martedì 27 dicembre 2011

Alchimia & Mistica

La Storia dell’Arte raccoglie in sé ben più di un solo campo della conoscenza. Un vero storico dell’arte, difatti, per comprendere le opere dei secoli passati o quelle contemporanee dovrebbe possedere conoscenze di storia, letteratura, epica, filosofia, estetica, teologia, storia delle religioni e – udite,udite- magia.
Il sapere esoterico, quell’insieme di nozioni che si rifanno al mondo dello spirito in modo più o meno svincolato dai pensieri religiosi convenzionali e che uniscono scienza e magia, è sempre stato intimamente connesso alla creazione dell’opera d’arte.
Molti artisti si sono fatti portavoce di conoscenze arcane affidandole alle loro creazioni oppure criptandole per gli iniziati all’interno di esse. Questo aspetto della Storia dell’Arte è stato poco considerato per molti anni, a fronte dell’imporsi del sistema razionalistico nella società moderna, ma pian piano questo bagaglio culturale inestimabile sta tornando a galla e viene studiato con il dovuto rispetto.
“Il Museo Ermetico - Alchimia & Mistica” di Alexander Roob, edito con Taschen, è per l’appunto un museo su carta che raccoglie opere pittoriche, scultoree e miniature il cui filo conduttore è la Grande Opera alchemica, il corpus di conoscenze ermetiche e le teorie che su di esse si sono sviluppate nel Medioevo e oltre.
Sull’alchimia se ne sono dette di tutti i colori. Si sa che era una “scienza” alquanto empirica che aveva come scopo ultimo la creazione della pietra filosofale, capace di trasformare qualsiasi cosa in oro e conferire l’immortalità. Questa, in realtà, è una lettura decisamente grezza degli scopi alchemici e si rifà principalmente alla scuola più pratica di questa disciplina. La moderna chimica deriva, d’altronde, dagli esperimenti alchimistici. Le stesse teorie newtoniane sono nate grazie all’alchimia.
L’Alchimia è prima di tutto una scienza dello Spirito, di ciò che è invisibile ma governa le leggi del Cosmo. Le sperimentazioni fisiche, scientifiche, sono solo il loro riflesso nel mondo reale dei Quattro Elementi, il Mondo delle Forme che l’essere umano abita con il suo corpo di carne. Il lavoro dell’alchimista si sviluppa in parallelo nello spirito e nella realtà, con lo scopo di raggiungere attraverso più gradi di sublimazione (nigredo, albedo, rubedo) il lapis, la pietra filosofale, la conoscenza perfetta di tutte le cose (il che, nella concezione escatologica cristiana, conduce alla riunificazione con Dio).
Dopo un’introduzione ampia ed esauriente volta a far conoscere la materia a chi vi si accosta per la prima volta e a rinfrescare la memoria a chi neofita non è, il Museo cartaceo si suddivide in quattro grandi argomenti: Macrocosmo, Opus Magnum, Microcosmo e Rotazione.
Per ogni argomento vengono presi in analisi i singoli aspetti, i nomi degli Elementi dell’Opera, il significato dei Pianeti e dei simboli, degli strumenti e degli obiettivi. Ogni voce del Museo Ermetico consta di una spiegazione e di numerose immagini di opere d’arte o stampe corredate da didascalie che ne forniscono dati e significato.
La lettura di questo testo è destinata a una nicchia di appassionati d’arte o di esoterismo; ciononostante riesce a conservare una notevole freschezza nella trattazione dell’argomento. Il testo a corredo delle immagini si mantiene su un livello di chiarezza che non ne mina la completezza e allo stesso tempo permette a chiunque di procedere alla lettura senza eccessiva difficoltà, nonostante la comprensione di temi tanto complessi sia sicuramente un affare che richiede ben più di una semplice sessione di analisi.
La stampa a colori su carta lucida permette di godere dei colori di oniriche e mistiche opere di grandissimi artisti antichi e contemporanei come dei nitidi bianchi e neri dei bulini e delle stampe, spesso antesignane tracce del percorso astronomico e chimico del pensiero scientifico.
La Taschen offre, come sempre, un prodotto stupendo ad un prezzo scandalosamente basso. Da premiare.

