lunedì 27 gennaio 2014

Compartimento 11


La scrittura di Francesco Amato è più nera della copertina scelta dall’editore. Più torbida, fonda, brulicante di Male. E’ relativamente facile narrare l’orrore. Molto meno lo è renderlo plausibile, lasciare che vi si immerga la vita di tutti i giorni. Durante la nostra esistenza incontriamo ripetutamente situazioni e persone che vivono al limite di questo mondo di tenebra. Spesso superano addirittura il confine, eppure non ci soffermiamo, lasciamo che l’esperienza scivoli via senza toccare davvero i nostri sensi se non nel subconscio, dove crediamo di essere in grado di nascondere la polvere sotto al tappeto.
Eppure, se ci fermiamo a pensare, quanti episodi di quotidiana malvagità ci sfilano davanti agli occhi? Il pregio della narrazione letteraria è quello di costringerci a soffermarci anche su ciò che non desideriamo vedere, sui volti nascosti e sui pensieri reconditi che portano al caos, alla follia, alla morte. Amato ci getta in una pozza di sangue e pazzia e ci lascia immersi fino al collo per tutta la durata di “Compartimento 11” (Tullio Pironti Editore).
Con una encomiabile maestria, l’autore tratta argomenti difficili che presuppongono una riflessione preparatoria di elevata profondità. Il piccolo Daniele vive in un paese campano ancora impregnato dei riti e dei precetti del cattolicesimo, in una famiglia in cui la devozione profonda della madre si scontra con la possessione diabolica della nonna, una folle che cita a memoria passi biblici e che è stata protagonista di un impressionante esorcismo.
La morte della madre e un’esperienza umiliante gli faranno valicare il confine della follia e lo renderanno certo di essere destinato a compiere dei rituali di sangue per mondare (e mondarsi) dal peccato.
Non è dato sapere se le visioni del bambino, le voci che sente e la trasfigurazione degli eventi quotidiani dipendano da un reale contatto con piani “altri” oppure se si tratta di un manifestarsi della tara ereditata geneticamente dalla nonna impazzita. Fatto sta che il piccolo crea attorno a sé un mondo parallelo che lo allontana sempre più dalla realtà e che lo spinge ad addentrarsi in una tenebra fitta, continuamente nutrita dalle azioni orribili perpetrate dagli adulti che lo circondano (il lubrico Padre Boris, la madre gettatasi sulle rotaie, la folle legata al letto dal proprio marito perché non faccia del male a se stessa e agli altri).
Il valore del sangue quale veicolo del ciclo vita/morte e la sacralità del rito del sacrificio si radicano in Daniele in un’estasi religiosa, diversa dal godimento meramente sessuale del macellaio che lo introduce al piacere dell’uccidere ma ugualmente esaltata e pericolosa. Il momento del trapasso della vittima diventa omaggio a Dio e portale verso stati di trascendenza che possano dare un senso a un vivere già condannato, corrotto.
La narrazione si sposta avanti e indietro nel tempo, in un fluire sconnesso di ricordi. Ciononostante, la prosa pulita di Amato non cede alla confusione. L’intreccio è perfettamente impostato, senza momenti di incertezza o incongruenza.
Per tutto il romanzo rimane senza risposta certa l’identità dei compagni di ventura di Daniele, quella Compagnia Dannata – la Banda degli Angeli – che lui costituisce in orfanotrofio accanto a Isabel, Emma e Altro, altrimenti detto Il Copista. Un gruppo dedito a sacre missioni di sangue, ognuno dotato di una personalità ben definita e di un ruolo preciso. Persone reali? Fantasmi di una mente malata? Oppure molteplici facce di un’anima in pezzi?
Sarà il commissario Elio Tortora a dover dare una risposta a questi quesiti, più un attonito spettatore di un dramma troppo grande che un vero antagonista, sullo sfondo di una tratta ferroviaria che è diventata ormai parte delle vicende sanguinose del protagonista.
Un romanzo viscerale, che chiede di essere letto senza interruzioni. Una lettura sofferta, intelligente e spietata.

