venerdì 7 settembre 2012

Storia della danza

Dedicato a chi della danza ha fatto la sua passione o meglio ancora la sua attività, nonché a coloro che gravitano attorno al mondo dello spettacolo più in generale, “Storia della danza” di Alessandro Pontremoli (edito da Le Lettere) si propone di offrire una panoramica dell’evoluzione dell’arte coreica a partire dal Medioevo fino ad arrivare ai giorni nostri.
Perché studiare l’evolversi dell’arte della danza? Non si tratta semplicemente della storia del ballo e delle caratteristiche che ha assunto attraverso i secoli. Il ballo è sempre stato profondamente legato all’arte teatrale, alla messa in scena pantomimica di drammi, commedie, favole, un costante tentativo di comunicazione senza parole, affidandosi esclusivamente al linguaggio del corpo.
Studiare la storia della danza, quindi, permette di scorrere su un binario parallelo allo studio della storia del teatro. Anche la concezione della bellezza e dell’importanza della prestanza fisica hanno subito mutamenti in relazione al modificarsi del modo di concepire la tecnica nella danza.
L’autore premette che la sua trattazione è lungi dall’essere esaustiva, ma offre a complemento della propria opera un glossario dei principali stili e dei termini specifici, un’ampia sezione biografica delle personalità nominate nel testo e una carrellata di illustrazioni e fotografie, nonché parecchie note bibliografiche.
Nella prima metà del testo, Pontremoli dà il suo meglio. Ci introduce nel mondo medievale con una certa dovizia di particolari, spiegando come il ballo rientra dalla finestra dopo essere stato scacciato dalla porta dalla Chiesa Cattolica. Diventando parte dei drammi religiosi prima ed entrando di prepotenza nei divertimenti di corte poi, la danza attrae uomini e donne per la sua componente gioiosa e per la certificazione di “grazia” che ne deriva.
Imparare a danzare i balli di corte, infatti, diventa man mano sinonimo di appartenenza a una classe agiata, di levatura nobiliare. Danzare richiedeva gesti gentili, misurati, ma anche virtuosismi che indicavano il tempo speso a studiare con impegno sotto la guida di un maestro. Era una parte imprescindibile del bon-ton, tanto che più avanti persino i Gesuiti introdussero lo studio della danza nei loro collegi, per rendere più facile ai diplomati l’ingresso nelle alte sfere della società.
Il centro dell’evoluzione del ballo accademico si radica in Francia, l’utilità e lo scopo del balletto appassionano teorici e artisti in tutta Europa (e, successivamente, anche in America). Fin da subito vengono fatti sforzi per tramandare ai posteri i dettagli delle coreografie. I maestri inventano sempre nuovi metodi di notazione dei passi, in maniera che il lavoro non vada perduto e possa essere replicato anche a grande distanza di tempo o luogo.
La danza, infatti, è un’arte di fruizione immediata, di cui non rimane nulla dopo la performance. Solo oggi abbiamo i mezzi per registrare su supporto multimediale. Senza gli sforzi fatti per prendere nota delle coreografie, un immenso patrimonio artistico sarebbe andato completamente perduto.
Nella seconda parte si concentrano i difetti di questo saggio, che diventa un po’ troppo “settario”. I balli popolari o non di derivazione accademica non vengono nemmeno menzionati, facendo sprofondare nell’ombra generi importantissimi quali il tango, il tip-tap, l’hip-hop o l’influenza africana nella danza contemporanea.
L’autore si concentra esclusivamente sul ballo accademico francese e quindi americano, sulla sperimentazione avanguardistica, perpetrando una selezione molto discutibile su ciò che è danza e ciò che non sembra degno di entrare in una trattazione dell’evoluzione dello stile.
Anche il linguaggio si fa sempre più intellettuale, in maniera piuttosto pretenziosa. L’aggettivo “coreico” viene utilizzato fino a sfinire il lettore, la descrizione di stili e coreografie degli artisti contemporanei è affidata a poche frasi a effetto che in realtà non offrono la minima idea del lavoro coreografico, limitandosi a commenti stereotipati che possono essere comprensibili solo a chi conosce già gli spettacoli e il percorso artistico della personalità di cui si sta parlando.
L’avvertimento iniziale dell’autore non mitiga questa impressione di lacunosità del testo, ma “Storia della danza” merita comunque una lettura, non fosse altro che per la prima parte.

Nessun commento: