martedì 27 dicembre 2011

Alchimia & Mistica

La Storia dell’Arte raccoglie in sé ben più di un solo campo della conoscenza. Un vero storico dell’arte, difatti, per comprendere le opere dei secoli passati o quelle contemporanee dovrebbe possedere conoscenze di storia, letteratura, epica, filosofia, estetica, teologia, storia delle religioni e – udite,udite- magia.
Il sapere esoterico, quell’insieme di nozioni che si rifanno al mondo dello spirito in modo più o meno svincolato dai pensieri religiosi convenzionali e che uniscono scienza e magia, è sempre stato intimamente connesso alla creazione dell’opera d’arte.
Molti artisti si sono fatti portavoce di conoscenze arcane affidandole alle loro creazioni oppure criptandole per gli iniziati all’interno di esse. Questo aspetto della Storia dell’Arte è stato poco considerato per molti anni, a fronte dell’imporsi del sistema razionalistico nella società moderna, ma pian piano questo bagaglio culturale inestimabile sta tornando a galla e viene studiato con il dovuto rispetto.
“Il Museo Ermetico - Alchimia & Mistica” di Alexander Roob, edito con Taschen, è per l’appunto un museo su carta che raccoglie opere pittoriche, scultoree e miniature il cui filo conduttore è la Grande Opera alchemica, il corpus di conoscenze ermetiche e le teorie che su di esse si sono sviluppate nel Medioevo e oltre.
Sull’alchimia se ne sono dette di tutti i colori. Si sa che era una “scienza” alquanto empirica che aveva come scopo ultimo la creazione della pietra filosofale, capace di trasformare qualsiasi cosa in oro e conferire l’immortalità. Questa, in realtà, è una lettura decisamente grezza degli scopi alchemici e si rifà principalmente alla scuola più pratica di questa disciplina. La moderna chimica deriva, d’altronde, dagli esperimenti alchimistici. Le stesse teorie newtoniane sono nate grazie all’alchimia.
L’Alchimia è prima di tutto una scienza dello Spirito, di ciò che è invisibile ma governa le leggi del Cosmo. Le sperimentazioni fisiche, scientifiche, sono solo il loro riflesso nel mondo reale dei Quattro Elementi, il Mondo delle Forme che l’essere umano abita con il suo corpo di carne. Il lavoro dell’alchimista si sviluppa in parallelo nello spirito e nella realtà, con lo scopo di raggiungere attraverso più gradi di sublimazione (nigredo, albedo, rubedo) il lapis, la pietra filosofale, la conoscenza perfetta di tutte le cose (il che, nella concezione escatologica cristiana, conduce alla riunificazione con Dio).
Dopo un’introduzione ampia ed esauriente volta a far conoscere la materia a chi vi si accosta per la prima volta e a rinfrescare la memoria a chi neofita non è, il Museo cartaceo si suddivide in quattro grandi argomenti: Macrocosmo, Opus Magnum, Microcosmo e Rotazione.
Per ogni argomento vengono presi in analisi i singoli aspetti, i nomi degli Elementi dell’Opera, il significato dei Pianeti e dei simboli, degli strumenti e degli obiettivi. Ogni voce del Museo Ermetico consta di una spiegazione e di numerose immagini di opere d’arte o stampe corredate da didascalie che ne forniscono dati e significato.
La lettura di questo testo è destinata a una nicchia di appassionati d’arte o di esoterismo; ciononostante riesce a conservare una notevole freschezza nella trattazione dell’argomento. Il testo a corredo delle immagini si mantiene su un livello di chiarezza che non ne mina la completezza e allo stesso tempo permette a chiunque di procedere alla lettura senza eccessiva difficoltà, nonostante la comprensione di temi tanto complessi sia sicuramente un affare che richiede ben più di una semplice sessione di analisi.
La stampa a colori su carta lucida permette di godere dei colori di oniriche e mistiche opere di grandissimi artisti antichi e contemporanei come dei nitidi bianchi e neri dei bulini e delle stampe, spesso antesignane tracce del percorso astronomico e chimico del pensiero scientifico.
La Taschen offre, come sempre, un prodotto stupendo ad un prezzo scandalosamente basso. Da premiare.

venerdì 16 dicembre 2011

La Saga di Shannara

Quando si parla di Terry Brooks e della sua opera magna, vale a dire la trilogia composta da “La Spada di Shannara”, “Le pietre magiche di Shannara” e “La canzone di Shannara”, bisogna partire dal presupposto di camminare su un terreno minato.
Brooks è un autore molto amato da una larga fetta di affezionati del fantasy e la sua continua ascesa in vetta alle classifiche di vendita ne è la prova. Al contempo, esiste un consistente zoccolo duro di appassionati che, se non lo detesta, perlomeno è ben lungi dal metterlo nell’Olimpo dei Grandi di questo genere. Per quale motivo? Analizziamo nel dettaglio.
Terry Brooks è un buono scrittore. Ha una prosa corretta, abbastanza scorrevole. Dà molta attenzione alle descrizioni di luoghi e dettagli, crea personaggi definiti e le sue storie sono costruite con precisione, senza pressapochismo o confusione. Spesso ha idee originali, sa essere divertente (come nella Saga di Landover, che tratterò più avanti nel tempo) e non si risparmia nel cercare di rendere più chiaro possibile al lettore in quale ambiente si sta muovendo.
Al contempo, la sua scrittura è fin troppo lineare, senza scossoni. Non ci sono né alti né bassi, si procede in acque tiepide di cui non si può dire né troppo bene né troppo male. Un po’ poco per uno scrittore della sua fama. Le parti descrittive sono a volte tanto lunghe da indurre alla noia, i dialoghi sembrano inseriti più per necessità di cambiare registro di quando in quando che per una vera intenzione di dar parola ai personaggi. Questi, dal canto loro, pur se ben tratteggiati faticano a trovare la loro vera essenza e a risaltare quanto basta da suscitare una vera simpatia in chi legge.
Non ho l’autorità di decretare se Brooks sia o no uno scrittore che merita il suo successo- tra l’altro ho apprezzato alcune sue opere- ma su una cosa non transigo: se mi trovassi davanti l’editore che gli ha pubblicato “La Spada di Shannara”, gliene canterei quattro e gli farei i complimenti per averci buggerati tutti presentandoci Shannara come la più grande novità del suo tempo. Il primo romanzo della saga, infatti, è una brutta copia de “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, senza nemmeno un vero tentativo di nascondere la cosa.
Sotto le mani di Brooks, la trama si fa noiosa, allungata come un brodo, del tutto priva della potenza e dei significati di cui Tolkien si era fatto latore. Cambiare nomi e dettagli è inutile quando la scansione degli eventi rimane la stessa, palese a chiunque abbia letto entrambi i libri. Il romanzo racconta di Shea Ohmsford, ragazzo in parte elfo, che viene mandato da un misterioso druido di nome Allanon alla ricerca della Spada di Shannara per poter sconfiggere il redivivo Signore degli Inganni. Il libro è stato con tutta evidenza costruito passo passo su uno schema ricavato dal romanzo di Tolkien. E’ sorprendente come questo libro abbia potuto essere anche solo preso in considerazione dal mondo editoriale. L’unico dettaglio degno di nota è l’ambientazione, un mondo che si scoprirà erede del nostro, distrutto dalle guerre, in cui gli uomini convivono ora con le creature del mito.
La saga riprende un po’ fiato nel secondo episodio, che si svolge circa cinquant’anni dopo le vicende di Shea. Il protagonista, stavolta, è il nipote Wil, il quale dovrà accompagnare la giovane elfa Amberle in una disperata missione alla ricerca del Fuoco di Sangue per permettere la rinascita dell’Eterea, l’albero magico che trattiene i demoni in un limbo tramite un divieto che sta cedendo. Sarà Allanon, come sempre, a tirare le fila dell’impresa. Benché anche questo romanzo inizi sottotono e le battaglie siano un evidente richiamo a quelle più viscerali del Fosso di Helm e di Minas Tirith, da metà in avanti la storia assume connotati propri, i sentimenti dei personaggi diventano meno schematici e più sentiti. Anche la figura del druido Allanon si discosta da quella del saggio Gandalf per velarsi di un’inaspettata fragilità.
Ne “La canzone di Shannara”, finalmente, Brooks prende una direzione tutta sua e racconta le vicende di Bri e Jair, i figli di Wil, in maniera più coinvolgente e con meno rimandi a Tolkien. La figura di Allanon viene eviscerata in profondità, conferendo un maggiore spessore umano alla vicenda.
Leggere Shannara oppure no? Ai posteri l’ardua sentenza. Se non avete ancora letto il Signore degli Anelli, siete di bocca buona oppure ritenete giusto dare almeno un’occhiata alle saghe che hanno portato il fantasy dove è oggi, allora la risposta è sì. Se siete ipercritici come la sottoscritta, lasciate perdere. Esistono tanti libri meravigliosi, a questo mondo…

lunedì 12 dicembre 2011

Il Signore delle Mosche

Ci troviamo su un’isola. Sì, esatto: un’isola deserta e incontaminata, nel bel mezzo dell’oceano. Una terra fatta per i naufraghi, se mai ne è stata inventata una. Difatti, questo sono i protagonisti del romanzo che vi accingete a leggere: naufraghi scampati a uno spaventoso incidente aereo. Fin qui, niente di nuovo.
Il cliché, però, viene subito evitato dalla natura di questi naufraghi. I sopravvissuti sono bambini di tutte le età, inizialmente in fuga da un Paese in guerra, che non hanno ben chiaro né dove fossero diretti né cosa è successo all’aereo che li stava trasportando. Sanno solo di essere stati scaricati in mare durante un attacco e di essere soli…chissà per quanto tempo.
L’isola, fortunatamente, sembra fatta apposta per accogliere i bambini nel più pacifico dei modi, permettendo di pensare positivamente al loro futuro. Ampie spiagge bianche, mare caldo, frutta abbondante. Il luogo ideale per una vita fatta di giochi, innocenza, meraviglia.
Sembra questo il contesto in cui muovono i primi, scanzonati passi Ralph, il biondo ragazzo carismatico, Piggy, il grassone miope sempre agitato e preso in giro da tutti, Jack, il capo-coro con manie di grandezza, e tutti gli altri piccoli.
Ralph viene insignito del ruolo di capo, sancito dal possesso di una meravigliosa conchiglia dal suono potente. Sarà lui a decidere come scandire la giornata dei bambini, a conferire ruoli e missioni e- su suggerimento di Piggy- a fare in modo che si possa accendere un fuoco per le segnalazioni, in maniera da essere ritrovati e salvati al più presto.
L’isola, però, è grande e misteriosa. Occorre esplorarla, verificarne i limiti, e i bambini avranno anche bisogno di una dieta alimentare che preveda il consumo di carne, quando possibile. Per questo motivo, i ragazzi più grandi decidono di esplorare l’isola. Scoprono così che la situazione non è tutta rose e fiori: nel folto sembra nascondersi qualcosa di oscuro e terrificante, forse una bestia d’incubo da cui bisogna assolutamente stare alla larga.
Inoltre, Jack diventa capo dei cacciatori e ben presto le sue rischiose avventure lo rendono più affascinante di Ralph agli occhi degli altri. Comincia così una degenerazione che si diffonderà come una malattia, fino ad arrivare alla follia pura incarnata nel nuovo idolo: la testa mozzata di un verro, attraverso cui si manifestano la voce e la volontà del Signore delle Mosche.
In questo terrificante romanzo del 1954, William Golding infrange il mito dell’infanzia innocente e “buona per natura”, dimostrando che in un ambiente selvaggio e privo di controllo anche gli infanti si comportano come gli adulti: creano gruppi, si scontrano, prendono comportamenti sempre più anarchici e distruttivi fino a sfociare nella violenza più efferata.
D’altra parte, ha una sua logica. I bambini esprimono senza filtri tutto ciò che provano, siano sentimenti positivi, come il cameratismo e il senso del gioco, oppure negativi, come la paura e la rabbia. L’uomo adulto è tale perché, in teoria, è riuscito a dominare le proprie pulsioni e a sottometterle alla ragione. Il fatto che il mondo sia nel bel mezzo di una guerra micidiale mostra, nel romanzo, come il livello degli adulti non sia poi molto differente da quello dei bambini. Viene solo ricoperto da una patina di maggiore serietà e civiltà, quando i processi psichici e sociali sono invece identici.
Golding è implacabile nel mostrare quanto poco può il raziocinio contro l’istinto. La caccia attrae, tenta, trascina tutti. Perfino Ralph desidera prendervi parte e resiste più per confusione e paura che per forza di volontà. Piggy, che incarna l’unico adulto presente sull’isola, diventa il bersaglio, il capro espiatorio di una situazione sempre più al limite.
Il Male si incarna nella testa di verro, nelle mosche che gli ronzano attorno e gli danno voce, ma il confine tra la Bestia demoniaca e l’orrore insito nella natura umana si confonde e si perde, lasciando aperta all’interpretazione la sua natura.
La speranza è lasciata nelle mani di un ragazzo che in fondo, a parte la bellezza e il carisma, non possiede né l’intelligenza né la forza per imporsi. Non riesce nemmeno a difendere il suo braccio destro, né il fuoco che dovrebbe richiamare l’aiuto degli adulti. Impotente, vede il paradiso trasformarsi in un inferno da cui non c’è scampo.
Una caduta negli abissi dell’animo umano, un romanzo indimenticabile e mozzafiato che dovrebbe essere presentato più spesso ai giovani lettori.

