cui l’autore è cantante.

martedì 25 marzo 2014

I Celti

I Celti costituirono una civiltà che si diffuse in gran parte d’Europa prima che l’Impero Romano la inglobasse, anche se non riuscì a cancellarla del tutto. Nonostante la capillarità con cui questo popolo occupò le terre europee e le isole del nord, la sua storia, le sue abitudini, religione e arte rimangono ancora oggi piuttosto elusivi e argomento di pochi studiosi appassionati.
Fa specie rendersi conto che nei libri di Storia non vi si faccia quasi menzione, nonostante i secoli di civiltà trascorsi come alleati o nemici di Greci e Romani.
Un Paese che ha presto riscoperto le proprie origini celtiche e ha iniziato una disamina oggettiva della valenza storica e delle caratteristiche di questo popolo è senza dubbio la Francia, antica terra di quei Galli che combatterono Roma con tenacia e che oggi i più conoscono grazie ai fumetti e ai cartoni animati di Asterix e Obelix.
Non stupisce, quindi, che sia uno studioso francese a distinguersi per una ricerca sull’arte celtica che le restituisca peculiarità e valore. Il saggio “I Celti”, pubblicato molti anni fa per la collana BUR Arte, è uno dei primi tentativi di indagare tematiche, stili, mezzi dell’arte celtica, separando le influenze mediterranee dalle caratteristiche proprie di una civiltà complessa.
Non si conoscono con esattezza le origini del popolo celtico. Di ceppo indoeuropeo, stanziatosi in diverse zone dell’Europa spostandosi dapprima verso Occidente e il Nord Italia, e poi di nuovo verso Oriente (scontrandosi con la cultura greca) e le Isole Britanniche, annovera quali civiltà fondanti La Tene e di Hallstatt, dal luogo dei primi ritrovamenti. Esse vedono i Celti diventare sempre più stanziali, organizzati in comunità stabili. Questo favorisce la nascita di un artigianato specializzato, solo in parte influenzato dai popoli mediterranei
Il saggio si articola in diversi capitoli corredati da immagini (purtroppo in bianco e nero), in una galleria fotografica che segue il testo quasi citazione per citazione; ciò che non è illustrato tramite fotografie, trova posto nella sezione finale, di cui parlerò in seguito.
La prima cosa che salta agli occhi nell’osservare l’arte celtica è la quasi totale mancanza di rappresentazione figurativa, si tratti del mondo animale o di quello umano. L’estetica vira decisamente verso l’inconscio, il mistero, il sogno, l’astrazione. Niente di più distante dalla contemporanea concezione artistica mediterranea.
Forse per questo motivo, è difficile creare una distinzione netta tra prodotto d’artigianato e prodotto artistico, e questo ha favorito il lungo oblio e la scarsa considerazione che l’arte celtica ha dovuto patire per molti secoli, prima di essere riscoperta e valutata per ciò che è.
L’artista celtico utilizza ogni superficie per farne un labirintico percorso visivo e mentale, un sentiero attraverso cui osservare il dipanarsi di elementi ritmati, simmetrici o speculari, o ancora liberi e caotici ma accostati con sorprendente armonia. Una decorazione prevalentemente lineare, ma non per questo bidimensionale. La tridimensionalità, al contrario, è alla base del pensiero artistico celtico e non permette alla semplice fotografia di trasmettere in toto le suggestioni dell’opera, che va al contrario maneggiata e osservata da tutti i lati.
Proprio a questo proposito, l’autore fa cosa saggia nel proporre, in fondo all’opera, una rielaborazione grafica bidimensionale delle decorazioni degli oggetti complessi, in maniera da offrire uno spaccato comprensibile della reale difficoltà di ideazione e realizzazione di questi manufatti. Spesso veniva utilizzato il compasso, per creare geometrie sempre più azzardate.
Anche la decorazione lineare conobbe il suo periodo “tridimensionale”, ed ecco quindi apparire sferette in rilievo, piccoli grappoli, torsioni dei fili metallici. I materiali su cui si lavorava erano i più vari, dal legno al metallo, alla pietra; si decoravano specchi e monili (celebri le collane a tampone, o torques), ma anche oggetti quotidiani dall’uso meno frivolo, come finimenti per cavalli e armi, o monete.
Le poche rappresentazioni umane sono primitive e simboliche, oppure mal copiate dalle opere mediterranee, ma offrono un piccolo spiraglio su una cultura e una mitologia che ancora oggi ci sono in gran parte sconosciute.
Un saggio intelligente pensato per storici dell’arte e appassionati.

