mercoledì 16 gennaio 2013

La leggenda del vento

Tra le opere immani di Stephen King, famoso anche per le dimensioni dei suoi romanzi, spicca senza ombra di dubbio la saga fantasy-western de La Torre Nera, scritta dall’autore americano nell’arco di una trentina d’anni e composta da ben sette romanzi.
La storia del pistolero Roland e della sua ricerca della Torre Nera, fulcro degli Universi, insieme al suo sgangherato gruppo di compagni raccolti nei punti di contatto tra i mondi, ha incantato e appassionato i lettori per molti anni, regalando grandi colpi di scena, avventura e molte lacrime. La saga ha avuto il suo corso e si è conclusa alcuni anni fa. Nessuno, a quanto pare nemmeno King, poteva immaginare che Roland non ci avesse ancora detto tutto.
In effetti, il viaggio del pistolero e del suo ka-tet è talmente lungo e vario che i buchi da riempire, volendo, sono tanti. King non sembra avere questo in mente nel mettersi a scrivere “La Leggenda del Vento”, ma il romanzo si colloca in un imprecisato momento di cammino tra il quarto e il quinto romanzo della saga. Si tratta di un piccolo imprevisto che costringerà i protagonisti a una sosta forzata, da riempire in qualche modo…magari con un racconto davanti al fuoco.
Comincia così, con l’arrivo di una micidiale tempesta di gelo chiamata starkblast, questa fiaba tripla, narrazioni contenute l’una nell’altra come matrioske.
Roland, infatti, racconta ai compagni di ventura un episodio della sua adolescenza, il quale racchiude a sua volta la narrazione di un’antica fiaba della sua terra, Gilead, che sua madre gli leggeva quand’era solo un bambino.
L’obiettivo dell’autore è quello di creare una storia che possieda una sua indipendenza dalle vicende della saga originale, in maniera da essere godibile anche da un lettore che non ne abbia mai letto una riga. Un traguardo nient’affatto facile da raggiungere, vista la complessità della storia di Roland e le molteplici caratteristiche fantastiche dei mondi che attraversa.
Per riuscirci, inizialmente King utilizza una prosa più scarna del suo solito, senza indulgere in spiegazioni, riassunti degli episodi precedenti, tratteggi psicologici dei personaggi. Ci catapulta in mezzo a Roland e ai suoi compagni offrendoceli a scatola chiusa, per quello che sono, con un occhio oggettivo che ricorda molto le pagine iniziali del primo romanzo. Non si cerca l’affezione, impossibile da ottenere con poche righe, ma solo di dipingere con poche pennellate il contesto da cui partirà la favola.
Proprio nell’iniziare il racconto di un Roland adolescente, il tono cambia e si fa più morbido, colloquiale, riportando alle reali atmosfere che caratterizzano la storia del pistolero. Il corpo centrale del romanzo, la fiaba che dà il titolo al tutto, è una chicca in cui King fa ciò che gli riesce meglio: confezionare un’avventura in cui speranze e paure dell’infanzia la fanno da padroni.
Roland racconta del suo viaggio a Debaria, nel tempo in cui era ancora un giovane pistolero, alla ricerca di un efferato assassino. Questi, purtroppo, non è un semplice uomo bensì uno skinman, un cambiaforma. Dopo l’ennesimo attacco sanguinoso, Roland prende in consegna il piccolo Bill, unico testimone rimasto in vita che potrebbe riconoscere la vera forma dell’assassino.
In attesa di veder sfilare i sospettati e per tenere Bill tranquillo, il giovane Roland gli racconta una favola che risale alla sua infanzia: la storia del piccolo Tim, un bambino coraggioso che vive ai margini della Foresta Infinita. Per salvare la propria madre dalla violenza del patrigno, Tim farà l’errore di fidarsi di un oscuro figuro venuto da Gilead e si inoltrerà nella Foresta a rischio della vita per incontrare il leggendario Maerlyn e ottenere da lui una cura per i danni alla vista subiti dalla madre. La fiaba è cruda, violenta, poco consolatoria, ma contiene quel grano di speranza di cui ogni bambino – e, di conseguenza, ogni adulto - ha bisogno. Sarà uno starkblast, una tempesta identica a quella che nel presente sta tenendo bloccati Roland e i suoi, ad offrire a Tim la possibilità di ottenere ciò di cui è in cerca. Il cerchio si chiude, le storie terminano una dietro l’altra e il cammino dei pistoleri riprende da dove si era interrotto.
Conoscendo bene la saga, non saprei affermare se King riesce nell’intento di offrire il romanzo anche a lettori ignari della Torre Nera. Per chi ha seguito con amore Roland e il suo ka-tet fino alla fine del viaggio, un dono gentile da leggere tutto d’un fiato.

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