lunedì 5 dicembre 2011

Il Teatro giapponese

Il Teatro Giapponese è così profondamente ancorato alle tradizioni del magico Paese orientale da essere pressoché incomprensibile a tutti i profani. Difficile quindi che nasca un interesse tale da spingere ad approfondire la questione, anche per chi di teatro si occupa (ma solo nella sua accezione ‘occidentale’) o per i patiti del Giappone.
Nel suo “Il teatro giapponese”, stampato presso PAGINE, Pietro Seddio cerca di scrivere un saggio che sia da introduzione a un argomento veramente molto complesso, che necessita di molta pratica visuale oltre ad uno studio teorico.
Il teatro in Giappone affonda le sue radici nella tradizione religiosa, come anche in occidente, ma la sua evoluzione ha preso una strada molto diversa, tanto da diventare mezzo di comunicazione prevalentemente gestuale e spirituale. Il teatro occidentale è un teatro della parola, di analisi psicologica, in cui lo scorrere della vicenda ha un’importanza fondamentale. Quello orientale tradizionale ha valori e tempistiche completamente differenti. La trama è schematica, i gesti sono codificati, simbolici. Spiriti e personaggi in carne e ossa si susseguono sulla scena, in un continuo alternarsi di passato e presente. Le rappresentazioni sono accompagnate dalla musica, spesso la parte vocale è cantata (come nel nostro melodramma).
Seddio, riconoscendo la difficoltà dell’argomento trattato, inizia cercando di dare una panoramica sintetica ma esaustiva della storia del Giappone e delle sue radici religiose e culturali. Si sofferma particolarmente sull’analisi dello shintoismo, la religione animista locale praticata più come atteggiamento verso il Creato che come fede vera e propria, e del Buddhismo, giunto in Giappone dall’India e dalla Cina e affermatosi per lungo tempo come Religione di Stato.
Furono proprio i monaci i primi a diventare attori e registi di spettacoli paragonabili alle nostre rappresentazioni sacre medievali. Influenzati dalla musica e dalle danze coreane e cinesi, i giapponesi presero spunto dalle civiltà vicine per creare poi qualcosa di prettamente nazionale, peculiare dal principio alla fine.
L’autore entra poi nel dettaglio, spiegando origini e caratteristiche dei principali generi teatrali tradizionali.
Il primo della lista è il teatro No, oggi molto conosciuto anche in Occidente, anche se poco compreso. Il No è un teatro d’elite, per pochi, nato nei templi e nelle corti e portato avanti nei secoli con pochissime modifiche. Lo spazio scenico è quadrato, i posti per il protagonista e il narratore sono fissi ai due angoli del palco. Una passerella unisce le quinte al palco, consentendo il passaggio degli attori. Una sorta di veranda laterale ospita il coro. La recitazione segue schemi ben precisi, gli attori sono riccamente abbigliati e indossano maschere che ne identificano il carattere (volendo fare un paragone ardito, come nella nostra Commedia dell’Arte).
Gli argomenti trattati sono sacri, o tratti dalle antiche leggende e dai miti della terra giapponese. Di quando in quando vengono messe in scena storie di grandi eroi o santi. Solo gli attori maschi possono recitarvi.
Il secondo grande genere teatrale tradizionale è il Kabuki, nato in epoche successive in ambienti popolari. Inizialmente fatto da donne, prostitute, in seguito fu loro proibito e portato avanti prima da fanciulli (a loro volta usati per il piacere altrui) e poi da uomini, che si divisero i ruoli facendo nascere la figura dell’onna-gata, l’attore specializzato in ruoli femminili.
Il Kabuki è un teatro più passionale, fatto di amore, scontri, attualità, tanto da aver avuto fama di scabroso. Il tema del sacrificio è spesso presente, riflesso della cultura giapponese, ma le rappresentazioni conservano momenti di divertimento, gioia. La danza e la musica sono affiancate da una recitazione che si rifà alla tradizione delle marionette (ningyo-shibai). I costumi di scena sono curati e splendidi, la scenografia e il palco spesso vengono dotati di congegni e trabocchetti per ottenere spettacolari effetti speciali.
L’ultimo capitolo tratta dell’occidentalizzazione del teatro in Giappone, con la nascita di produzioni più vicine alla nostra concezione teatrale. Segue un glossario per aiutare il lettore a destreggiarsi attraverso i tanti termini giapponesi.
Purtroppo la recensione a questo saggio non può dirsi positiva. Una volta apprezzato lo sforzo e il coraggio nel presentare al pubblico italiano questo argomento di nicchia, su cui si trova pochissimo materiale, le critiche positive possono dirsi concluse.
Il testo è scritto male, pieno sia di errori di battitura che sintattici. E’ evidente la mancanza di un controllo di qualsiasi tipo sul testo prima della stampa. Le nozioni non teatrali sono fornite con poca chiarezza e spesso, conoscendo almeno in parte la situazione religiosa giapponese, viene il dubbio che l’autore non ne abbia colto il profondo significato esoterico.
Dispiace la totale mancanza di accenni al moderno Takarazuka, un teatro di sole donne che mette in scena spettacoli grandiosi e molto kitsch dal grandissimo successo.
Inoltre i termini giapponesi sono traslitterati malissimo, spesso nemmeno nello stesso modo da una pagina all’altra. L’autore ignora, o ha fatto a meno di utilizzare, la comune traslitterazione delle sillabe nipponiche.
La lettura è consigliata solo ai veri appassionati dell’argomento, che potranno utilizzare il saggio per farsi un’idea e continuare poi le ricerche altrove. In caso contrario, stasera leggetevi un romanzo d’avventura o guardatevi un film!

sabato 26 novembre 2011

La signora delle camelie

La signora delle camelieParliamo oggi di un altro classico, un romanzo che è stato fonte di ispirazione non solo letteraria, ma anche teatrale, musicale e cinematografica.
Mi riferisco a “La signora delle camelie” di Alexandre Dumas figlio, un toccante romanzo di metà XIX secolo che, strano a dirsi vista la qualità dell’opera e la sua importanza, non viene spesso introdotto quale lettura obbligatoria durante il periodo scolastico. Forse ancora oggi non ci siamo del tutto liberati da un certo, opinabile pudore verso argomenti scomodi quali la prostituzione, la vendita del corpo della donna per denaro.
Per chi fosse ignaro di quanto sto dicendo, ecco un breve riassunto della trama.
Il romanzo racconta la travagliata storia d’amore di Armand Duval, giovane di buona famiglia ma senza una rendita benestante, con Marguerite Gautier, bella e famigerata mantenuta parigina. Il giovane si innamora di Marguerite ben prima di conoscerla di persona, idealizzandola su un sentimento di amore puro e sincero che viene schiaffeggiato con violenza dalla realtà dei fatti: l’amore di Marguerite è in vendita, il suo aspetto da gran dama è dato dai soldi ben spesi ricevuti dai vari amanti.
Nonostante questa disillusione, Armand non riesce a smettere di amare la donna, la cui vita sregolata ha fatto scivolare in una malattia di consunzione che sembra aggravarsi sempre più. L’attenzione costante di Armand per il suo benessere, la sua gentilezza e l’ardore del suo amore infine toccano il cuore di Marguerite, che lo prende come amante preferito, senza chiedergli denaro in cambio.
Armand inizia così una vita frenetica che mette a dura prova il suo amor proprio. Il pensiero di dividere la donna amata con altri uomini lo esacerba, pur sapendo di essere l’unico legato a Marguerite per sentimento, e si dà al gioco per guadagnare il necessario a mantenere i capricci di lei senza toccare un soldo delle “donazioni” degli altri amanti.
La situazione sembra evolversi al meglio quando i due si concedono una lunga parentesi in campagna. Finalmente soli, lontani dal caos parigino, gli innamorati giungono all’idillio e si illudono che esso possa durare per sempre. Ci penserà il padre di Armand a spezzare il sogno impossibile: una sua visita a Marguerite per convincerla a lasciare suo figlio prima di condurlo alla rovina finanziaria e sociale segnerà la fine della relazione.
A questo si aggiunge l’aggravarsi della malattia della giovane donna, che porterà a grandi passi verso un finale drammatico.
Scritto con una prosa fresca, moderna, a tratti riflessiva, il romanzo scivola via con piacevole facilità pur lasciando profonde tracce di commozione e partecipazione nella vicenda dei due amanti. Il tema scabroso è affrontato con delicatezza, cuore e una buona dose di senso pratico svincolato dai precetti bigotti dell’epoca. Questo è dovuto al fatto che l’autore, per scrivere il romanzo, si ispirò ad una donna realmente vissuta di cui si era profondamente invaghito e che morì in giovane età dopo una vita altalenante tra eccessi e malattia.
L’amore è solo uno dei fili conduttori della trama. Sopra ad ogni cosa impera il denaro, il materialismo di un’epoca che ha fatto da apripista alla nostra. Tutto può essere comprato e venduto, anche i sentimenti. Tutto ruota attorno alla disponibilità o alla carenza di denaro, al mercato dei beni, ai debitori e ai creditori. Uno spaccato impietoso della società contemporanea.
Poco dopo aver pubblicato “La signora delle camelie”, Dumas scrisse una versione teatrale che ebbe un ottimo successo. Questa, a sua volta, ispirò il grande Giuseppe Verdi, il quale decise di musicare la storia e, con qualche modifica alla trama e al carattere della protagonista, farne un melodramma.
Nacque così “La Traviata”, in cui la protagonista si chiama Violetta Valery e l’ago della bilancia si sposta sul puro amore più che sulla grettezza della società borghese.
Un romanzo senza tempo, impietoso e sentimentale, contraddittorio come la capricciosa e sofferente Marguerite.