giovedì 20 marzo 2014

L'ostinato silenzio delle stelle


“L’ostinato silenzio delle stelle” è una raccolta di racconti di respiro fantastico/fantascientifico che ha le sue radici nella partecipazione dell’autore al concorso nazionale RiLL, in cui si è distinto più volte. Per dare maggiore lustro a un talento che, secondo questa associazione, va tenuto nella debita considerazione, gli è stata data l’opportunità di pubblicare una piccola antologia di racconti, alcuni mai passati sotto gli occhi della giuria del concorso.
Malerba costruisce i suoi racconti ambientandoli in spazi prettamente fantascientifici come in contesti quotidiani o – addirittura – storici, facendo sì che il fantastico si insinui nella realtà cui siamo abituati e arrivi a sconvolgerla.
Molto efficaci alcune intuizioni. La prosa, in generale, è buona. L’autore non si perde in descrizioni pedisseque, né in parentesi aggiuntive su personaggi che vanno compresi semplicemente tramite la lettura. Non spreca parole, va all’osso dell’immagine o del concetto su cui fonda i suoi racconti. Purtroppo, si nota in più di un’occasione un uso improprio di alcuni termini unito a piccoli arcaismi leziosi nella costruzione di alcune frasi, dettagli che avrebbero dovuto essere rivisti prima della messa in stampa. Quando Malerba è “sul pezzo”, infatti, queste stonature spariscono, facendo capire che l’autore possiede ancora un buon margine di miglioramento.
L’uso delle proprie passioni come materiale su cui fondare i racconti è massiccio, non sempre condivisibile. La passione per il Giappone, per esempio, traspare in diverse occasioni ma spesso si manifesta con un fiorire di termini in lingua nipponica che possono solleticare un lettore a sua volta appassionato, ma confondere e annoiare chi non se ne intende. Un eccessivo, anche se innocente, sfoggio di erudizione all’interno di un’opera di narrativa non è mai una scelta felice.
Si passa da monologhi interiori a storie più convenzionali, in una ricerca di forme narrative che non si pone dei limiti. Alcune idee sono innovative, quasi sorprendenti. Altre danno l’idea di non essere state sviluppate a sufficienza e al termine della lettura lasciano l’impressione di qualcosa non perfettamente compiuto.
In generale, il gradimento risulta ondivago, ma non per questo negativo. Le storie di Massimiliano Malerba meritano la pubblicazione; hanno solo bisogno di un ulteriore lavoro di cesello.
La raccolta si apre con “All’alba”, una storia ambientata in un episodio chiave della storia giapponese e incentrata su un duello, un passaggio all’età adulta. Il guerriero scelto per tale duello, però, si rivelerà essere più che umano. La passione già citata per il Giappone si manifesta di nuovo, più avanti, con il racconto di pura fantascienza che dà il titolo alla raccolta: “L’ostinato silenzio delle stelle”. L’autore prova ad immaginare come e quanto i sogni di un uomo sotto sonno indotto, impegnato in una missione spaziale, possano sostituirsi alla sua vera vita e alle sue vere emozioni.
Un rapporto vagamente malsano con l’autorità emerge in due racconti, molto diversi fra loro. In “Il funzionario”, un uomo si confronta con colui che dovrà farlo morire, come previsto dalla legge. In “Il colloquio di lavoro”, invece, Malerba giostra con straordinaria bravura un colloquio come fosse un duello, in cui le parole e le forme retoriche sono le armi che spilleranno sangue.
“L’ombra” , “Nella notte assetata” e il racconto di chiusura “Corrispondenze” si fondano sui paradossi temporali, evidentemente un tema molto caro all’autore. “Le stelle d’inverno” parla del periodico ritrovamento di creature aliene, mentre “L’uomo lunare” è una spiritosa indagine giornalistica su un uomo che crede e ha fatto credere di aver posato piede sulla Luna.
Chiude la raccolta una breve intervista all’autore, per inquadrarne meglio i gusti e la personalità.