venerdì 16 dicembre 2011

La Saga di Shannara

Quando si parla di Terry Brooks e della sua opera magna, vale a dire la trilogia composta da “La Spada di Shannara”, “Le pietre magiche di Shannara” e “La canzone di Shannara”, bisogna partire dal presupposto di camminare su un terreno minato.
Brooks è un autore molto amato da una larga fetta di affezionati del fantasy e la sua continua ascesa in vetta alle classifiche di vendita ne è la prova. Al contempo, esiste un consistente zoccolo duro di appassionati che, se non lo detesta, perlomeno è ben lungi dal metterlo nell’Olimpo dei Grandi di questo genere. Per quale motivo? Analizziamo nel dettaglio.
Terry Brooks è un buono scrittore. Ha una prosa corretta, abbastanza scorrevole. Dà molta attenzione alle descrizioni di luoghi e dettagli, crea personaggi definiti e le sue storie sono costruite con precisione, senza pressapochismo o confusione. Spesso ha idee originali, sa essere divertente (come nella Saga di Landover, che tratterò più avanti nel tempo) e non si risparmia nel cercare di rendere più chiaro possibile al lettore in quale ambiente si sta muovendo.
Al contempo, la sua scrittura è fin troppo lineare, senza scossoni. Non ci sono né alti né bassi, si procede in acque tiepide di cui non si può dire né troppo bene né troppo male. Un po’ poco per uno scrittore della sua fama. Le parti descrittive sono a volte tanto lunghe da indurre alla noia, i dialoghi sembrano inseriti più per necessità di cambiare registro di quando in quando che per una vera intenzione di dar parola ai personaggi. Questi, dal canto loro, pur se ben tratteggiati faticano a trovare la loro vera essenza e a risaltare quanto basta da suscitare una vera simpatia in chi legge.
Non ho l’autorità di decretare se Brooks sia o no uno scrittore che merita il suo successo- tra l’altro ho apprezzato alcune sue opere- ma su una cosa non transigo: se mi trovassi davanti l’editore che gli ha pubblicato “La Spada di Shannara”, gliene canterei quattro e gli farei i complimenti per averci buggerati tutti presentandoci Shannara come la più grande novità del suo tempo. Il primo romanzo della saga, infatti, è una brutta copia de “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, senza nemmeno un vero tentativo di nascondere la cosa.
Sotto le mani di Brooks, la trama si fa noiosa, allungata come un brodo, del tutto priva della potenza e dei significati di cui Tolkien si era fatto latore. Cambiare nomi e dettagli è inutile quando la scansione degli eventi rimane la stessa, palese a chiunque abbia letto entrambi i libri. Il romanzo racconta di Shea Ohmsford, ragazzo in parte elfo, che viene mandato da un misterioso druido di nome Allanon alla ricerca della Spada di Shannara per poter sconfiggere il redivivo Signore degli Inganni. Il libro è stato con tutta evidenza costruito passo passo su uno schema ricavato dal romanzo di Tolkien. E’ sorprendente come questo libro abbia potuto essere anche solo preso in considerazione dal mondo editoriale. L’unico dettaglio degno di nota è l’ambientazione, un mondo che si scoprirà erede del nostro, distrutto dalle guerre, in cui gli uomini convivono ora con le creature del mito.
La saga riprende un po’ fiato nel secondo episodio, che si svolge circa cinquant’anni dopo le vicende di Shea. Il protagonista, stavolta, è il nipote Wil, il quale dovrà accompagnare la giovane elfa Amberle in una disperata missione alla ricerca del Fuoco di Sangue per permettere la rinascita dell’Eterea, l’albero magico che trattiene i demoni in un limbo tramite un divieto che sta cedendo. Sarà Allanon, come sempre, a tirare le fila dell’impresa. Benché anche questo romanzo inizi sottotono e le battaglie siano un evidente richiamo a quelle più viscerali del Fosso di Helm e di Minas Tirith, da metà in avanti la storia assume connotati propri, i sentimenti dei personaggi diventano meno schematici e più sentiti. Anche la figura del druido Allanon si discosta da quella del saggio Gandalf per velarsi di un’inaspettata fragilità.
Ne “La canzone di Shannara”, finalmente, Brooks prende una direzione tutta sua e racconta le vicende di Bri e Jair, i figli di Wil, in maniera più coinvolgente e con meno rimandi a Tolkien. La figura di Allanon viene eviscerata in profondità, conferendo un maggiore spessore umano alla vicenda.
Leggere Shannara oppure no? Ai posteri l’ardua sentenza. Se non avete ancora letto il Signore degli Anelli, siete di bocca buona oppure ritenete giusto dare almeno un’occhiata alle saghe che hanno portato il fantasy dove è oggi, allora la risposta è sì. Se siete ipercritici come la sottoscritta, lasciate perdere. Esistono tanti libri meravigliosi, a questo mondo…