mercoledì 23 novembre 2011

Le antiche civiltà antidiluviane

Quando si parla del remoto passato, di ciò che conosciamo riguardo al principio di ciò che chiamiamo Storia, scienziati ed eruditi si dividono fondamentalmente in due scuole di pensiero: i tradizionalisti e i revisionisti.
I primi raccontano che l’Uomo ha raggiunto livelli sociali e culturali tali da creare società complesse, mitologia, arte e scrittura quattro – cinquemila anni fa. Prima di allora, il genere umano era composto da esseri primitivi che per qualche milione di anni si sono evoluti fisicamente ma non a livello sociale – culturale.
I revisionisti contestano questa scuola di pensiero, reputandola antiquata e cieca di fronte ai nuovi reperti che contraddicono tali affermazioni, spostando la datazione di alcuni millenni indietro. Pecca dei revisionisti è, purtroppo, l’aggrapparsi disperatamente a una teoria cospiratoria che giustifichi l’ignoranza riguardo alle nuove scoperte oppure il partire per la tangente inglobando nell’equazione catastrofi cicliche, extraterrestri, antiche civiltà dotate di armi laser e veicoli volanti.
Questo eccesso di ardite ipotesi spesso fa passare completamente in secondo piano le legittime e interessanti domande che stanno alla base del movimento revisionista.
In “Le antiche civiltà antidiluviane” di Ian Lawton (Newton Compton Editore), l’ipotesi di civiltà precedenti quelle da noi considerate alla base della Storia viene presentata attraverso uno studio comparato delle mitologie mondiali, il lavoro dei revisionisti più o meno accaniti e sulla base del concetto karmico per cui la vita dell’Uomo sulla Terra ha uno scopo spirituale ben preciso, che la civiltà tecnologica tende a disgregare e pervertire.
Non temete comunque di trovarvi in mano un saggio che vi insegni a vivere in maniera retta e timorata di Dio. Qui si fa filosofia, tramite l’esoterismo e il mito, nonché l’analisi delle più recenti scoperte scientifiche.
Partendo dal concetto filosofico per cui il corpo umano è, sulla Terra, il ricettacolo ideale per ospitare l’anima e favorire la sua evoluzione, Lawton cerca di scoprire come e quando l’Uomo è diventato un essere dotato di parola e pensiero profondo e se è mai esistita una civiltà progredita – più spiritualmente che tecnologicamente- antecedente a quello che conosciamo come Diluvio Universale.
Tracce di una grande catastrofe per acqua si trovano praticamente in tutte le mitologie mondiali; questo è un particolare da tenere a mente. Nella prima parte del saggio, l’autore cerca di separare il mito dalla realtà evidenziando le somiglianze, quando non le identiche descrizioni di fatti, nelle antiche narrazioni. Si aiuta con il lavoro di altri antropologi e scienziati, mettendo in evidenza il comune ricordo ancestrale di una civiltà potente nello spirito poi degradatasi e spazzata via da un cataclisma.
Critico sia nei confronti dei tradizionalisti quanto dei revisionisti più accaniti, Lawton tenta di trovare prove a giustificazione della sua visione karmica del mondo senza sforare in ipotesi assurde e dando al lettore un panorama piuttosto esaustivo di quali sono le teorie alternative che oggi animano la comunità scientifica.
La seconda parte si spinge ancora più a fondo nella scienza e valuta i reperti archeologici, gli studi astronomici e geologici compiuti per definire modi e tempi di eventuali catastrofi sul nostro pianeta. Offre inoltre una cronistoria del mito di Atlantide e dei vari “continenti perduti”.
La terza parte è più esoterico-misterica e analizza nel dettaglio le varie scuole di pensiero e i loro obiettivi di conoscenza ed evoluzione spirituale, nonché le ultime scoperte della fisica quantistica.
Nonostante i buoni tentativi di obiettività, l’autore non sfugge qua e là ad un certo campanilismo verso il proprio modo di concepire la Vita, ma si perdona facilmente in quanto l’intero saggio si basa, in fin dei conti, su un punto di vista karmico. Il vero difetto dell’opera è un editing pasticciato; molto strano, per un testo edito dalla Newton Compton.
Consiglio questo testo a tutti coloro che sono interessati ad aprire nuovi orizzonti alla conoscenza, a chi si interessa di esoterismo e di antropologia. Se invece vi avvicinate per la prima volta a questi argomenti, meglio rivolgersi prima a saggi meno sfaccettati e onnicomprensivi, per evitare di confondersi in mezzo ai tanti nomi e alle più svariate teorie. Tenetelo buono per quando ne saprete un po’ di più.

lunedì 21 novembre 2011

Vlad Dracula

Vedendolo sullo scaffale della libreria ho avvertito una immediata attrazione. Amo la letteratura vampirica e ho una passione particolare per il personaggio storico di Vlad, principe di Valacchia. Allo stesso tempo, prima dell'acquisto sono stata tormentata da alcuni dubbi.
In primis la copertina, la cui scelta grafica – l’uso di uno splavido color rosa di fondo- è poco felice. Inoltre, quando compro la biografia di un personaggio storico mi muovo sempre con i piedi di piombo. Quante volte, invece che una biografia seria e contestualizzata storicamente, capita di ritrovarsi in mano una versione pesantemente romanzata che a conti fatti ha poco a che fare con la vita del nostro oggetto d’interesse?
Sempre più si assiste alla comparsa nelle librerie di pseudo-biografie che manipolano dettagli e avvenimenti a piacimento dell’autore, per conferire al personaggio in questione la capacità di attrarre l’interesse e aggiungere suspence o romanticismo alla più fredda sequenza di fatti della vita di un normale essere umano. Ho un certo odio verso questa trasformazione di persone ormai defunte in personaggi da romanzo e questo mi porta a tentennare nell’avvicinarmi alla sezione biografica delle librerie.
Fortunatamente, l’acquisto di questo romanzo, scritto da Michael Augustyn ed edito dalla Newton&Compton, è stato immune da ripensamenti e rimpianti. Per un prezzo decisamente economico ci si trova in mano una biografia di Vlad Dracula degna di questo nome, pur se qua e là l’autore si prende delle libertà nel supporre alcuni dettagli.
L’argomento viene trattato generalmente con obiettività, coerenza storica, approfondimento. La prosa scorrevole, semplice, priva di affettazioni, accompagna con fare gradevole il lettore lungo un ampio lasso della vita di Vlad Dracula, Principe di Valacchia, offrendo dettagliati scorci della situazione socio-politica di quell’Europa che diede i natali, sfruttò e poi condannò un personaggio sicuramente sopra le righe, che più avanti divenne parte essenziale di una delle più grandi leggende dell’horror contemporaneo.
Augustyn, inoltre, offre uno spaccato storico molto vivido senza cadere nella tentazione di ostentare la propria cultura. Quando un romanzo a sfondo storico diventa un interminabile elenco di descrizioni minuziose, un catalogo di armi, strategie, vestiario o personaggi corollari, vien voglia di chiedersi perché l’autore non abbia scritto un saggio, invece di infierire sul povero lettore a cui è stato fatto credere di trovarsi in mano un romanzo che non necessiti di note a piè di pagina.
“Vlad Dracula” non cade in questo tranello. Offre spunti culturali senza diventare un trattato socio-politico o un militaria.
La Valacchia era un principato “cuscinetto” che stava a metà tra l’Europa cattolica e il Vicino Oriente musulmano, due realtà in costante e feroce guerra. Era un regno di fede Ortodossa, quindi vessato da entrambe le fazioni, che desideravano solo inglobarlo.
Vlad fu mandato in ostaggio al Sultano dal padre, insieme al fratellino Radu. Le atrocità di cui fu spettatore esacerbarono un carattere già duro e gli insegnarono che solo la forza e la paura creano una società ordinata. L’abitudine del Sultano di impalare i suoi nemici fu da lui adottata e portata alla “perfezione”, tanto da guadagnargli il soprannome di Tepes (Impalatore) e una fama di mostro sanguinario che dura tutt’oggi, nonostante i suoi contemporanei non fossero poi molto più pietosi e sensibili.
La narrazione inizia al momento del primo ingresso di Vlad in Valacchia dopo la morte del padre, al seguito di quei musulmani di cui è ancora ostaggio. La storia prosegue narrando del suo affrancarsi dalla prigionia per conquistare da sé il proprio regno, della sua storia d’amore tragica terminata con il suicidio della sua sposa, della sua guerra interna contro ladri e boiardi e della sua lotta indefessa contro tutti i nemici esterni, a difesa del proprio popolo anche a costo di diventare un mostro.
Le sue azioni e le alleanze politiche che allaccerà lo porteranno ad essere addirittura scomunicato, cosa che dopo la sua morte in battaglia contribuirà a creare la leggenda della sua mutazione in vampiro. Su questi ultimi dettagli della vita del Principe di Valacchia, l’autore lascia libera la fantasia in un capitolo conclusivo che dà spazio al mito.
Per tutti gli appassionati di Dracula e per chi vuole avvicinarsi alle radici di una leggenda.

domenica 13 novembre 2011

Il Principe del Mare e del Fuoco (Il Signore degli Enigmi)