lunedì 10 marzo 2014

Le case del brivido

La casa è il luogo in cui, più di ogni altro, possiamo ritenerci al sicuro. E’ il nido che abbiamo costruito a nostra immagine e somiglianza, la sede dei nostri ricordi familiari. “Non c’è niente come casa propria” o “Casa dolce casa” sono detti comuni che sottolineano la componente di sicurezza e tranquillità che il concetto di casa instilla in ognuno di noi.
Cosa c’è di peggio, quindi, che dover pensare alla casa come un luogo improvvisamente ostile, pericoloso, potenzialmente letale o quantomeno disturbante? La casa stregata, magari infestata da spettri, è sempre stata uno dei soggetti preferiti dagli scrittori dell’orrore, in quanto va a toccare una corda sensibile e porta il paranormale entro una sfera che si considera sacra e che per questo è ancora più suscettibile alle sollecitazioni.
La raccolta di racconti che vi vado a presentare, edita da Newton Compton e curata da Martin Greenberg e Charles Waugh, raccoglie un gruppo di novelle molto diverse tra loro per stile narrativo e formula, ma legate dal denominatore comune della “casa maledetta”. Si incontrano nomi arcinoti della letteratura fantastica (come Bram Stoker, H.P.Lovecraft, Robert Bloch o Stephen King) affiancati a scrittori meno conosciuti.
L’argomento viene trattato con enorme differenza da uno scrittore all’altro. Vi sono coloro che recuperano e reinventano il cliché della casa abitata da una creatura demoniaca oppure dallo spettro di coloro che vi sono morti. Altri rendono la casa stessa un essere senziente e malevolo, con una sua volontà intrinseca che si manifesta a spese degli occupanti dell’edificio. C’è chi, poi, tenta la chiave fantascientifica. Altri si inoltrano nella psiche umana e distorcono la percezione della casa attraverso le menti malate dei suoi abitanti.
I curatori, con intelligenza, mescolano chiavi di lettura molto diverse tra loro, evitando che si generi noia nel lettore o che quest’ultimo sia in grado di prevedere cosa lo aspetta nel passaggio da una novella all’altra.
“La casa e il cervello”, di Edward Bulwer-Lytton, mette al centro della storia il potere della mente umana, strutturando il racconto come una lunga indagine che solo casualmente ha al suo centro una casa all’apparenza infestata. Sempre casuale il fatto che il luogo dell’azione sia una casa abbandonata in “Nessun posto per nascondersi” di Jack Chalker, racconto di fantascienza e viaggi nel tempo.
L’orrore si fa psicologico in “La carta da parati gialla” di Charlotte Perkins Gilman, in cui seguiamo la corsa verso la follia di una donna chiusa in una stanza, la cui carta da parati risveglierà un orrore inaspettato. Anche “Il gatto salta” di Elizabeth Bowen è giocato sul non detto, sulle dinamiche di un moderno gruppo di amici che forse tanto razionale non è. “Lizze Borden prese un’accetta…” di Robert Bloch si muove a metà tra il dramma psicologico e la possessione demoniaca, di cui la casa è esclusivamente palcoscenico. Il racconto “Uno dei morti”, di William Wood, fa scivolare l’orrore all’interno delle dinamiche di una coppia senza figli, trasferitasi in un luogo dalla storia controversa. In “L’oscuro vincitore” di William Nolan e “L’impronta dei denti” di Edward Bryant, il passato prende la sua rivincita sul presente.
Più aderenti all’infestazione spiritica e demoniaca racconti come “La casa del giudice” di Bram Stoker, ove un giovane matematico deve confrontarsi con lo spirito diabolico di un boia, o “La cosa in cantina” di David Keller, in cui un’entità spaventosa in cantina mira alla vita di un bambino. “La casa a Bel Aire” di Margaret St.Claire tratta l’orrore in maniera fin spiritosa. Molto meno spiritosi “L’uomo nero” di Stephen King e “I bambini ridevano così dolcemente” di Charles Grant, ove gli abitanti non desiderati della casa sono assolutamente ostili.
H.P.Lovecraft, ne “I ratti nei muri”, trova spazio ai suoi mondi e alle divinità nei recessi di una casa costruita sopra un tempio druidico. “La compagna di scuola” di Robert Aickman insegna a non impicciarsi troppo degli affari altrui. C’è grande poesia ne “La luna di Montezuma” di Cornell Woolrich, in cui la casa assiste ai delitti passionali di una donna dell’antica gente azteca e alla vendetta del sangue.
La casa è protagonista assoluta e terrificante in “La demolizione della casa di Greymare”, ove una squadra di demolitori scoprirà a proprie spese che l’antica dimora non ha alcuna intenzione di lasciare questo mondo. Buona lettura!