lunedì 12 dicembre 2011

Il Signore delle Mosche

Ci troviamo su un’isola. Sì, esatto: un’isola deserta e incontaminata, nel bel mezzo dell’oceano. Una terra fatta per i naufraghi, se mai ne è stata inventata una. Difatti, questo sono i protagonisti del romanzo che vi accingete a leggere: naufraghi scampati a uno spaventoso incidente aereo. Fin qui, niente di nuovo.
Il cliché, però, viene subito evitato dalla natura di questi naufraghi. I sopravvissuti sono bambini di tutte le età, inizialmente in fuga da un Paese in guerra, che non hanno ben chiaro né dove fossero diretti né cosa è successo all’aereo che li stava trasportando. Sanno solo di essere stati scaricati in mare durante un attacco e di essere soli…chissà per quanto tempo.
L’isola, fortunatamente, sembra fatta apposta per accogliere i bambini nel più pacifico dei modi, permettendo di pensare positivamente al loro futuro. Ampie spiagge bianche, mare caldo, frutta abbondante. Il luogo ideale per una vita fatta di giochi, innocenza, meraviglia.
Sembra questo il contesto in cui muovono i primi, scanzonati passi Ralph, il biondo ragazzo carismatico, Piggy, il grassone miope sempre agitato e preso in giro da tutti, Jack, il capo-coro con manie di grandezza, e tutti gli altri piccoli.
Ralph viene insignito del ruolo di capo, sancito dal possesso di una meravigliosa conchiglia dal suono potente. Sarà lui a decidere come scandire la giornata dei bambini, a conferire ruoli e missioni e- su suggerimento di Piggy- a fare in modo che si possa accendere un fuoco per le segnalazioni, in maniera da essere ritrovati e salvati al più presto.
L’isola, però, è grande e misteriosa. Occorre esplorarla, verificarne i limiti, e i bambini avranno anche bisogno di una dieta alimentare che preveda il consumo di carne, quando possibile. Per questo motivo, i ragazzi più grandi decidono di esplorare l’isola. Scoprono così che la situazione non è tutta rose e fiori: nel folto sembra nascondersi qualcosa di oscuro e terrificante, forse una bestia d’incubo da cui bisogna assolutamente stare alla larga.
Inoltre, Jack diventa capo dei cacciatori e ben presto le sue rischiose avventure lo rendono più affascinante di Ralph agli occhi degli altri. Comincia così una degenerazione che si diffonderà come una malattia, fino ad arrivare alla follia pura incarnata nel nuovo idolo: la testa mozzata di un verro, attraverso cui si manifestano la voce e la volontà del Signore delle Mosche.
In questo terrificante romanzo del 1954, William Golding infrange il mito dell’infanzia innocente e “buona per natura”, dimostrando che in un ambiente selvaggio e privo di controllo anche gli infanti si comportano come gli adulti: creano gruppi, si scontrano, prendono comportamenti sempre più anarchici e distruttivi fino a sfociare nella violenza più efferata.
D’altra parte, ha una sua logica. I bambini esprimono senza filtri tutto ciò che provano, siano sentimenti positivi, come il cameratismo e il senso del gioco, oppure negativi, come la paura e la rabbia. L’uomo adulto è tale perché, in teoria, è riuscito a dominare le proprie pulsioni e a sottometterle alla ragione. Il fatto che il mondo sia nel bel mezzo di una guerra micidiale mostra, nel romanzo, come il livello degli adulti non sia poi molto differente da quello dei bambini. Viene solo ricoperto da una patina di maggiore serietà e civiltà, quando i processi psichici e sociali sono invece identici.
Golding è implacabile nel mostrare quanto poco può il raziocinio contro l’istinto. La caccia attrae, tenta, trascina tutti. Perfino Ralph desidera prendervi parte e resiste più per confusione e paura che per forza di volontà. Piggy, che incarna l’unico adulto presente sull’isola, diventa il bersaglio, il capro espiatorio di una situazione sempre più al limite.
Il Male si incarna nella testa di verro, nelle mosche che gli ronzano attorno e gli danno voce, ma il confine tra la Bestia demoniaca e l’orrore insito nella natura umana si confonde e si perde, lasciando aperta all’interpretazione la sua natura.
La speranza è lasciata nelle mani di un ragazzo che in fondo, a parte la bellezza e il carisma, non possiede né l’intelligenza né la forza per imporsi. Non riesce nemmeno a difendere il suo braccio destro, né il fuoco che dovrebbe richiamare l’aiuto degli adulti. Impotente, vede il paradiso trasformarsi in un inferno da cui non c’è scampo.
Una caduta negli abissi dell’animo umano, un romanzo indimenticabile e mozzafiato che dovrebbe essere presentato più spesso ai giovani lettori.

lunedì 5 dicembre 2011

Il Teatro giapponese

Il Teatro Giapponese è così profondamente ancorato alle tradizioni del magico Paese orientale da essere pressoché incomprensibile a tutti i profani. Difficile quindi che nasca un interesse tale da spingere ad approfondire la questione, anche per chi di teatro si occupa (ma solo nella sua accezione ‘occidentale’) o per i patiti del Giappone.
Nel suo “Il teatro giapponese”, stampato presso PAGINE, Pietro Seddio cerca di scrivere un saggio che sia da introduzione a un argomento veramente molto complesso, che necessita di molta pratica visuale oltre ad uno studio teorico.
Il teatro in Giappone affonda le sue radici nella tradizione religiosa, come anche in occidente, ma la sua evoluzione ha preso una strada molto diversa, tanto da diventare mezzo di comunicazione prevalentemente gestuale e spirituale. Il teatro occidentale è un teatro della parola, di analisi psicologica, in cui lo scorrere della vicenda ha un’importanza fondamentale. Quello orientale tradizionale ha valori e tempistiche completamente differenti. La trama è schematica, i gesti sono codificati, simbolici. Spiriti e personaggi in carne e ossa si susseguono sulla scena, in un continuo alternarsi di passato e presente. Le rappresentazioni sono accompagnate dalla musica, spesso la parte vocale è cantata (come nel nostro melodramma).
Seddio, riconoscendo la difficoltà dell’argomento trattato, inizia cercando di dare una panoramica sintetica ma esaustiva della storia del Giappone e delle sue radici religiose e culturali. Si sofferma particolarmente sull’analisi dello shintoismo, la religione animista locale praticata più come atteggiamento verso il Creato che come fede vera e propria, e del Buddhismo, giunto in Giappone dall’India e dalla Cina e affermatosi per lungo tempo come Religione di Stato.
Furono proprio i monaci i primi a diventare attori e registi di spettacoli paragonabili alle nostre rappresentazioni sacre medievali. Influenzati dalla musica e dalle danze coreane e cinesi, i giapponesi presero spunto dalle civiltà vicine per creare poi qualcosa di prettamente nazionale, peculiare dal principio alla fine.
L’autore entra poi nel dettaglio, spiegando origini e caratteristiche dei principali generi teatrali tradizionali.
Il primo della lista è il teatro No, oggi molto conosciuto anche in Occidente, anche se poco compreso. Il No è un teatro d’elite, per pochi, nato nei templi e nelle corti e portato avanti nei secoli con pochissime modifiche. Lo spazio scenico è quadrato, i posti per il protagonista e il narratore sono fissi ai due angoli del palco. Una passerella unisce le quinte al palco, consentendo il passaggio degli attori. Una sorta di veranda laterale ospita il coro. La recitazione segue schemi ben precisi, gli attori sono riccamente abbigliati e indossano maschere che ne identificano il carattere (volendo fare un paragone ardito, come nella nostra Commedia dell’Arte).