Morgon di Hed è il Principe regnante di una piccola isola rurale, dedita all’amore per la terra e per i suoi frutti più che alle arti o alla filosofia. Questo rende ancora più particolare, quasi preoccupante, l’intensa passione del giovane per lo studio degli Enigmi. Morgon è pari a un Maestro della Scuola di Caithnard e si destreggia con sorprendente agilità mentale e intuito attraverso il complesso sistema mnemonico e filosofico che è alla base di tutta la sapienza del mondo governato dal Supremo.
Tramite lo studio e la comprensione dei fatti antichi, tramandati attraverso domande, risposte e interpretazioni, i Maestri conoscono se stessi e l’animo umano e sono in grado di offrire risposte anche su ciò che di nuovo si manifesta nel mondo, privato della magia da molti secoli e retto dai Re in base alle elusive ma fortissime Leggi della Terra.
Esiste però un enigma senza risposta e proprio Morgon ne è il latore e protagonista: cosa significano le tre stelle rosse che gli segnano la fronte? Cosa significa il titolo Portatore di Stelle?
Per trovare la risposta a questo enigma, Morgon si imbarcherà in un viaggio lungo e pericoloso verso il Monte Erlenstar, dimora del Supremo. Al suo fianco avrà Deth, l’enigmatico e millenario arpista del Supremo, sua scorta e silenzioso spettatore di una ricerca che si rivelerà micidiale. Altri esseri, infatti, pretendono la risposta a quell’enigma: gli antichi Signori della Terra, esseri senza nome e senza legge, i cui poteri potrebbero distruggere ogni cosa.
Così inizia “Il Maestro degli Enigmi di Hed” di Patricia McKillip, primo volume della trilogia del Signore degli Enigmi edita dalla NORD.
L’autrice costruisce un mondo complesso e colorato come un mosaico, sempre sorprendente, descritto con dovizia di particolari non solo nelle sue caratteristiche evidenti, ma anche nei sentimenti che l’hanno plasmato, nella forza e nelle caratteristiche di popoli mai scontati, creati con cura e cuore. E’ evidente un lavoro certosino di costruzione della Storia di un intero mondo, di legami e intrecci basati su concetti filosofici e psicologici espressi per enigmi.
La prosa della McKillip è più portata alla descrizione che al dialogo, e si caratterizza per un’atmosfera quasi sempre grave, seria, che lascia poco spazio al sorriso e ancor meno alla risata, ma questo tratto – lungi dall’inficiare il piacere della lettura- rende anzi più cari i personaggi che si muovono fra Hed e il Monte Erlenstar, facendoci partecipi delle loro preoccupazioni, dei loro dolori. Il mondo è sull’orlo di una guerra che non sa di dover combattere e la tensione si respira in ogni riga, ogni parola.
I personaggi, poi, sono profondi e intensi, umani e sfaccettati. Le relazioni interpersonali vengono sviscerate nel profondo. L’amicizia, l’amore, i complessi rapporti di rancore e attrazione fanno da perno all’intera vicenda, dando ai romanzi una connotazione più emozionale di quanto il genere fantasy normalmente faccia.
Nel secondo romanzo della saga, “L’erede del mare e del fuoco”, la posizione di protagonista viene ceduta a Raederle di An, figlia del re Mathom di An, fidanzata di Morgon non solo per amore ma anche a causa di una sfida di enigmi vinta dal giovane uomo. Ella sta ancora attendendo, dopo un anno, che lui torni dal Monte Erlenstar. Le ultime notizie la mettono però in un tale allarme da spingerla ad un colpo di testa. Con l’aiuto di Lyra, principessa guerriera di Herun, e della sorella di Morgon, si imbarca a sua volta per avere le sue risposte. Il viaggio la metterà di fronte alla scioccante consapevolezza di possedere lo stesso sangue della potente stirpe che vuole uccidere Morgon. Anche il risveglio dei suoi poteri si rivela un enigma la cui risposta può essere la morte.
Le fila si ricongiungono nell’ultimo tomo, “L’arpista del Vento”, in cui Morgon e Raederle finiscono invischiati nello scoppio delle ostilità, aggravate dal risveglio dei Maghi da una lunga prigionia e dall’apparente scomparsa del Supremo. Chi è veramente questo elusivo personaggio che tiene in mano le redini del mondo intero? Come possono essere sconfitti i Signori della Terra? Soprattutto: qual è il legame tra il Portatore di Stelle e il Supremo stesso?
Romanzi unici, spettacolari. Una lettura indimenticabile.

martedì 8 novembre 2011

Richard Matheson - I migliori racconti

Richard Matheson, autore di “Io sono leggenda”, è stato uno dei Maestri cui si è inspirato il conosciutissimo (e ultra-produttivo) Stephen King, il Signore dell’Horror contemporaneo. Leggendo i suoi racconti, la somiglianza nello stile è evidente. Chi ama il genere non può esimersi dal leggere Matheson (la raccolta in questione è edita da Fanucci Editore), autore tra l’altro di diversi episodi della storica serie di telefilm “Ai confini della realtà”.
Permangono comunque delle differenze sostanziali nello stile di questi due scrittori.
Ad esempio, la prosa di King è senza pudore, d’impatto, ma conserva un’impronta di dolcezza, di importanza dei legami fra esseri umani che sa redimere o sottolineare l’ingiustizia dell’orrore comparso nella vita dei protagonisti. Matheson non ha tempo per queste sottigliezze: le trame dei suoi racconti sono pugni nello stomaco, sferrati senza troppi complimenti né scuse successive. Questo è quanto offerto dalla casa: sta al lettore decidere se prendere o lasciare.
E lasciare costituirebbe un vero e proprio delitto, un atto di vigliaccheria. Fantascienza, fantasy, thriller psicologico…non ci si fa mancare niente. Qualunque argomento tratti, Matheson si palesa come un chirurgo (non particolarmente delicato) della psicologia umana e delle sue paure.
Il lieto fine pare sia per l’autore una scelta troppo scontata. Anzi, la concezione stessa di “finale” viene stravolta e ridotta in frantumi. Parecchi di questi racconti terminano nel bel mezzo di quello che chiameremmo “momento topico”. Questa antologia di racconti è un viaggio sulle montagne russe: c’è da tenersi forte.
Si comincia con “Nato d’uomo e di donna”, un inquietante racconto in soggettiva di un bambino che sembra avere caratteristiche ben lontane da quelle di un normale essere umano, rinchiuso in cantina dai genitori perché nessuno lo veda. Il breve ed estraniante racconto ci mostra la sua prigionia e la nascita nella sua mente innocente e primitiva di un sentimento di rivalsa potenzialmente fatale.
“Duel”, da cui è stato anche tratto un film, gioca sulla mai dichiarata paura dell’automobilista di fronte ai giganti della strada, i camion tanto mastodontici quanto pericolosi, incombenti sulle altre quattroruote in circolazione. Titilla, inoltre, l’umano senso di spiazzamento di fronte alla violenza gratuita, all’attacco senza motivazione, metodico e implacabile.
Cambiando del tutto atmosfere, “La danza dei morti” racconta di un futuro post-bellico in cui i ragazzi in cerca dello sballo si sfidano ad assistere alla macabra danza di corpi rianimati tramite esperimenti che poco hanno di scientifico e molto di orrendo. Gli occhi innocenti di una ragazzina trascinata suo malgrado a uno di questi spettacoli saranno il filtro attraverso il quale il lettore potrà assistere all’aberrazione.
La fantascienza più insolita si manifesta in “L’uomo enciclopedico”. Avete mai pensato alla conoscenza come ad una cosa pericolosa per la sanità mentale? No? Si vede che non vi è mai capitato di incamerare informazioni dai libri che vi circondano come se il vostro cervello si fosse trasformato in una spugna mai sazia!
Protagonista del racconto successivo, “La casa impazzita”, è un’intera abitazione, che per anni ha subito e assorbito gli scoppi di rabbia del proprietario. Ora che perfino la moglie ha abbandonato l’uomo, lasciandolo solo, la casa decide di prendersi la sua vendetta.
“La legione dei cospiratori” è una storia di ossessione, di rabbia in costante crescita. Il protagonista di questo racconto, irritato dalle azioni altrui in maniera sempre crescente, comincia a sviluppare dapprima la sensazione, poi la certezza, di essere al centro di una grande cospirazione volta a fargli saltare del tutto i nervi. Una storia fin troppo plausibile che non stonerebbe tra i titoli di cronaca nera.
L’horror nella vita di tutti i giorni si manifesta invece in “I figli di Noè”. Sulla costa orientale dei modernissimi Stati Uniti, un automobilista incauto diventerà ostaggio e potenziale vittima di una piccola, misteriosa comunità circondata da un inquietante silenzio.
Chiudono la raccolta “Il nuovo vicino di casa”, storia del Male della porta accanto, e “La preda”, in cui un feticcio di guerra prende vita per dedicarsi allo scopo della sua esistenza: la caccia.
Buona lettura!

domenica 30 ottobre 2011

Il libro degli esercizi per attori

Il libro degli esercizi per attori. Il meglio del training internazionale in 600 esperienze praticheNel magico e piuttosto sottovalutato mondo del teatro filodrammatico (amatoriale, direbbero i detrattori), una delle cose più complicate è trovare il tempo, il modo e i mezzi per fermarsi un attimo a studiare. Le piccole compagnie senza fondi cercano di riempirsi l’agenda di serate per far entrare i denari necessari a comprare il materiale di scena, pagare l’affitto del locale in cui si fanno le prove, procurarsi i costumi…e via dicendo. Questo crea un’attività frenetica che lascia poco spazio all’apprendimento e al potenziamento delle proprie facoltà.
Proprio per questo motivo, un attore dovrebbe (uso il condizionale per mera cortesia, ma servirebbe l’imperativo) tentare di arginare manierismi e automatismi esercitandosi in proprio nei momenti di libertà, studiando la storia del teatro e della regia, leggendo copioni e guardando spettacoli altrui.
Purtroppo in Italia non c’è un gran fiorire di saggi dedicati al teatro e al lavoro dell’attore. Nonostante la nostra secolare tradizione, come sempre tendiamo a sottovalutare l’importanza della preparazione culturale di un “artista” (nel senso generico di “chi fa arte”).
Qui vi presento un compendio di esercizi che, se letto con attenzione e applicato alla propria esperienza attoriale, può essere utile per imporsi una disciplina di potenziamento e migliorare le proprie prestazioni, nonché un’ottima fonte di ispirazione per quei registi e insegnanti che intendono vivacizzare i momenti di formazione.
“Il libro degli esercizi per attori” (di Patrick Pezin, per Dino Audino Editore) propone, con parole semplici, un training di circa 600 esercizi che si rivolgono a diversi aspetti dell’attività attoriale. In quindici capitoli, vengono toccati i temi principali della formazione di un attore, ognuno dei quali viene sviscerato tramite numerose sfide. Alcuni di questi esercizi possono essere fatti da soli, o riadattati per esperienze che non prevedano supporto o collaborazione. Altri, invece, sono ideati apposta per coinvolgere l’intera compagnia (o classe) in maniera da creare interazione e intesa.
Il primo capitolo si occupa del training, o riscaldamento. Il riscaldamento è una fase molto importante, che rende più vivo e reattivo tutto il corpo e aiuta ad evitare tensioni che possano influire sulla performance oppure danni dovuti a movimenti fatti “a freddo”. Anche l’attore è soggetto a crampi e strappi muscolari! Si continua occupandosi della reattività del corpo dell’attore attraverso una serie di esercizi di biomeccanica, da quelli più semplici – gestibili anche da un attore amatoriale- a quelli più ginnici, da tenersi buoni per chi ha una solida preparazione fisica o fa già sport.
Il terzo, lunghissimo capitolo è completamente dedicato all’uso della voce. La voce è la migliore amica di un attore, va controllata, seguita, coccolata. Attraverso esercizi di respirazione, di emissione del suono e di controllo vocale, il capitolo cerca di offrire un riscaldamento completo per questo delicato strumento.
Si passa quindi al rapporto dell’attore con lo spazio, una cosa spesso sottovalutata, e al legame tra attori in scena. Una particolarità del teatro amatoriale è, spesso, la mancanza di interazione fra gli attori. I gesti, gli sguardi, le battute non sono diretti all’attore che ci sta di fronte con intenzione, come faremmo durante un vero confronto, ma in maniera generica, non mirata, cosa che rende finta la recitazione. Gli esercizi di questo capitolo cercano di aiutare a creare un legame più vero, credibile.
I tre capitoli successivi stimolano la capacità sensoriale e immaginifica dell’attore, attraverso il ricordo controllato di sensazioni fisiche reali da trasporre nella recitazione. E’ poi al vaglio il rapporto dell’attore con il tempo, il ritmo e il movimento. La reattività e la puntualità del gesto di un attore sono fondamentali; questi due capitoli danno modo di mettersi alla prova, da soli o in gruppo. Ci si riposa con un lungo capitolo sulle tecniche di rilassamento. Dopo due capitoli di rievocazione del ricordo e improvvisazione, si conclude con una lezione tipo di Radu Penciulescu.
Gli spunti che si possono ricavare dalla lettura di questo eserciziario sono innumerevoli. Assolutamente consigliato!