venerdì 7 marzo 2014

Wolf's Eyes


“Wolf’s Eyes” racconta la storia del giovane Stray, un italiano dal passato misterioso. Esperto di arti marziali e pratiche orientali, logorroico e simpatico appassionato di heavy metal, il ragazzo porta con sé i semi di un disastro planetario, ma ancora non lo sa. Il suo viaggio negli Stati Uniti, in una California che non lo accoglie esattamente a braccia aperte, gli porterà l’amore ma, soprattutto, la scoperta delle sue vere origini. Il potere risvegliato dentro di lui è però il veicolo dell’Apocalisse, una guerra divina iniziata prima che la memoria dell’Uomo potesse registrarla. Riuscirà a impedire la catastrofe e a salvare le persone a cui tiene?
La scrittura di Antonio Moliterni è acerba, ancora adolescenziale. Frequento il mondo delle fanfictions (storie scritte dai fans basate su fumetti/film/libri già esistenti) da molti anni, e il livello qualitativo medio nell’ambiente è proprio quello che ho ritrovato in questo libro. Una storia scritta con passione ma ben poca maestria.
Il lato positivo di questo romanzo è che è stato scritto con sincerità. E’ palese in ogni riga come l’autore ami la sua storia, la senta propria e la racconti senza artifici letterari, per il puro piacere di condividere la propria invenzione fantastica. Questo, purtroppo, non rende meno pesanti i difetti di “Wolf’s Eyes”.
La trama si fonda su cliché ormai conosciuti, benché sia interessante l’idea di creare una mitologia primordiale precedente la creazione del genere umano. I personaggi principali, per quanto simpatici, più che seguire la propria psicologia si piegano agli eventi per come li ha decisi l’autore. I personaggi corollari, poi, sono incarnazione di “tipi” talmente prevedibili da poter essere etichettati senza sforzo al primo incontro.
Gli errori sintattici sono molti e ingenui, e su questo punto la mia critica va anche all’editore, che non ha evidentemente fatto alcun lavoro di editing sul romanzo. Si nota anche dai numerosi segni di “a capo” rimasti in mezzo al testo dopo l’impaginazione finale e altri refusi sparsi qua e là.
I dialoghi oscillano pericolosamente tra due estremi che hanno ben poco a che spartire e che rendono frammentaria l’atmosfera di questo fantasy.
Nei momenti scanzonati, infatti, le battute si sprecano, in un insistere su un sense of humor molto personale che non avrebbe dovuto essere così imposto, in quanto non tutti i lettori possono viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda dell’autore, né aspettarsi ironia (per quanto simpatica) ogni volta che uno dei personaggi apre bocca. La storia è ambientata quasi per intero negli Stati Uniti d’America, ma il gergo, le frasi fatte e gli atteggiamenti sono decisamente italiani, cosa che contribuisce alla mancanza di atmosfera.
Quando l’autore abbandona il dialogo pungente e amichevole, si cade in una serietà da saggistica portata all’estremo. Il più grave difetto di questa storia, infatti, sta nell’uso che Moliterni fa delle proprie passioni, infilate a forza all’interno della trama. L’interesse per la matematica, per la statistica, per l’heavy metal, per il significato dei nomi, per le discipline orientali…Tutto è stato riversato nel romanzo come in un grande calderone.
Ora, lungi da me criticare la decisione di parlare di ciò che si sa. Ho sempre pensato che sia un’ottima strada da seguire, soprattutto per uno scrittore emergente, in quanto più facilmente darà sapore di verità alla sua prosa e concorrerà a farlo esprimere al meglio. C’è modo e modo di utilizzare le proprie passioni ai fini della storia, però, e Moliterni si concede il peggiore. Il protagonista, infatti, diventa un’enciclopedia vivente che ad ogni minima sollecitazione ambientale si lascia andare a filippiche lunghe pagine intere in cui sciorina con dovizia di particolari nozioni specifiche slegate dalla narrazione, anche se in parte applicate poi allo sviluppo della trama. Il fatto che persino i personaggi corollari lo prendano in giro per questo suo modo di fare, non aiuta a renderlo meno pesante.
Ingenuità di chi forse scrive per la prima volta e deve ancora fare molta esperienza come narratore.