lunedì 20 gennaio 2014

La Regina scalza

Reduce dalla lettura di “La cattedrale del mare” (potete leggere la recensione qui), in cui rivelavo di aver trovato nella scrittura di Ildefonso Falcones dei lati positivi che speravo potessero evolversi nelle opere successive, mi sono accinta alla lettura degli altri due romanzi scritti da questo autore.
“La mano di Fatima” non mi ha favorevolmente colpita, anzi. Per quanto la prosa fosse scorrevole e l’argomento di sicuro interesse (la rivolta moresca in Spagna), non ho avvertito alcuna affezione per i personaggi. L’elefantiaca dimensione del romanzo non ha aggiunto nulla alla trama e il mio interesse è scemato sempre più col proseguire della lettura. Contrariata, in quanto ritengo che questo autore spagnolo sia capace di ben altro, mi sono intestardita e ho caricato a testa bassa il terzo romanzo, “La regina scalza”. Il rapporto con questa storia è stato decisamente più intenso, ed ecco quindi la recensione.
Il romanzo prende in esame due piaghe rimaste nella storia d’Europa come macchie indelebili, su cui però spesso si fa un colpevole silenzio. Ricordiamo senza fallo gli orrori dei lager e dei genocidi del XX secolo, ma ci siamo scordati che episodi analoghi si sono verificati a più riprese nell’arco dei secoli, nella civiltà occidentale.
“La regina scalza” tratta sia della schiavitù dei neri, deportati dall’Africa e mandati a lavorare nelle piantagioni coloniali americane, diventando meri oggetti di proprietà la cui unica possibilità di essere liberi – di norma – era la morte, sia le contraddizioni e l’emarginazione del popolo zingaro, giunto in Europa da qualche secolo e fin da subito perseguitato per il disordine sociale di cui si è sempre fatto promotore.
Falcones cerca di gettar luce su questi aspetti imbarazzanti della storia spagnola (e non solo) facendoci vivere la situazione dal di dentro, scegliendo come protagoniste una schiava liberata, la bella e insicura Caridad, e la sfrontata zingarella Milagros, cui la vita insegnerà che i capricci hanno breve vita e la dignità è molto difficile da conservare.
Attraverso l’arco di alcuni anni, si dipanano le vicende di queste due amiche. La prima, abituata a subire e ad eseguire gli ordini, riscoprirà la propria femminilità, la bellezza dei propri canti dolorosi, la capacità di scegliere da sé il proprio destino, e troverà un uomo da amare senza essere costretta a diventare un oggetto sessuale, una bambola muta e obbediente. La piccola Milagros, ballerina e cantante assisterà invece all’arresto e alla persecuzione della propria gente. Impuntandosi su un matrimonio sconveniente con una famiglia rivale, pagherà sulla propria pelle la scelta sbagliata, perdendo la libertà e la dignità.
Falcones tenta l’azzardo di scegliere due donne come protagoniste, e riesce nell’intento di renderle vere e profonde, capaci di attirare il lettore nelle loro vicende e far desiderare di saperne di più, di leggere ancora qualche pagina prima di posare il libro sul comodino. Le descrizioni storiche e geografiche sono inserite con maggiore naturalezza rispetto alla prima opera, a volte perfino con l’utilizzo di dialoghi, mai troppo didascalici.
Lungo la trama si muovono molteplici personaggi, tutti dotati di una personalità propria, ben definita. L’orgoglio gitano si respira in ogni riga che Falcones dedica loro, pur nella descrizione priva di tatto dei loro difetti e dei loro mille modi di aggirare la legge. La pena e la desolazione di Caridad rispecchia il vuoto della schiavitù. La musica è il legante delle loro storie, espressione del dolore come della gioia, arte meravigliosa che restituisce umanità anche ai reietti, agli ultimi della società.
Le note dolenti iniziano a un centinaio di pagine dalla fine. A parte il crescendo di violenza (le descrizioni molto grafiche di stupri e omicidi non mancano e, a mio avviso, sono spesso gratuite), sul finire ho ritrovato i difetti che mi avevano fatto storcere il naso con “La cattedrale del mare”. I personaggi mutano considerevolmente in funzione di ciò che l’autore ha deciso di fare accadere e psicologie così ben modellate pagine prima sfumano e si sfaldano ai bordi, facendo perdere il contatto con le vicende narrate.
Si chiude con un finale quasi poetico, un’immagine davvero toccante, ma questo non cancella il calo di qualità dell’ultima parte del romanzo. Un libro divorato al 75%. Ci siamo quasi.

