lunedì 20 gennaio 2014

La Regina scalza

Reduce dalla lettura di “La cattedrale del mare” (potete leggere la recensione qui), in cui rivelavo di aver trovato nella scrittura di Ildefonso Falcones dei lati positivi che speravo potessero evolversi nelle opere successive, mi sono accinta alla lettura degli altri due romanzi scritti da questo autore.
“La mano di Fatima” non mi ha favorevolmente colpita, anzi. Per quanto la prosa fosse scorrevole e l’argomento di sicuro interesse (la rivolta moresca in Spagna), non ho avvertito alcuna affezione per i personaggi. L’elefantiaca dimensione del romanzo non ha aggiunto nulla alla trama e il mio interesse è scemato sempre più col proseguire della lettura. Contrariata, in quanto ritengo che questo autore spagnolo sia capace di ben altro, mi sono intestardita e ho caricato a testa bassa il terzo romanzo, “La regina scalza”. Il rapporto con questa storia è stato decisamente più intenso, ed ecco quindi la recensione.
Il romanzo prende in esame due piaghe rimaste nella storia d’Europa come macchie indelebili, su cui però spesso si fa un colpevole silenzio. Ricordiamo senza fallo gli orrori dei lager e dei genocidi del XX secolo, ma ci siamo scordati che episodi analoghi si sono verificati a più riprese nell’arco dei secoli, nella civiltà occidentale.
“La regina scalza” tratta sia della schiavitù dei neri, deportati dall’Africa e mandati a lavorare nelle piantagioni coloniali americane, diventando meri oggetti di proprietà la cui unica possibilità di essere liberi – di norma – era la morte, sia le contraddizioni e l’emarginazione del popolo zingaro, giunto in Europa da qualche secolo e fin da subito perseguitato per il disordine sociale di cui si è sempre fatto promotore.
Falcones cerca di gettar luce su questi aspetti imbarazzanti della storia spagnola (e non solo) facendoci vivere la situazione dal di dentro, scegliendo come protagoniste una schiava liberata, la bella e insicura Caridad, e la sfrontata zingarella Milagros, cui la vita insegnerà che i capricci hanno breve vita e la dignità è molto difficile da conservare.
Attraverso l’arco di alcuni anni, si dipanano le vicende di queste due amiche. La prima, abituata a subire e ad eseguire gli ordini, riscoprirà la propria femminilità, la bellezza dei propri canti dolorosi, la capacità di scegliere da sé il proprio destino, e troverà un uomo da amare senza essere costretta a diventare un oggetto sessuale, una bambola muta e obbediente. La piccola Milagros, ballerina e cantante assisterà invece all’arresto e alla persecuzione della propria gente. Impuntandosi su un matrimonio sconveniente con una famiglia rivale, pagherà sulla propria pelle la scelta sbagliata, perdendo la libertà e la dignità.
Falcones tenta l’azzardo di scegliere due donne come protagoniste, e riesce nell’intento di renderle vere e profonde, capaci di attirare il lettore nelle loro vicende e far desiderare di saperne di più, di leggere ancora qualche pagina prima di posare il libro sul comodino. Le descrizioni storiche e geografiche sono inserite con maggiore naturalezza rispetto alla prima opera, a volte perfino con l’utilizzo di dialoghi, mai troppo didascalici.
Lungo la trama si muovono molteplici personaggi, tutti dotati di una personalità propria, ben definita. L’orgoglio gitano si respira in ogni riga che Falcones dedica loro, pur nella descrizione priva di tatto dei loro difetti e dei loro mille modi di aggirare la legge. La pena e la desolazione di Caridad rispecchia il vuoto della schiavitù. La musica è il legante delle loro storie, espressione del dolore come della gioia, arte meravigliosa che restituisce umanità anche ai reietti, agli ultimi della società.
Le note dolenti iniziano a un centinaio di pagine dalla fine. A parte il crescendo di violenza (le descrizioni molto grafiche di stupri e omicidi non mancano e, a mio avviso, sono spesso gratuite), sul finire ho ritrovato i difetti che mi avevano fatto storcere il naso con “La cattedrale del mare”. I personaggi mutano considerevolmente in funzione di ciò che l’autore ha deciso di fare accadere e psicologie così ben modellate pagine prima sfumano e si sfaldano ai bordi, facendo perdere il contatto con le vicende narrate.
Si chiude con un finale quasi poetico, un’immagine davvero toccante, ma questo non cancella il calo di qualità dell’ultima parte del romanzo. Un libro divorato al 75%. Ci siamo quasi.

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