lunedì 24 febbraio 2014

Raja Yoga

Lo Yoga non è una serie di esercizi per migliorare la stabilità, la flessibilità delle articolazioni o per trovare uno stato di rilassamento che decongestioni dalle fatiche quotidiane. Lo Yoga è una filosofia completa, la cui meta finale è l’abbandono delle umane necessità, degli attaccamenti al mondo materiale, e l’ascesa e il ricongiungimento con il divino, per liberarsi dal ciclo karmico.
Ne consegue che la visione occidentale di questa complessa filosofia è una versione quantomai semplificata e riadattata a bisogni materiali di qualcosa che mira al contrario ad una dimensione prettamente spirituale. Gli esercizi fisici e la meditazione sono passi per l’elevazione verso il Tutto da cui siamo originati, non semplici sistemi per migliorare la propria salute o lo stato mentale.
Esistono numerose vie all’interno della filosofia Yoga. A detta dell’autore del saggio che vi sto presentando, il guru recentemente scomparso Swami Kriyananda, il Raja Yoga (Yoga Regale) li riassume tutti e in questo testo egli offre la possibilità di accostarlo tramite lezioni ben mirate. Il percorso sarà certo molto più lungo della semplice lettura del testo, quindi l’autore consiglia di non affrettarsi tra le pagine, ma di procedere di pari passo con la pratica, una lezione per volta, dedicandole tutto il tempo necessario.
Le quattordici lezioni, corredate da fotografie, sono suddivise in sette aree di attenzione, il cui approfondimento è progressivo allo sviluppo del praticante e alla sua comprensione dei paragrafi precedenti.
Ogni lezione si apre con una dissertazione puramente teorica sulla filosofia yoga. Occorre conoscere il sentiero che si è intrapreso, se si vuole che la parte più pratica del cammino abbia un senso e possa manifestare i suoi risultati. L’autore mette in luce le caratteristiche delle varie vie, pone l’accento su cosa occorre fare e cosa no (una sorta di comandamenti, se vogliamo), parla di Kundalini e Chakra e sottolinea l’importanza dei maestri spirituali.
Segue poi una parte pratica in cui vengono illustrate le posizioni yoga, poche per ogni lezione e proposte in ordine di difficoltà crescente. Corredate da foto, le spiegazioni si soffermano su come entrare in posizione, mantenerla e uscirne, ma anche in quali occasioni evitare accuratamente di praticarle. Per ogni posizione, sono illustrati i benefici fisici e non che se ne possono ricavare. Per ogni lezione viene poi proposta una sequenza di posizioni che possa seguire i progressi dell’iniziato e aiutarlo a padroneggiare gli esercizi senza strafare.
Si parla moltissimo delle tecniche di respirazione, per un uso più cosciente del valore energetico e purificatore del respiro, nonché per un allenamento al controllo che torna utile nei momenti di meditazione (i cui sistemi vengono a loro volta studiati in una sezione apposita).
Si parla molto delle capacità di guarigione delle pratiche yoga, prendendo in analisi patologie e rimedi che questa filosofia indiana tramanda. C’è anche un’ampia sezione riguardo all’alimentazione, con consigli pro o contro determinati alimenti – con una propensione per un’alimentazione di tipo strettamente vegetariano – e una serie di ricette di facile realizzazione.
In questo modo, il libro vuole offrire una panoramica quanto mai ampia a chi volesse avvicinarsi all’illuminazione tramite la pratica quotidiana dello yoga.
Il saggio è esaustivo, ben scritto, facile da leggere e da seguire pur nella trattazione di tematiche difficili. Il tono discorsivo, a volte persino spiritoso, mette a suo agio il lettore. Parentesi più scanzonate, come ad esempio le ricette di cucina, permettono di non sentirsi in soggezione di fronte al percorso proposto ma di pensarlo come qualcosa che possa essere soprattutto positivo.
Ci sono alcuni tasti dolenti. I consigli sull’alimentazione, ad esempio, sono pericolosi se seguiti senza discernimento. Privarsi di certi alimenti di punto in bianco per seguire queste lezioni sarebbe dannoso per la salute, lo sconsiglio vivamente. Per queste cose è sempre bene essere seguiti da persone preparate. Inoltre, di quando in quando, l’autore si lascia andare a commenti o battute un po’ troppo sarcastiche nei confronti di coloro che non seguono la via yoga, mostrando quel tot di presunzione che non è mai stato di mio gradimento.
In generale, un libro completo che può aiutare ad avvicinare questa affascinante materia.