martedì 14 gennaio 2014

Essere attore

Il mestiere dell’attore è un mistero e difficilmente si accontenta di essere definito tale. Un mestiere è fatto di tecnica, esercizio quotidiano, abilità dettata dall’abitudine al lavoro. Per un attore, però, questo non è sufficiente. Il lavoro che gli si richiede coinvolge mente, corpo e spirito; chiede talento e istinto, che non possono essere del tutto sostituiti dalla tecnica, la quale va solo ad affinare le doti iniziali. Chiede un sacrificio costante, un ininterrotto rimettersi in gioco e reinventarsi. Non è per tutti.
Certo, c’è chi vive sul palco proprio come vivrebbe in ufficio: con dedizione al lavoro e mestiere si guadagna la pagnotta. Tra questi attori ve ne sono anche di indubbia qualità e non per questo motivo vanno denigrati. Il “vero” attore, però, va molto oltre questo onesto modo di approcciare il mestiere. Ricerca continua e una passione indomabile fanno del Teatro il fulcro di una vita, spesso a discapito del privato. L’arte teatrale chiede grandi sacrifici, quasi mai dà di che vivere dignitosamente. Eppure, è Amore.
Il saggio che vi presento oggi è un compendio di numerose interviste a grandi del teatro italiano raccolte dalla giornalista Annamaria Pertosa. Risalenti agli inizi degli anni ’80, queste interviste offrono uno spaccato della situazione del Teatro Italiano in un’epoca di transizione, quando ancora erano in vita gran parte dei mattatori dei decenni d’oro (da Gassman alla Borboni, da Albertazzi a Dario Fo) e si profilava all’orizzonte la nuova generazione di attori, che all’epoca ancora doveva affermarsi e tra cui oggi riconosciamo dei “mostri sacri” non meno grandi dei loro predecessori, anche se purtroppo meno numerosi di un tempo (Gigi Proietti, Loretta Goggi, etc.).
Edito da La Spiga, il testo si propone di offrire uno spaccato del mondo dello spettacolo italiano attraverso le voci dei diretti interessati, toccando alcuni argomenti ben definiti.
Viene chiesto, ad esempio, se si percepisce come tale il recente “boom” del teatro, un apparente ritorno del pubblico nelle sale dopo un periodo di abbandono e disinteresse. Le risposte al riguardo sono molto varie e le percezioni altrettanto differenziate. I più ottimisti speravano che la percezione fosse azzeccata e che la marea stesse cambiando. Altri, più lungimiranti, ritenevano fosse solo una parentesi di costume, una moda, e il tempo ha dato loro ragione (oggi, ad esempio, sembrano attirare solo gli spettacoli musicali).
Si parla dei pro e dei contro dei Teatri Stabili, centri di genio ma anche di grandissimi sperperi di denaro pubblico. Gli allestimenti faraonici, le scelte del testo dettate quasi sempre dai dictat del politico di turno, avevano già gettato discredito sui lavori degli Stabili, contrapposti alle sperimentazioni dei privati senza un soldo che finivano per scomparire. Si salva da questo fuoco di fila l’opera di Strehler, additato da tutti come un genio.
Parlando di genialità, la giornalista interroga gli attori su alcuni colleghi che, in un modo o nell’altro, si sono guadagnati una fama particolare. Si parla di Paola Borboni, da tutti apprezzata per le sue doti artistiche e per la fermezza con cui non ha mai esitato a sacrificare le proprie sostanze e se stessa per il teatro. Viene analizzata l’opera di Eduardo De Filippo e la difficoltà con cui si riusciva a pensare, all’epoca, alle sue opere prive della presenza dell’autore in scena. Ancora molto ancorati alla sua interpretazione, molti attori avevano pronosticato la scomparsa del suo teatro dalle scene, cosa che poi non si è verificata.
Un argomento su cui le opinioni si diversificano moltissimo è la reale valenza artistica di Carmelo Bene, da alcuni ammirato, da molti criticato per i suoi divismi fine a se stessi che lo allontanano dall’Arte.
Viene valutato l’apporto del regista nella creazione dello spettacolo e come il periodo del regista-dittatore stesse finendo per tornare a un più auspicabile equilibrio tra il suo lavoro e quello dell’attore in scena.
I brani più belli, però, si trovano in risposta a cos’è per ciascuno l’Attore, cosa ha significato diventarlo e vivere con questa etichetta. Cosa ha portato a ciascuno, cosa ha sottratto alle loro vite.
Una piacevole raccolta di testimonianze, con alcuni brani su cui chi fa teatro sarebbe bene si fermasse a riflettere.