mercoledì 26 ottobre 2011

Cronache marziane

Se dico RAY BRADBURY, due titoli saltano subito alla mente: “Fahrenheit 451” e “Cronache marziane”. Questo scrittore statunitense, grande esploratore del fantastico, per molto tempo è stato a torto relegato nei ristretti confini dello scrittore di fantascienza. Niente di più errato. Non che Bradbury non abbia parlato di viaggi spaziali, alieni e pianeti da colonizzare…tutt’altro!
La differenza sta nel fatto che uno scrittore di fantascienza si divertirà a riempirci la testa di dettagli tecnici, nozioni scientifiche, curiosità antropologiche, biologiche e chimiche che diano credibilità a quanto narrato. Bradbury non è uno scrittore di questo tipo. C’è il razzo, ci sono gli astronauti, ci sono gli alieni: tanto basta. L’importante, per quest’uomo, è la storia in sé. E’ la fiaba che si nasconde dietro ogni cambiamento, ogni nuova scoperta.
Gran parte degli affezionati lettori di fantascienza (come di tutti gli altri “generi puri”) tende a essere molto fiscale nel catalogare cosa rientra nella categoria e cosa no. “Cronache marziane” è un capolavoro di fantasia e poesia, più che di fantascienza. La mancanza di sostrato scientifico nella prosa di Bradbury dimostra che creare futuri plausibili non era il suo scopo. Allo stesso tempo, la sua lucida analisi dell’atteggiamento colonialistico umano – soprattutto statunitense, in questo caso- non si discosta affatto dalla realtà, anzi la mette in luce con sconcertante preveggenza (ricordiamo che “Cronache marziane” ha visto la luce negli anni ’50).
Il romanzo, in verità una raccolta di racconti legati tra loro come perle di una collana, apre brevi e vivide finestre su sogni e incubi di sconcertante bellezza, cercando di stimolare nel lettore uno spunto alla riflessione, all’introspezione di sé e dei difetti congeniti dell’Uomo. Una storia di distruzione e disperazione, ma anche di fede.
“Cronache marziane” narra le vicissitudini del pianeta Marte dal 1999 al 2026, secondo il conteggio degli anni sulla Terra. Il quarto pianeta del Sistema Solare non è un globo rosso e morto, in attesa di nuovi colonizzatori, ma un mondo abitato, ricco di una sua civiltà peculiare.
Questa civiltà, più stratificata e antica di quanto facciano pensare i primi racconti, viene dapprima solo vagamente sfiorata dai primi pionieri dello Spazio mandati in avanscoperta (quasi tutti i visitatori terrestri vanno incontro, in un modo o nell’altro, a una brutta fine), ma a conti fatti non riesce a sfuggire alla totale devastazione che l’Uomo porta con sé. Nel caso specifico, è una normalissima malattia terrestre a falcidiare la popolazione marziana.
Comincia così la colonizzazione di un pianeta morto, su cui si aggirano ancora i fantasmi di un’epoca che fu. Marte accoglie l’Uomo senza pensarne né bene né male, mentre sulla Terra la gente alza con speranza gli occhi al cielo nel tentativo di allontanarsi da una società sempre più contaminata dalla violenza (rappresentata dall’incubo dell’atomica, in quei vertiginosi anni di tensione seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, e dal razzismo imperante).
Nella lotta continua tra il Materialismo e il Sogno, si consuma l’epopea marziana, con un finale dolceamaro.
La scrittura di Bradbury non è per tutti i palati. La sua prosa è sognante, immaginifica, a tratti ridondante e barocca come un testo di Oscar Wilde. La definizione che meglio si adatta alla scrittura di Bradbury è “pittorica”. Divagando spesso dalla linea continua della trama, lo scrittore usa la parola per dipingere nell’immaginazione del lettore quadri surreali come un’opera di Dalì, estranianti come un Tanguy, delicati come un Lee. Chi è abituato alla prosa diretta e spesso scarna degli ultimi vent’anni, potrebbe trovare la lettura di “Cronache marziane” ridondante, complicata, ma è una semplice questione di abitudine. Chi ha già sviluppato un forte legame con le arti visive, invece, non potrà far altro che amarlo fin da subito. E’ il romanzo su cui ogni illustratore vorrebbe avere l’onore di poter lavorare.
Leggetelo con calma, assaporando ogni racconto come fossero assaggi della cucina di un grande chef. Non ve ne pentirete.

domenica 23 ottobre 2011

I fantasmi di Milano

Tendiamo tutti a sottovalutare il luogo in cui siamo nati, la città che ci ospita abitualmente. Spesso la conosciamo poco o niente, nonostante una vita passata dentro di essa come parte di una comunità frettolosa, senza storia. Quali sono i tesori della vostra città? Quali i monumenti, le chiese? Quali popoli hanno preso possesso del suo territorio, quali nomi famosi vi sono nati oppure vi hanno trovato ad attenderli la Nera Signora?
Mi stupirei se più del dieci per cento di chi legge questo articolo sapesse rispondere con competenza. Non è un appunto alla cultura del cittadino medio: è un semplice dato di fatto. La maggior parte di questi eventi non viene tramandata. Diventa una curiosità da topo di biblioteca, da chi frequenta per studio o per passione gli antichi archivi.
Se poco si sa degli eventi storici, delle bellezze artistiche o religiose che ogni città trattiene in sé, ancora meno si conosce di norma dei suoi miti, le sue leggende, i suoi fantasmi.
Giovanna Furio, in “I fantasmi di Milano” (Newton&Compton), ci accompagna in un viaggio alternativo attraverso una Milano misteriosa, ben nascosta anche ai suoi cittadini dietro la patina di efficienza e modernità che caratterizza da più di un secolo il capoluogo lombardo. Città fattiva per eccellenza, Milano non indulge in fantasie e spiritismo, ma pur nella sua razionale quotidianità conserva dentro di sé almeno un paio di millenni di vicende che non possono non aver lasciato traccia nel mondo dello spirito.
Qualcuno le leggende se le sussurra, le passa sottobanco al vicino, al figlio, al nipote; gli spiriti e gli eventi fuori dalla norma difficilmente vengono dimenticati del tutto.
L’autrice, con certosina pazienza, è andata a caccia di queste labili tracce e ce le presenta in questo volume, illustrato con stampe d’epoca della Milano che fu e delle sue trasformazioni. Il libro è un vero e proprio itinerario attraverso la città; potrebbe essere utilizzato come guida alternativa per il turista fai-da-te interessato più al mito che all’arte.
La raccolta spazia dalle storie di edifici infestati a quelli di vie ancora oggi percorse da spettri più o meno propensi a interagire con i passanti, dal tipico e folcloristico fantasma del Castello Sforzesco a quello più originale del monaco straccione che si mette a inveire contro i peccati altrui davanti al Cimitero Monumentale. Si scoprono nuovi volti di luoghi che magari si attraversano tutti i giorni per andare a scuola o al lavoro senza dar loro una seconda occhiata.
Purtroppo non si fa una vera distinzione tra i vari tipi di fenomeni paranormali, cosa che per un “cacciatore di fantasmi” invece riveste una certa importanza. Per essere chiari, i fenomeni di apparizione non sono sempre legati al vero e proprio permanere di uno spirito senziente in loco. Esistono edifici che, in determinate condizioni ambientali, sono in grado di “riproporre” visioni di scene che si sono svolte al loro interno anche secoli prima. In questo caso si tratta non tanto di una manifestazione fantasmagorica, quanto di una finestra aperta sul passato. Questo avviene molto spesso nelle costruzioni più antiche, di solito in pietra.
Esistono poi casi di spiriti che si aggirano senza aver compreso il loro stato di defunti ed altri che interagiscono con il tempo presente, purtroppo non ancora in grado di liberarsi dalle costrizioni terrene.
L’approccio dell’autrice all’argomento è più storico/artistico che misterico. Anche le tappe dell’itinerario offrono molte più cognizioni sullo stile degli edifici e su eventi storici correlati all’apparizione che dettagli sulle modalità o le testimonianze della stessa. Spesso, anzi, i riferimenti fantasmagorici passano in secondo piano, citati quasi distrattamente a fine capitolo.
Questo inficia in parte la valutazione positiva del saggio; il titolo stuzzica l’attenzione di un diverso tipo di ricercatori, i quali rimarranno un po’ delusi dalla vaga trattazione dell’argomento. Sicuramente interessante, invece, se si inizia la lettura con lo scopo di conoscere meglio le vicende meneghine e le bellezze artistiche e architettoniche della città.
Una buona sufficienza, ma non molto di più.

sabato 1 ottobre 2011

Fosca

FoscaEcco il secondo dei nostri “classici”.
Questa è una di quelle letture che durante il periodo del Liceo o vengono imposte dai professori o vengono evitate come la peste. Personalmente, non avevo sentito nominare la “Fosca” di Igino Ugo Tarchetti fino a un paio di anni fa, quando in preda all’ennui (il male del nostro secolo) mi sono messa a leggere l’antologia del Liceo. All’epoca, la mia ex professoressa di italiano si soffermò talmente a lungo sulla figura di Giordano Bruno – qualcosa come sei mesi- che a conti fatti si può dire che se esiste una materia in cui sono carente è proprio la Storia della Letteratura Italiana. Da quando ho terminato l’Accademia sto rimediando in proprio…ma non dilunghiamoci.
Ebbene, nel capitolo dedicato alla Scapigliatura ho trovato un piccolo stralcio di “Fosca” e sono stata colta da una gran voglia di leggere il romanzo. Grazie ad una conoscente, finalmente sono riuscita nell’impresa.
Giorgio è un giovane dalla salute incerta, dedito alla vita militare. Durante un attacco della sua malattia, conosce Clara, una bella donna dal carattere amabile che, pur se sposata, si innamora di lui ricambiata. La coppia vive una proibita – per quanto intensa e pura- storia d’amore, che restituisce la salute a Giorgio e la felicità a Clara.
L’avviso di trasferimento del giovane in un paesino spezza l’idillio dei due, che si separano con la promessa di rivedersi presto. Nel paese, però, Giorgio cade nel gorgo dei possessivi sentimenti di Fosca, una donna preda di isterie, fisse e ossessioni che la stanno uccidendo di consunzione. Per quanto Giorgio cerchi di separarsi dalla donna che pretende il suo amore, le circostanze lo riconducono sempre da lei, e sempre più vicino, tanto che Giorgio stesso si ammala. I due procedono veloci verso un destino infausto, che forse nemmeno l’amore di Giorgio per Clara potrà evitare…
“Fosca” è un romanzo breve ma molto evocativo, dal linguaggio chiaro e spigliato nonostante la lontananza temporale dell’autore (ci si abitua subito agli arcaismi utilizzati da Tarchetti). Le descrizioni di Milano e della Pianura Padana sono splendide, ancora attuali, vivide e intense nel lugubre e decadente volto che assumono nei mesi invernali. I personaggi sono ben delineati, tratteggiati con moderna sincerità.
Pur se Clara rappresenta la Luce e Fosca l’Oscurità, come viene palesemente indicato dagli stessi nomi che portano, assegnare ad ognuna la propria casella sarebbe ingiusto e riduttivo. Entrambe sono donne con una personalità sfaccettata, anche se Fosca batte per profondità di caratterizzazione la sua avversaria. Le patologie mentali di cui è preda, e che man mano agiscono su Giorgio, sono sfinenti e irritanti anche per il lettore, che al pari del protagonista non riesce ad immaginarsi come levarsela di torno se non con l’intervento della Morte…e allo stesso tempo è impossibilitato ad augurarglielo, toccato volente o nolente dalle sue sfortune e dai suoi dolori.
Tarchetti scava a fondo nei sentimenti, svelandone le vacue superfici e i ribollenti abissi. Nella frenetica danse macabre di Fosca e Giorgio, Amore e Morte si inseguono, a malapena sfiorati dalla luce, in un gorgo oscuro che tutto corrompe e rende orribile, perfino il cuore di un innamorato.
Splendida lettura. Consigliato a chi ama il decadentismo e la scapigliatura, ma anche a chi apprezza le storie d’amore non scontate.