Gli argomenti trattati sono sacri, o tratti dalle antiche leggende e dai miti della terra giapponese. Di quando in quando vengono messe in scena storie di grandi eroi o santi. Solo gli attori maschi possono recitarvi.
Il secondo grande genere teatrale tradizionale è il Kabuki, nato in epoche successive in ambienti popolari. Inizialmente fatto da donne, prostitute, in seguito fu loro proibito e portato avanti prima da fanciulli (a loro volta usati per il piacere altrui) e poi da uomini, che si divisero i ruoli facendo nascere la figura dell’onna-gata, l’attore specializzato in ruoli femminili.
Il Kabuki è un teatro più passionale, fatto di amore, scontri, attualità, tanto da aver avuto fama di scabroso. Il tema del sacrificio è spesso presente, riflesso della cultura giapponese, ma le rappresentazioni conservano momenti di divertimento, gioia. La danza e la musica sono affiancate da una recitazione che si rifà alla tradizione delle marionette (ningyo-shibai). I costumi di scena sono curati e splendidi, la scenografia e il palco spesso vengono dotati di congegni e trabocchetti per ottenere spettacolari effetti speciali.
L’ultimo capitolo tratta dell’occidentalizzazione del teatro in Giappone, con la nascita di produzioni più vicine alla nostra concezione teatrale. Segue un glossario per aiutare il lettore a destreggiarsi attraverso i tanti termini giapponesi.
Purtroppo la recensione a questo saggio non può dirsi positiva. Una volta apprezzato lo sforzo e il coraggio nel presentare al pubblico italiano questo argomento di nicchia, su cui si trova pochissimo materiale, le critiche positive possono dirsi concluse.
Il testo è scritto male, pieno sia di errori di battitura che sintattici. E’ evidente la mancanza di un controllo di qualsiasi tipo sul testo prima della stampa. Le nozioni non teatrali sono fornite con poca chiarezza e spesso, conoscendo almeno in parte la situazione religiosa giapponese, viene il dubbio che l’autore non ne abbia colto il profondo significato esoterico.
Dispiace la totale mancanza di accenni al moderno Takarazuka, un teatro di sole donne che mette in scena spettacoli grandiosi e molto kitsch dal grandissimo successo.
Inoltre i termini giapponesi sono traslitterati malissimo, spesso nemmeno nello stesso modo da una pagina all’altra. L’autore ignora, o ha fatto a meno di utilizzare, la comune traslitterazione delle sillabe nipponiche.
La lettura è consigliata solo ai veri appassionati dell’argomento, che potranno utilizzare il saggio per farsi un’idea e continuare poi le ricerche altrove. In caso contrario, stasera leggetevi un romanzo d’avventura o guardatevi un film!