martedì 7 gennaio 2014

L'isola dei monaci senza nome


Un nuovo autore italiano si sta facendo un nome scrivendo romanzi di ambientazione storica la cui trama gira attorno a misteri, indagini e segreti da custodire. Sto parlando di Marcello Simoni, uno scrittore che le recensioni amano oppure odiano. Il modo migliore di valutare quale campana dice il vero è leggendo una delle sue opere.
“L’isola dei monaci senza nome” è edito con Newton Compton. Narra le vicende del giovane Cristiano d’Hercole, figlio di una donna cristiana e di un pirata musulmano, che passa per essere custode di un segreto in grado di mettere in crisi la cristianità. Il giovane ignaro sarà edotto dal padre Sinan solo al momento della morte di quest’ultimo, durante un’incursione volta a rapirlo. Egli abbandona il nome cristiano, torna alla vecchia religione e si imbarca alla ricerca del segreto paterno, animato più da vendetta che altro, legato volente o nolente a grandi nomi storici e alle tensioni fra Occidente e Oriente.
Chi sarà il primo ad arrivare al grande segreto, al Rex Deus? Riuscirà il giovane Sinan ad avere la sua vendetta e l’amore della bella Isabel de Vega, della quale è invaghito?
Purtroppo, quando un genere invade il mercato, decidere di scrivere un romanzo che appartenga a quella famiglia diventa rischioso. In primo luogo, avviene un’inflazione dei temi portanti che già di suo può condurre a noia il lettore assiduo. In secondo luogo, la prevedibile comparazione con altri romanzi dello stesso genere chiede un livello qualitativo medio-alto per poter soddisfare gli appassionati.
Simoni non raggiunge questo risultato. La sua proprietà di linguaggio non basta a mascherare la scarsa profondità dei personaggi e la pretestuosità della trama, che diventa un coacervo di rimandi ai temi più inflazionati del mistero storico: i Templari, il Sator, le sette segrete, i catari…
Tutto ruota attorno a questo “segreto”. Veniamo catapultati nelle sue spire fin dal principio, senza introduzione, senza possibilità di trovare più aree di interesse nella nostra lettura. Tutto e tutti si muovono in funzione del segreto che distruggerà dalle fondamenta la religione cristiana. La cosa riesce a farsi un tantino snervante già dopo cinquanta pagine, perché i continui rimandi con frasi a effetto lasciano comunque il lettore all’oscuro in un continuo stuzzicare senza offrirsi, come una carota che continui a oscillare davanti al nostro naso: tentiamo di morderla finché non cominciamo a perdere interesse.
La prosa di Simoni è stilisticamente molto buona, chiara e precisa. E’ la sua capacità narrativa che presenta delle pecche. I suoi personaggi sono molto bidimensionali. Ci vengono presentati sotto una certa ottica, mossi da determinate intenzioni e guidati da sentimenti ben precisi, e tali rimangono per tutta la durata del romanzo. Non ci sono parentesi che possano creare un’affezione verso coloro di cui si seguono le avventure e manca totalmente una crescita psicologica che conferisca loro maggiore spessore. Il giovane Cristiano/Sinan passa in poche pagine da insicuro figlio adottivo del Signore di Piombino a spietato corsaro vendicativo, uso a ogni arma, alla navigazione e all’arte dell’intrigo come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita.
Inoltre l’erudizione storica dell’autore si manifesta nel modo peggiore, vale a dire con una sequela ininterrotta di termini specifici inerenti l’arte della navigazione, l’abbigliamento, le armi e le istituzioni religiose e di governo che possono risultare ostiche al lettore medio e non danno nulla di più alla storia in sé, conferendole anzi una certa aria da saggio storico non particolarmente piacevole. Non vi sono descrizioni chilometriche, questo no, ma il tono complessivo dà l’idea di rivolgersi a un pubblico con un elevato livello di istruzione umanistica, contrariamente al tema e alla promozione della casa editrice, pensata invece per la massa.
Un romanzo d’avventura non particolarmente riuscito.