mercoledì 13 febbraio 2013

Venuto al mondo


Il romanzo di Margaret Mazzantini, che fa mostra di sé in tutte le librerie ed è edito da Mondadori, in questo momento è alla ribalta per la trasposizione cinematografica attuata da Sergio Castellitto. La copertina stessa ne è un rimando immediato, in quanto vi sono raffigurati i due attori protagonisti.
La storia si avvolge attorno a due tematiche principali: il miracolo della maternità, che può rivelarsi facilmente una dannazione, e la facilità con cui l’esistenza sa scivolare nel caos, esemplificata dal sanguinoso episodio della guerra in Bosnia, scoppiata all’inizio degli anni ’90.
L’autrice ci fa vedere il mondo attraverso gli occhi della protagonista, Gemma, una donna di cinquant’anni sposata con un ufficiale dei Carabinieri e con un figlio di sedici anni, Pietro, ultima traccia di un amore che le ha segnato l’esistenza. La vita, in qualche modo placida e monotona, disturbata solo dalle prime ribellioni adolescenziali del ragazzo, viene sconvolta alla radice da una telefonata che arriva da Sarajevo.
All’altro capo del telefono c’è Gojko, il vecchio amico, il poeta matto e amaro, ma in realtà c’è il suo passato. Ci sono dolori mai sopiti, un amore che le ha scavato ferite nella carne e nell’anima, ricordi di un eccidio senza senso e di morti che sanno corrodere la capacità di provare emozioni fino a non lasciarne traccia.
Gemma ha paura, ma non può resistere al richiamo. Parte per Sarajevo, la città del suo destino, trascinandosi dietro un recalcitrante Pietro. Lo scopo apparente è vedere una mostra di fotografie di Diego, padre di Pietro, morto in terra straniera durante il suo lavoro di corrispondente di guerra. Quello vero è rivivere la propria tragedia e tentare di far entrare nel cuore di quel ragazzo una qualche immagine del padre mai conosciuto.
Sarajevo le restituirà il suo passato, offrendole alla fine anche alcune risposte che non avrebbe mai immaginato la attendessero.
Il linguaggio della Mazzantini è materico, ha sapore e odore nonostante utilizzi la prima persona e sia quindi naturale trovare ampi paragrafi di pensieri, riflessioni. Si comprende subito che le scelte linguistiche sono state fatte con coscienza, in una ricerca quasi parossistica del termine giusta, delle associazioni tra immagine e parola. Un linguaggio che ha una sua poesia e come tale spesso colpisce prima il sentire più nascosto, palesando il proprio significato alla mente solo in seguito.
Nonostante questo lavoro cerebrale, che se mal diretto e utilizzato avrebbe avuto lo sgradevole sapore dell’esercizio di stile fine a se stesso, nel romanzo è presente anche molto cuore. Cuore e sangue. Ce n’è tanto da farci il bagno, ci si compenetra completamente nella condizione perduta, viscerale, disperata in cui crollano via via i personaggi, nel lungo riandare della memoria.
La capacità di mettere al mondo dei figli assume un’importanza capitale nell’esistenza di una donna, ossessione che è follia lucida, ragionata, quasi scientifica. Quando la maternità viene negata dalle menomazioni del proprio corpo, la mente si riempie d’odio, le relazioni d’amore si tingono di egoismo, ripicche. Un gesto d’amore diventa opaca determinazione di ottenere ciò che non si ha, ciò che si invidia con anima nera della felicità altrui.
Gemma arriverà a fare qualunque cosa, a perdere ogni rispetto per se stessa, ogni pudore o freno pur di ottenere quel bambino che agogna, anche se sa che non sarà l’immagine dell’amore tra lei e Diego, anche se significherà rubare e mercanteggiare sulla vita come se fosse una merce.
Il suo delirio finisce per essere preso a schiaffi dall’orrore che le capita attorno, da quella Sarajevo violata in cui la gente muore sotto il tiro dei cecchini, in cui la città esplode perdendo il proprio volto, il pane si imbeve di sangue. Violenza insensata sotto gli occhi di un’Europa che fatica a intervenire, a forze di pace che non hanno grande potere di intervento e sono costrette a lasciare il Paese alla devastazione sistematica di un odio che mette tutti contro tutti.
Pietro, figlio di quella guerra, figlio di un amore che si è preso a morsi, vaga per Sarajevo senza immaginare che tutto ciò su cui posa distrattamente gli occhi racconta la sua storia, quella di sua madre e quella di quel fotografo dal cuore bambino che non è più tornato a casa.
Una lettura intensa, che a tratti sa far male.

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