giovedì 29 settembre 2011

La Scuola dei Mostri - Ribblestrop

La scuola dei mostriCome definire questo romanzo?
Una storia per ragazzi? Limitativo, senza contare che molte parti possiedono un linguaggio e una tensione non adatti ai bambini. Un romanzo del mistero? Eppure la costruzione è quella propria di una fiaba. Un thriller? Allora che significato avrebbe il senso dell’assurdo che pervade ogni riga?
Ho tentato di classificare “La Scuola dei Mostri” (“Ribblestrop”, in originale, di Andy Mulligan per la Newton&Compton) per tutto il tempo che ho impiegato a leggerlo e non ci sono mai riuscita. Se volete tentare, accomodatevi. Per conto mio, ho deciso che, a un bel momento, la classificazione di genere può anche andare a farsi benedire.
Nè la copertina nè il titolo scelto per la traduzione italiana, d'altra parte, aiutano a farsi un'idea più chiara. Voltate pagina e andate al sodo.
Nell’antica e misteriosa magione di Ribblestrop Towers, esiste una scuola unica nel suo genere. Il Direttore è un uomo già diffidato dall’occuparsi di istruzione, ma guidato da grandi sogni di educazione alternativa. Tra i professori ci sono reduci di guerra e scienziate a caccia di tempeste. La padrona di casa è il tipo che scaglia teiere in testa alla gente, suo nipote nel tempo libero prepara pistole a pietra focaia e frecce per la balestra, e nei sotterranei si aggira una misteriosa congrega di monaci.
Le materie che si studiano in questa scuola hanno poco a che fare con la normale istruzione dell’obbligo: Geografia Pratica in giro per il parco della tenuta, Carpenteria con lo scopo di riparare il tetto, Geometria Applicata per preparare i pezzi che mancano al completamento dei lavori di edilizia. Si tratta più di una scuola di sopravvivenza, ma ai ragazzi iscritti sembra andare a meraviglia!
Parliamo un po’ degli studenti: un ragazzo colombiano preso di mira dai sequestratori, una ladruncola piromane, un gigante muto, tredici orfani tibetani e una coppia di amici ingenui e preda degli eventi. Cosa può venir fuori da una tale accozzaglia di esseri umani bizzarri? Niente di buono, senza alcun dubbio, soprattutto quando la già traballante scuola accoglie la nuova vice-direttrice, Miss Hazlitt, una vecchia secca e sgradevole che fa venire la pelle d’oca al solo incrociarne lo sguardo.
Ribblestrop nasconde più segreti di quanto chiunque potrebbe mai immaginare. La giovane Millie si perde nei sotterranei della magione, scoprendo suo malgrado un laboratorio scientifico allarmante. Gli studenti vengono analizzati dalla vice-direttrice come fossero cavie da laboratorio, mentre la polizia sembra coinvolta in loschi affari e la scomparsa di uno dei ragazzi si tinge di mistero.
Cosa sta accadendo nei sotterranei? Che significato hanno le medicine e gli esami a cui i bambini sono sottoposti? Usciranno tutti sani e salvi dagli eventi drammatici che attendono Ribblestrop? Ma, sopra a tutto, la scalcinata squadra di calcio della scuola riuscirà a battere la Scuola Superiore maschile sul campo?!
Mulligan trascina in una versione allucinata dell’ambiente scolastico inglese, tra risate, non-sense e momenti di tensione mai scontati. I personaggi sono perle di assurdità, pur conservando un realismo di fondo che suscita un piccolo brivido lungo la schiena. La prosa è diretta, chiara, schietta e senza fronzoli, sfrontata come lo sguardo di un ragazzino.
La trama cambia continuamente carattere, stupendo per la sua imprevedibilità, la sua capacità di cogliere sempre in fallo il lettore e le sue ipotesi. Si lotta invano contro il disorientamento, finché non si cede: stare al gioco è l’unico modo per farsi portare da Mulligan verso un finale con il botto.
Un romanzo per tutte le età!

mercoledì 21 settembre 2011

Così triste cadere in battaglia

Così triste cadere in battaglia. Rapporto di guerraMorire per la propria Patria non è meno amaro che morire in qualsiasi altro modo. La Morte è la Morte, e quando sai che ti aspetta al varco non puoi fare a meno di provare tristezza per ciò che stai perdendo. Anche se sei un soldato giapponese, votato all’onore e alla difesa del popolo e dell’Imperatore.
Il generale Kuribayashi, a cui venne affidato l’ingrato – secondo la nostra logica comune- o forse l’onorato (nella mentalità giapponese votata al servizio) compito di combattere contro gli statunitensi per il controllo dell’isola di Iwo Jima, fu uno dei pochi militari giapponesi della Seconda Guerra Mondiale a sottolineare nelle sue parole non la gloria della battaglia, ma la tristezza di soldati che si lasciavano alle spalle mogli, figli, genitori e tutti i loro sogni per morire su una terra ingrata, in una battaglia persa in partenza.
Nonostante questa “debolezza sentimentale”, Kuribayashi fu un generale di polso, intelligente, pratico, un degno avversario dei marines, che ancora oggi lo ricordano con estremo rispetto. Una battaglia destinata ad essere persa in pochi giorni fu protratta per mesi abbandonando la tattica suicida banzai per passare alla guerriglia, e fu la totale mancanza di supporto da parte della Marina e dell’Aviazione a decretare il terribile sacrificio di tanti uomini coraggiosi. Iwo Jima era una desolazione vulcanica priva di acqua e divenne un vero girone infernale per entrambi gli schieramenti.
La battaglia per il controllo di Iwo Jima è indelebilmente impressa nella mente di giapponesi e statunitensi, che ancora oggi commemorano i caduti con cerimonie annuali, incontrandosi pacificamente su un’isola il cui terreno è disseminato di cadaveri. Quali erano le condizioni di vita dei soldati giapponesi mandati a morire in battaglia? Cosa si celava dietro ai comunicati ufficiali, alle versioni della stampa imperiale, ai giorni di agonia di questi soldati del Sol Levante?
Kakehashi Kumiko cerca di dare una risposta a queste domande tramite la lettura e l’analisi delle lettere del generale Kuribayashi alla famiglia che lo attendeva a casa: la moglie e i tre figli. In “Così triste cadere in battaglia” (Einaudi) l’autrice ripercorre attraverso le umane, toccanti, rivelatrici missive del generale non solo la preparazione del contingente allo sbarco degli americani sull’isola, ma anche gran parte delle fasi di battaglia con il supporto di frammenti di diari e lettere ritrovati sui cadaveri dei caduti.
L’analisi di una battaglia di immane impatto storico, innovativa rispetto alle normali procedure d’attacco e difesa giapponesi di fronte al nemico, mette in evidenza la razionale preparazione di Kuribayashi, la sua precisa visione della situazione e dei pericoli che attendevano i suoi uomini e il suo Paese dopo lo sbarco statunitense. In pieno contrasto con la Marina e l’Aviazione, Kuribayashi impiegò i suoi uomini, costretti su un’isola vulcanica desolata e priva di acqua che non fosse piovana, nella costruzione di rifugi sotterranei adatti alla guerriglia, scartando come obsoleto e autolesionista il tipico attacco sulla spiaggia volto a impedire lo sbarco, risoltosi sempre in un massacro. Scandalizzò i superiori rifiutando la carica suicida di prammatica e costringendo il suo piccolo esercito a combattere fino allo stremo, vietando il rituale della “morte onorevole”. I Marines presero Iwo Jima a costo di grosse perdite e una battaglia infernale.
Al di là della battaglia, le lettere offrono il ritratto degli uomini che si celavano dietro l’uniforme, con i loro affetti, preoccupazioni, sogni. Kuribayashi racconta le proprie azioni giornaliere e si interessa della salute dei suoi con la stessa cura con cui si occupa del campo di battaglia. Offre consigli e pareri alla moglie come ai figli, li aiuta a fare piccole riparazioni in casa, a decidere che comportamento tenere in caso di sconfitta del Giappone. Li esorta ad accettare la sua morte e ad andare sempre avanti.
L’autrice ci narra, senza campanilismi, il suo viaggio attraverso la vita di un uomo semplice e pratico che gli eventi hanno consegnato alla Storia. Un’ottima lettura anche per chi non possiede una particolare passione per i fatti di guerra.