martedì 18 febbraio 2014

Un uomo a metà


Trovo sempre encomiabili le iniziative volte a riportare l’attenzione sulle pagine più drammatiche e fin troppo spesso dimenticate della nostra Storia. Ancora di più, quando si tratta di offrire a una voce del passato la possibilità di comunicare a un pubblico più ampio, di raccontare le proprie vicissitudini, le esperienze vissute. Ho avuto il piacere e l’onore di lavorare per alcuni anni in un Museo della Memoria e sono particolarmente sensibile all’argomento.
Quanti di noi, in un cassetto o in qualche scatolone riposto in cantina o soffitta, conservano ancora i cimeli e le lettere dei nostri nonni e bisnonni, soldati di guerre che sembrano al contempo lontanissime negli anni e drammaticamente attuali?
Franco Garrone si concentra sul diario di un sopravvissuto alla Prima Guerra Mondiale, un Bombardiere del Re che ha trascorso gli anni dal 1916 al 1918 sul fronte a combattere contro gli austriaci e poi sul Caucaso, chiamato sul nuovo fronte per meriti di guerra. Il soldato Augusto Fantato tenne un diario dettagliato delle sue avventure, sfruttando al massimo l’istruzione elementare ricevuta, lasciando ai suoi nipoti un’eredità inestimabile di vita vissuta.
Scritto in stampatello e corredato di disegni e di numeri ben delineati, come per una passione nascosta per la gradevolezza grafica della pagina scritta, il diario di Fantato è rimasto per molti anni un semplice cimelio di famiglia, ma l’impegno di Garrone ne ha fatto un libro vero e proprio, intitolato “Un uomo a metà” ed edito da Edizioni Amande.
Il giovane Augusto, lasciati i campi per lavorare nelle ferrovie, ritorna a casa per vedere la madre spirare nel suo letto. Traumatizzato dal lutto, il ragazzo si licenzia e si arruola nell’Esercito, in totale disaccordo con il padre e gli amici. Il trauma è stato troppo forte e la perdita incolmabile gli ha instillato nell’animo la voglia di morire. Combattere per la Patria gli pare il modo migliore per farlo onorevolmente.
Di stanza alla caserma di Novara, Fantato si distingue durante l’addestramento per la propria mira. Una dolce simpatia per una ragazza del posto non mitiga le sue drastiche intenzioni ed essere scelto come Bombardiere del Re lo riempie d’orgoglio.
Inizia così la sua drammatica esperienza al fronte, ove viene a contatto con la morte e la disperazione. Il fato, però, sembra volerlo privare del destino che si è scelto. Piano piano, il suo cuore torna a vivere suo malgrado. Le lettere di Lisa, la morte di tutti i suoi ex-colleghi di lavoro, l’aver salvato e accudito due bambini scampati per miracolo a un bombardamento, gli restituiscono il valore della vita e lo portano a sperare nel futuro.
Il testo, strutturato come un racconto aperto rivolto al nipote, si conclude con la copia di alcune pagine del diario originale, che consiglio di non sfogliare pigramente ma di leggere con attenzione, per gustare la vera scrittura di Fantato, con gli errori ingenui e i termini desueti della sua epoca, commovente traccia del passato.
Per quanto abbia apprezzato l’idea e l’impegno profuso in questa iniziativa, resta qualche appunto da fare all’autore. Purtroppo la prosa scivola via con eccessiva velocità, consentendo ben poco di soffermarsi sugli avvenimenti e sui sentimenti del soldato Fantato. Per quanto un’operazione di pura inventiva sarebbe stata poco rispettosa, una maggiore analisi del diario avrebbe sicuramente offerto spunti per conferire più profondità alla narrazione.
Anche il linguaggio ha le sue pecche. Piuttosto spesso l’autore sceglie di mettere in bocca ai personaggi frasi troppo costruite per essere credibili. L’analisi della scrittura del soldato attesta che il giovane si esprimeva in maniera corrente, non con un linguaggio a volte troppo intellettuale. Inoltre, di quando in quando, l’autore utilizza alcuni termini in maniera impropria o imprecisa. Piccoli difetti che non fanno apprezzare appieno la lettura di questo testo; rimane comunque un bellissimo documento per tutti gli appassionati.