lunedì 5 settembre 2011

Orgoglio e pregiudizio

Come prima recensione di un “classico”, mi è parso giusto iniziare da ORGOGLIO E PREGIUDIZIO di Jane Austen. Perché? Beh, perché affrontare la lettura di un romanzo che non sia uno dei moderni best-sellers impilati in libreria in pigne scintillanti oppure una di quelle letture ‘da spiaggia’ che non chiedono grande sforzo intellettuale, non è una scelta facile. Spesso, fin troppo, lo studio scolastico della letteratura italiana e straniera conduce i ragazzi a sviluppare un tale odio, una tale avversione verso tutto ciò che è ‘antico’ (ergo: noioso) da farli stare lontani dal genere vita natural durante.
Grave, gravissimo errore. Un errore nel quale ho avuto la tentazione di indulgere a mia volta, nei freschi anni dell’adolescenza. Fortunatamente, sono una a cui piacciono le sfide. Non potevo permettere ad alcuni romanzi di tenermi lontana a priori. Da un semplice atto di coraggio è nata la sezione “Letteratura” della mia personalissima biblioteca, che si sta ingrandendo tanto da essere diventata ingestibile. Queste recensioni sono rivolte, quindi, a chi ancora non è riuscito a vincere il pregiudizio che contribuisce al titolo di questo romanzo, che in tempi di ingenuità avevo giurato di non leggere mai.
“Orgoglio e pregiudizio” narra la storia di Elizabeth Bennet, una ragazza inglese di estrazione non indigente ma nemmeno particolarmente agiata, la cui famiglia è composta da un padre sarcastico e solitario, una madre frivola il cui unico scopo è maritare le figlie, e quattro sorelle. Jane, la maggiore, è un angelo di grazia e bontà. Mary, la mezzana, tenta senza molto successo di diventare una donna colta. Catherine e Lydia, le più giovani, sono due ochette senza cervello.
La loro vita piuttosto spensierata viene sconvolta da due avvenimenti. In primo luogo, l’arrivo del nuovo vicino, Mr.Bingley. Questi, un giovane simpatico e alla mano, si innamora ricambiato di Jane, ignaro della disapprovazione delle sue altezzose sorelle e di Mr.Darcy, il suo migliore amico, un uomo ricco e orgoglioso. Nello stesso tempo, i Bennet ricevono la visita del cugino che erediterà la loro tenuta, un curato noioso e pedante che desidera prendere in moglie Elizabeth.
Fraintendimenti non voluti e malelingue divideranno i ricchi signori londinesi dalla famiglia campagnola. Qualcosa cambierà nel cuore di Elizabeth quando proprio Mr.Darcy, il cui orgoglio ha causato tanto male a sua sorella Jane, le confesserà di amarla a dispetto delle sue umili origini? O sarà solo l’inizio di ulteriori guai?
Il romanzo, a dispetto della sua “veneranda” età, si legge tutto d’un fiato. Scorre con una prosa piacevole, fresca, molto attuale. Saltando amabilmente da un ballo all’altro, da una ricca magione alla successiva, la scrittura della Austen stilla ironia sulle buone maniere di facciata, sull’educazione affettata, sulle cerimonie vuote di una società basata essenzialmente sulla forma e non sul contenuto.
I personaggi, a grandi linee, possono essere divisi in tre grandi famiglie: i vani, gli orgogliosi e gli ottimisti a qualunque costo. Ogni difetto della buona società viene messo in grande evidenza, conferendo un frizzante umorismo alla trama.
Il senso pratico, il risultato materiale di ogni decisione prevale sul sentimento in qualunque circostanza, compreso il matrimonio. Elizabeth è una delle poche idealiste che ancora si scandalizza all’idea di prender marito per poter avere una posizione, una casa decente, un reddito che possa far invidia ad amici e vicini (cosa che, invece, non farà arricciare il naso alla sua migliore amica Charlotte).
Per quanto si possa classificare il romanzo nella categoria “rosa”, le storie sentimentali raccontate nel libro sono affatto scontate, bensì plausibili anche al giorno d’oggi. La Austen ci presenta gli innamorati timidi che preferiscono avvicinarsi pian piano, rendendo difficile all’altro comprendere a che punto sia l’interesse altrui; la coppia sciocca che per puro interesse o desiderio del momento arriva al punto di progettare una fuga d’amore; gli innamorati testardi che non sanno far altro che insultarsi e irritarsi a vicenda.
Il consiglio di leggerlo va anche a chi avesse già visto il recente film tratto dal romanzo. Per quanto sicuramente fedele, la lettura regala una visione più sfaccettata della vicenda e consente di inoltrarsi con maggiore profondità nella mente della protagonista e di chi le gravita attorno.

lunedì 29 agosto 2011

Storia di Neve

Storia di NeveUn romanzo che è al contempo storia, fiaba e vivido dipinto della montagna e delle sue regole aspre e antiche. Questo attende chi si appresta ad attaccare le 800 e rotti pagine del poderoso STORIA DI NEVE di Mauro Corona, edito con Mondadori.
Neve è una fanciulla speciale nata nel paesino montano di Erto, nella valle del Vajont. La vita, breve e costellata di dolori, le è stata concessa in funzione di uno scopo ben preciso: ella deve fare del bene, quanto più può, durante gli anni che il fato ha prestabilito. Neve è la parte immacolata e piena d’amore dell’antica strega Melissa, assassinata in maniera atroce e morta nell’odio, imprigionata in un inferno di ghiaccio in cui il Demonio le ha concesso di torturare per cinquecento anni gli abitanti del villaggio di Erto dopo la loro morte, perché possano espiare i loro peccati. Melissa, però, desidera concedere una possibilità alla propria parte buona; per questo, in una gelida notte di gennaio, nasce Neve, la bambina dei miracoli dalla pelle di bianco fino e il corpo che non sente il gelo.
Questa bambina diventa il motore di una valanga che coinvolge, nel bene o nel male, l’intero villaggio di Erto. I suoi miracoli, però, sono un’arma a doppio taglio. Il padre, Felice Corona Menin, decide di sfruttare la fama della figlia per fare soldi, macchiandosi di azioni sempre più orrende ed efferate. Inoltre, la missione della bambina la costringe a stare quanto più lontana possibile dalla sola cosa che può rendere veramente felici: l’amore. Condannata a pensare al prossimo invece che a se stessa, a Neve è severamente vietato amare un uomo. Quando nel paese nasce Valentino, la sua anima gemella, inizia una esistenza di privazioni, di sforzi per tenersi a distanza. Neve, infatti, a contatto con la sua metà si scioglie, perde acqua, svanisce pian piano come un pezzo di ghiaccio esposto al sole.
Cosa porterà questa creatura magica nel prosaico paese di Erto? I suoi ventinove anni di vita promettono di essere indimenticabili, nel bene o nel male.
Corona è uno scrittore sincero, senza fronzoli, che usa con sicurezza e senza pretese intellettuali il linguaggio diretto e antico della fiaba. Come una fiaba, infatti, Storia di Neve si dipana tra magie, misteri, povera vita quotidiana, streghe e orrori. Le favole, d’altra parte, sono piene di orrori. Questa non fa eccezione, l’uomo non può vivere senza e in presenza di miracoli il Male lavora alacremente sulla fetta di anime che gli spetta.
Gli abitanti di Erto sono come le montagne che governano la loro esistenza. Chiusi, incrollabili nel loro mutismo, nel rifiuto a lasciar entrare nei loro affari chiunque venga dall’esterno, laico, gendarme o esponente della Chiesa che sia. Quello che succede in paese resta in paese, si tratti di una disgrazia, di un omicidio o di un felice segreto. Solo i miracoli di Neve si spargono nelle valli come portati dai canti degli uccelli, ma questo perché il padre è un traditore, un uomo che farebbe qualsiasi cosa per denaro e per l’effimera gioia di essere il più potente e il più ricco della valle.
La magia corre come una lama sottile attraverso il paese, i monti, i corsi d’acqua. Permea ogni cosa, rivelandosi nel testardo rancore delle streghe di Erto, una per una violate e uccise e per questo fautrici di terribili vendette che si protraggono ben oltre la morte del loro corpo. Gli animali sono veicolo di forze terribili, incarnazioni di qualcosa che non si può né capire né fermare, pur in un’epoca ormai moderna come quella in cui si svolge la vicenda.
I bassi istinti degli esseri umani fanno a gara con i sentimenti più puri e dolci, prendendo spesso il sopravvento. Poter osservare non visti i silenzi degli abitanti di Erto è un onore alquanto dubbio. E’ la vicenda di un’intera comunità quella che si va a leggere, non tanto la storia della sfortunata Neve.
Vi aspetta un romanzo carico di significati, una bella lettura. Forse un po’ lungo, ma meritevole del tempo trascorso nelle sue pagine.

venerdì 12 agosto 2011

I Leoni morti

I leoni morti. La battaglia di BerlinoSiamo agli sgoccioli di ciò che per anni è stato il Male impersonificato, non solo in Europa ma in buona parte del mondo conosciuto. Il regime nazista sta crollando nella polvere delle strade di Berlino, tra le macerie dei suoi edifici sventrati, sul suono delle grida dei suoi cittadini che subiscono le atrocità dei nuovi arrivati, non gli americani ma i sovietici, primi a violentare la città che sembrava imprendibile, inarrivabile.
In questo allucinante scenario, mentre nel bunker ove sono rifugiati gli ultimi esponenti del regime ancora fedeli ad un Adolf Hitler sempre più debilitato nel fisico e nella mente si prendono le ultime, drastiche decisioni e si continua al di là di ogni razionalità a fare piani per non permettere ai bolscevichi di profanare i luoghi simboli del Reich, si muovono i soldati della SS Charlemagne, formata da volontari francesi che combattono sotto la bandiera tedesca con un’unica motivazione: tenere la minaccia Rossa lontana dall’Europa.
“I Leoni Morti” (RITTER), scritto da Saint-Paulien (uno pseudonimo) sotto forma di romanzo, racconta l’ultima resistenza di questo corpo delle SS tramite gli occhi del protagonista, il capitano Christian Gauvin. Visti come traditori da chi, in Francia, ritiene Hitler nient’altro che il nemico conquistatore, i soldati della Charlemagne combattono, al contrario, nella ferrea convinzione di stare facendo il meglio delle loro possibilità per difendere la propria Patria contro un nemico molto peggiore dei nazisti.
Gauvin, anzi, si troverà a riflettere spesso, nell’attesa di un nuovo, acceso scontro strada per strada, che il nazismo ha avuto fin dal principio un rapporto di colpevole collaborazione con il regime di Stalin e che quanto sta avvenendo nell’Est dell’Europa non è altro che il risultato di una politica volta troppo ad occidente invece che verso il nemico più forte e insidioso.
Partendo da queste premesse, “I Leoni Morti” ci porta a seguire gli sforzi e il coraggio di coloro che, parlando di fazioni avverse, erano all’epoca dalla parte del ‘nemico’. Il libro invita a vedere un momento decisivo della storia moderna attraverso un’altra ottica, non necessariamente da condividere ma possibilmente da valutare con attenzione, rispetto per l’eroismo e l’umanità a volte commovente presenti in tutti i soldati del mondo quanto la crudeltà e le efferatezze.
Mentre Hitler si suicida e gli ultimi rimasugli del governo nazista si disgregano, la Charlemagne combatte la propria battaglia contro l’orda comunista fino all’ultimo uomo, fedele alla propria ideologia fino alla fine.
E’ una lettura che consiglio (nonostante la presenza di numerosi refusi che fanno scadere la qualità del prodotto editoriale). La consiglio a chi è di destra, a chi è di sinistra, a chi come me è apolitico e vuole solo ampliare la propria conoscenza. Perché? Perché la Storia è scritta dai vincitori e questo significa che la realtà che ci viene propinata è sempre parziale. Nessuno è totalmente buono; nessuno totalmente malvagio. Crederlo è non solo ingenuo, ma pericoloso. Gli ultimi sessant’anni sono stati costruiti sulla base di una dicotomia Bene/Male così decisa che, se negli anni appena successivi alla guerra essa era giustificata dalla necessità di esorcizzare gli orrori vissuti, ora diventa un atto di ignoranza e culla di movimenti politico-attivisti che non sono migliori di ciò che insultano (da entrambe le parti).
Al contempo non sto inneggiando alla neutralità a tutti i costi. Ci sono atti che non possono essere perdonati, ci sono decisioni che una volta prese non perdono mai più la loro valenza di Male. Capire come si è arrivati a ciò, però, non è mai sbagliato. Rendersi conto che le forze in gioco e gli interessi in ballo sono sempre molto più complessi e ingarbugliati di quanto ci viene insegnato può concederci una maggiore ampiezza di vedute e quindi una minore possibilità di essere spostati qua e là come parte di una ‘massa’.
Un libro per chi ha un po’ di fegato, per chi non ha paura di scrutare l’altra faccia della medaglia e fare qualche domanda.