martedì 11 febbraio 2014

Fuori e dentro il borgo

Oggi mi occupo di una raccolta di racconti intitolata “Fuori e dentro il borgo”, edita da Baldini&Castoldi, scritta da uno dei più famosi personaggi della canzone italiana. Sto parlando di Luciano Ligabue, cantante e autore rock che vi sfido a non aver sentito almeno nominare.
Che il cantante piaccia o meno, che si sia suoi fan oppure no, si sappia che Ligabue sa scrivere anche in prosa, e bene. Ha un linguaggio che sembra nato apposta per la forma racconto; non si tratta nemmeno di narrativa vera e propria, quanto di una sorta di trasmissione orale della memoria messa poi in stampa.
Nella raccolta che vi presento, Ligabue dà voce a uno spaccato di umanità verace, vitale. Nelle sue pagine si affastellano personaggi che incarnano “maschere” comuni a tutte le piccole realtà. Lo spaccone, il drogato, quello che ha successo con le donne, il gruppo musicale del paese, la vicina di casa stramba, la protagonista di un fatto di cronaca…Parla di gente vera, che vive o ha vissuto, e la restituisce senza fronzoli, consegnandoci brevi flash tratteggiati con maestria e crudo verismo.
Il linguaggio è gergale, a volte aspro, duro, volgare, ma mai eccessivo. Segue l’andamento della narrazione, affianca con la dovuta sincerità personaggi e situazioni molto quotidiani, che ci restituiscono l’atmosfera di un paese della provincia di Reggio Emilia, come tanti altri, con i suoi personaggi caratteristici e quelle atmosfere infantili e adolescenziali che oggi sembrano perdute per sempre, eppure non sono ancora così lontane nel tempo.
C’è molto teatro in questi racconti, non so se volutamente o per un fortunato intuito. C’è la fabula, l’inestimabile momento di rievocazione e scambio del ricordo, un passaggio dal narratore all’ascoltatore (in questo caso, al lettore) di eventi passati, che così vengono salvati dal trascorrere del tempo e dalla sua tendenza a cancellare tutto e restituirlo all’oblio.
I brevi testi sembrano fatti apposta per essere letti ad alta voce, magari recitati come monologo. Funzionano, sono diretti e spontanei, privi di tanta artificiosità letteraria mascherata da gergo quotidiano che infesta larga parte della scrittura che vuole raccontare la vita “vera”.
Alcuni racconti ci trasportano nel periodo dell’infanzia del musicista, raccontando bravate giovanili oppure offrendo un ritratto fatto di pochi, semplici tratti delle persone che hanno segnato la sua vita o gli sono stati d’esempio. Spesso si tratta di parenti. Toccante l’omaggio, ad esempio, alla zia Rachele, di cui Ligabue stimava la forza di carattere e la coerenza.
Vi sono accenni all’esperienza radiofonica che è stata raccontata anche nel film “Radio Freccia”, per la precisione nel racconto “Radio fu”, il cui titolo già dice tutto su come terminò quell’avventura. Una piccola perla è il racconto “La Cianciulli e l’Ermelina”, dove Ligabue adotta un formato su due colonne per narrare contemporaneamente di donne dal destino molto differente, unite da una conoscenza comune e dall’avere più o meno la stessa età: la serial-killer Cianciulli, che uccideva le amiche e ne faceva a pezzi i corpi per ricavarne sapone, e la nonna Ermelina, la cui passione indefessa era il gioco del lotto.
Oltre ad aprire finestre sul suo passato, Ligabue si mostra senza timore anche nel presente. Sono parecchi i racconti (a volte quasi in forma di libero scorrere del pensiero) che trattano dei momenti sul palco – vedi “Primomaggio” o “Lucianone e Lucianino”- oppure del dietro le quinte o ancora delle interviste (sempre uguali, a ben guardare). Ne viene fuori un’esistenza sicuramente esaltante e piena di soddisfazioni, ma anche stressante, a volte così esigente da portarlo all’insofferenza (“Non sei diverso dalle altre puttane”).
Vi sono poi i racconti-ritratto, quelli che si incentrano su un personaggio caratteristico del paese o che gravita attorno all’entourage del cantante. Incarnazioni di figure quasi archetipiche, costoro vengono tratteggiati senza pietà, sia nelle storie più divertenti – come nel racconto “Fantastico Savana”, che raccoglie le balle raccontate in dialetto da un reduce di guerra - che in quelle più drammatiche, intense (“Il girotondo di Freccia”).
Una lettura non facile quanto può sembrare, da gustare pian piano, senza correre. Una bellissima raccolta di racconti in cui si respira un’Italia che fu e una sana dose di rock.