domenica 7 agosto 2011

Il cimitero di Praga

Cosa lega il capitano Simonini, notaio e falsario di lungo corso, all’abate Dalla Piccola, schivo uomo di Chiesa? Perché i loro appartamenti sono comunicanti? Cosa nascondono i loro diari e perché la memoria dell’uno presenta inspiegabili momenti di tenebra su cui solo l’altro sembra in grado di fare luce? E cosa c’entrano questi due personaggi con i grandi fatti storici che porteranno alle Grandi Guerre del ‘900?
Simonini, nato nel Piemonte del Regno di Savoia e cresciuto dal nonno, un militare acceso antisemita, sviluppa negli anni un odio viscerale verso la figura dell’Ebreo, nonché una misoginia talmente forte da sfociare nel totale disgusto verso il corpo femminile. L’unico suo piacere è la buona tavola, la cucina di classe, cibo e bevande che possano portare godimento al suo corpo. Per quanto riguarda il resto, odia tutto e non si fida di nessuno, nemmeno degli uomini di Chiesa. Ha poi un’avversione particolare per i Gesuiti.
Questi tristi tratti del suo carattere vanno radicandosi tanto da farlo diventare un uomo subdolo, disonesto, il cui più grande piacere è screditare gli oggetti del proprio odio. Gliene viene data l’occasione: il governo sabaudo si accorge delle sue potenzialità e decide di utilizzarne le doti di falsario per modificare a proprio piacimento le dinamiche e i passaggi del potere in Meridione, ove è in pieno svolgimento la missione dei garibaldini.
Da questo fatto comincia la carriera di Simonini, che lo porterà poi a Parigi e lo metterà in contatto con i servizi segreti di molti governi europei, sempre alla ricerca di documenti falsi che possano cambiare l’opinione pubblica o giustificare decisioni di grande portata internazionale.
Così prende il via l’ultimo romanzo di Umberto Eco, IL CIMITERO DI PRAGA, edito da Bompiani in un’edizione quantomai raffinata. A una sovracoperta che mostra un tenebroso vicolo fin de siècle, si accompagna un cartonato del più immacolato bianco e un testo stampato in caratteri differenti a seconda del narratore del momento (l’autore, Simonini o Dalla Piccola). Inoltre, il romanzo è costellato da illustrazioni, stampe a bulino espressamente cercate e volute dall’autore, in ricordo dei feuilleton (i romanzi a puntate) del XIX secolo. L’impressione è di trovarsi in mano un’opera pensata fin nei minimi dettagli, ivi compresi quelli estetici, e la lettura non delude.
Il romanzo è una finestra spalancata sul mondo del falso storico e della teoria della cospirazione, il corrispettivo letterario del vicolo di un quartiere malfamato, umido e puzzolente, in cui si riproducono e crescono ratti a migliaia, pronti poi a diffondersi come una malattia. Eco mostra attraverso il suo protagonista- un personaggio gretto e repellente a tal punto da risultare odioso fin dalle prime righe- come le teorie antisemite hanno preso forma nell’Europa dei movimenti rivoluzionari, seguendo la pubblicazione e la divulgazione di trattati tendenziosi e prove costruite a tavolino – e ben pagate- per offrire solide basi alle scelte politiche di quegli anni.
Assistiamo inoltre alla nascita delle teorie cospiratorie riguardanti la Massoneria e la condanna del potere dei Gesuiti, che spariscono inesorabilmente dal panorama europeo. Le tesi sulla cospirazione (massonica, comunista, aliena…) del secolo scorso sono dirette figlie di questa fabbrica di Storia, di una Verità decisa da pochi e spacciata per assoluta. L’odio micidiale dell’Europeo nei confronti della minaccia ebraica, sfociato nei pogrom sovietici e nelle persecuzioni naziste, è cresciuto nutrito dal limo malsano di queste invidie, di questi odi atavici supportati da una letteratura malata, dalla compravendita di documenti fabbricati all’uopo.
Il romanzo di Eco è un viaggio buio attraverso la grettezza dell’era contemporanea al suo nascere, sdrammatizzato da uno stile frizzante, caustico. Un’ottima lettura, senza timore di finire nel pantano di troppe nozioni storiche.
E, alla fine, anche il legame tra Simonini e un abate che avrebbe dovuto avere la decenza di rimanere morto verrà svelato…

sabato 6 agosto 2011

L'Acchiapparatti

Le Terre di Confine vivono in un tristo e cupo Medioevo, segnato dalla miseria e da esistenze fatte di espedienti. Anche sulle vie che collegano tra loro le città, la criminalità non dà tregua e chi è debole rischia ogni giorno di terminare il proprio viaggio terreno in modo brusco e sanguinoso. La fede nell'unico Dio e l'ortodossia verso la Chiesa della Luce, garantite entrambe dai Guardiani dell'Equilibrio, hanno bandito la magia dal mondo.
 È in questo contesto di stanca quotidianità e grettezza che FRANCESCO BARBI ci proietta fin dalle prime pagine de L'Acchiapparatti di Tilos, edito nel 2007 da Editrice Campanila (ristampato da B.C.Dalai Editore con il titolo L'Acchiapparatti), tratteggiando il territorio in cui il lettore si muoverà con descrizioni semplici nel linguaggio ma estremamente evocative.
In queste martoriate Terre di Confine si intrecciano le vite di alcuni improbabili personaggi, che di certo non corrispondono allo standard cui il Fantasy più scontato ci ha abituato.
Nella città di Tilos, l'iroso e scostante Ghescik, un becchino appassionato di magia e scritture antiche che ha trascorso una giovinezza resa difficile dal suo aspetto gobbo e deforme, sottrae all'ormai defunta strega Macba un ciondolo misterioso che la vecchia portava sempre con sé. L'oggetto, la cui forma ricorda quella di un pesce o quella, più inquietante, di un occhio, dovrebbe essere la chiave per scoprire i segreti della magia ancora nascosti all'interno dell'antica torre dove un tempo dimorava lo stregone Ar-Gular.
Ansioso di entrare in possesso di queste antiche conoscenze, Ghescik si reca alla torre, ma non prima di aver carpito all'erborista Tamarkus, con una scommessa truccata, un altro manufatto utile alle ricerche: un libro nero appartenuto proprio ad Ar-Gular.
Il manoscritto si rivela però troppo complicato da tradurre, e il ciondolo non apre alcuna porta né svela alcun enigma; il misero bottino trafugato dalla torre si riduce così a un diadema di metallo tolto dal cranio di uno scheletro polveroso.
Ricercato dagli scagnozzi di Tamarkus, Ghescik si rifugia a casa del suo unico amico, Zaccaria. Costui è un mentecatto tanto espansivo quanto suonato, un poveraccio emarginato a causa dei suoi modi irritanti (che passano dall'ipercinetico al catatonico), ma capace di inventarsi un mestiere che in qualche modo gli consente di sopravvivere a Tilos e di cui va fiero: acchiappare ratti.
Nonostante i suoi difetti, Zaccaria possiede un'abilità quasi sovrumana nella lettura degli antichi linguaggi, e il becchino se ne serve per farsi tradurre il libro. Le informazioni così ricavate sono tuttavia poco chiare, lasciano intravedere oscure ombre, magie proibite che hanno intessuto una rete di follia attorno allo stregone Ar-Gular. La cosa, ben lungi dal far desistere Ghescik dai suoi propositi di conoscenza, lo induce anzi a indossare il diadema, oggetto chiave degli ultimi incantesimi dello stregone ma destinato a portare dolore e morte. Esso mette infatti il becchino in contatto mentale con il Boia di Giloc (chiamato anche Mietitore), una bestia demoniaca che vive da più di quattrocento anni rinchiusa nelle segrete della città. Risvegliata la sua sete di vite umane, il mostro evade, e la sua falce inizia a seminare morte in lungo e in largo per le Terre di Confine.
Scioccato dalle proprie responsabilità nella vicenda e al tempo stesso smanioso oltre ogni dire di riunirsi al demone per carpirne i segreti, Ghescik parte per un viaggio verso Giloc in compagnia dell'acchiapparatti - traduttore ufficiale e persona più informata di quanto il becchino non sappia - e di una prostituta con la passione per il cibo, Teclisotta. Lo sgangherato gruppo ne passerà di tutti i colori, incrociando il proprio destino con quello di numerosi altri personaggi: Orgo il gigante tardo di mente, lo sfigurato cacciatore di taglie Gamara, gli evasi di Giloc, la strega Guia.
A caccia del Mietitore o in fuga da esso, i protagonisti dovranno trovare un modo per sciogliere l'incantesimo che tiene in vita la creatura sanguinaria, riuscendo al contempo a salvare la pelle. E, tra tante persone dall'intelletto fino, chi crederebbe mai che la soluzione riposi nell'insondabile mente di un matto?
Nell'arco delle sue quattrocento e più pagine, L'Acchiapparatti di Tilos non cede a un momento di noia. Subito affezionati ai deliranti e toccanti modi di fare di Zaccaria, la mente e il cuore del lettore rimangono costantemente avvinti ai misteri che permeano la storia fino al suo epilogo.
Il "diverso" occupa tutti i posti d'onore all'interno del romanzo. Ghescik lo è nel corpo, gobbo e zoppo, ma la sua mente è sveglia e scaltra e lo condanna a percorrere una strada oscura e autodistruttiva. Zaccaria, oltre al corpo allampanato, è diverso nella mente, un povero pazzo, simpatico ma spossante con le sue fisse, incapace di seguire un filo logico; eppure, si rivela essere il più illuminato e lungimirante di tutti. Anche Orgo il gigante è un mentecatto, forte ma stupido, capace di comunicare solo il suo nome e di sciorinare pochi proverbi sgrammaticati. Gamara poi è orribilmente sfigurato, ed esercita la professione del cacciatore di taglie, cosa che lo rende un fuori casta. Perfino Guia non è altro che una vittima delle superstizioni altrui, imprigionata a causa dei suoi talenti di strega.
Tra tanta gente che si ritiene furba e sana di mente, saranno proprio i matti a risultare i "vincitori". L'autore tratteggia i deboli con fine sensibilità senza essere melenso né cadere nel patetico, rendendoli cari al lettore per ciò che sono, senza fronzoli o giustificazioni. La sottile corrente di ritorno all'innocenza e alla purezza di cuore, alla pur sgradevole verità, attraversa tutto il romanzo, trovando paradossalmente il proprio territorio nell'antica magia invece che nella razionale e rassicurante religione della Luce.
Barbi ha l'ulteriore pregio di saper modificare il proprio stile narrativo a seconda delle situazioni. Si passa dal comico-grottesco al drammatico, in una commistione di linguaggio che rende più saporita la trama. Le sequenze di maggiore tensione vengono risolte in un rapido e inaspettato passaggio dall'uso del passato remoto a quello del presente; se ne ricava quasi l'impressione dello scorrere di una pellicola cinematografica, in grado di cambiare la velocità tramite scelte di montaggio. Queste variazioni non sono fastidiose, anzi regolano il ritmo ponendolo in sincrono con l'ansia e l'aspettativa di chi legge.
Le sequenze del Mietitore sfiorano l'horror, non solo per la crudezza delle scene di sangue ma anche per le situazioni angosciose che caratterizzano le sue entrate in scena. Il lento salire della tensione, l'imprevedibilità delle azioni del mostro e le vite spezzate dalla sua falce toccano in modo efficace l'immaginario.
Spigliato, coraggioso e a tratti commovente, L'Acchiapparatti di Tilos è un ottimo romanzo, adatto anche a chi non va pazzo per il genere Fantasy.